ELEZIONE e IDEALE nella VITA CRISTIANA e nella RIVELAZIONE

Cristo e l'adultera - da Antonio Molinari

Cristo e l’adultera – da Antonio Molinari

ELEZIONE e IDEALE nella VITA CRISTIANA e nella RIVELAZIONE

  1. Ideale: origine e nella Scrittura

Il vocabolo “ideale” viene definito dai lessici migliori come: 1 – che è proprio di un’idea considerata come modello di perfezione; 2 – che solo esiste nel pensiero; 3 – che si accoppia perfettamente ad un modello o Archetipo (“l’ideale sarebbe partire domani”); o 4 – valore a cui si ispira; scopo nobile e generoso per cui si agisce (“lottare per un ideale”), anche se non attuale, ma che ispira le azioni perché si avveri.[1] La derivazione etimologica è da idea, che ha una gamma un po’ più varia di significati, legati a quello di: visione, immagine, di rappresentazione mentale che può corrispondere ad un oggetto o realtà esteriore, oppure anticipatrice o intuitrice di essa, ecc.[2]

        Idea deriva dal latino idēa = immagine, forma, aspetto, e questa a sua volta del greco ἰδέα = idea. Quest’ultimo appare nella Bibbia molto raramente, solo in Genesi 5,3 ed in Matteo 28,3.

     Il significato in Matteo si rivela come molto più semplice. Si descrive uno degli angeli che annunciano la risurrezione di Gesù, affermandosi: Il suo aspetto era come di folgore e la sua veste bianca come neve (Mt 28,3). La parola greca corrispondente a aspetto è propriamente eivde,an (la scrittura con “e” rappresenta la forma più originale del termine).

      In Gen 5,3 la determinazione del significato è un po’ più complessa, a causa del parallelo con Gen 1,26. Cominciamo con 5,3: Quando Adamo ebbe centotrent’anni generò un figlio a sua somiglianza, conforme all’immagine sua, e lo chiamò Set. Ci ricorda, ovviamente, il testo sulla creazione particolare dell’uomo, il che troviamo proprio in 1,26: E Dio disse: «Facciamo l’uomo secondo la nostra immagine, come nostra somiglianza». Il fatto che entrambi i termini: immagine – somiglianza, siano in ordine inverso in 5,3 rispetto a 1,26, non si deve ad un capriccio di traduzione. Si trovano, infatti, in questo ordine già nel originale ebraico del testo della Bibbia dove i termini utilizzati sono gli stessi per ogni caso ed in ordine inverso per ciascuno dei versi: tsélem per “immagine”, demūt per “somiglianza”.

       Il dettaglio ha la sua importanza, perché nel testo greco della versione Septuaginta (LXX) si osserva una differenza: eikona (eikóna) per “immagine” e omoiwsin (omoíōsin) per “somiglianza”. Questo accade in 1,26, mentre che 5,3 legge, in ordine rovesciato come nell’ebraico: kata thn idean (katá tēn idéan, “secondo la sua somiglianza”) e kata thn eikona (katá tēn eikóna, “a sua immagine”). In questo caso, mentre che il termine usato per “immagine” non cambia, vediamo che per “somiglianza” il termine cambia affatto: omoíōsin in 1,26 significa solo “simile nella sostanza”, mentre idéan in 5,3 ha tutto il valore semantico che abbiamo ormai presentato. Il fatto che la Bibbia greca collochi ambedue come sinonimi è altamente significativo: Questo modello o archetipo è della stessa sostanza di chi lo genera. Nel caso di Mt 28,3, può servire a indicare che l’”aspetto” glorioso dell’angelo non è solo un’apparenza, ma una reale rappresentazione della sua vera condizione celeste.

      Le poche ricorrenze che abbiamo trovato nella Bibbia portano ad analizzare un altro termine, di significato simile, che appare molto più nel testo sacro, ed è skopoV (skopòs), la cui gamma di significati in greco è abbastanza estesa; spesso significa: veglia, sentinella, come in 2Sam 18,26 ed in Ez 33,6. Il senso di “bianco” come un centro fisico il quale deve raggiungere la freccia lanciata dall’arciere neppure gli è sconosciuto (Sap 5,12; 5,21), ma sembra sia nel Nuovo Testamento (NT) dove prende il significato (metaforico all’inizio ma che diventa proprio con l’uso che se ne dà), di obiettivo, meta. L’esempio più chiaro è Fil 3,14, dove Paolo ci avvisa che è in corsa: Corro verso la mèta, al premio della celeste chiamata di Dio in Cristo Gesù.

            Entrambi i termini meritano probabilmente un analisi esegetica più dettagliata, ma già si può intravedere che, mentre idea (e per estensione: ideale) comprende il significato di “archetipo perfetto”, perfino nella sostanza, skopòs è invece più funzionale, e significa un “obiettivo al quale è possibile tendere e che può essere perfettamente raggiunto”.

  1. Quale è l’ideale proposto da Gesù?

Il testo del NT non mette in bocca di Gesù nessuno dei termini che abbiamo analizzato. Ciononostante, non bisogna essere un esperto per rendersi conto che il concetto di “meta” verso la quale si dovrebbe tendere, è certamente stato esposto da Gesù in diverse occasioni, molto chiaramente e con molta esigenza.

         Il più chiaro esempio – anche se non l’unico – è forse la celebre sentenza del discorso della Montagna: Voi dunque siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro celeste (Mt 5,48). L’affermazione trova il suo parallelo nella legge di Mosè, ed è indicata anche dall’apostolo Pietro, in una delle sue lettere, ma con una tonalità diversa. Abbiamo letto più volte nel Levitico: Siate santi, perché io sono santo (Lv 11, 44.45; 19,2; 20, 7.26), in mezzo a un gran numero di prescrizioni legali, e anche in 1Pt 1,16, questa volta per quanto riguarda “tutta la vostra condotta” (1,15), che ci consente di intendere che gli Apostoli hanno interpretato il giudizio del Levitico sulla legge non come una semplice santità legale o rituale. In ogni caso, la frase di Gesù ha una particolarità, e questa consiste nel fatto che non viene utilizzato l’aggettivo santo (a[gio,j), impiegando invece il vocabolo perfetto (te,leio,j), dotato dall’inconfondibile sfumatura greca di “scopo, realizzazione, pienezza”.[1]

            Avevamo avvertito che non si trattava dell’unico testo, e questo è vero. La famosa sentenza di 5,20, anche nel discorso montano: Io vi dico che se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei, non entrerete affatto nel regno dei cieli, citata a volte in modo contraddittorio, è un altro chiaro esempio dove non solo si insegna che lo scopo o l’obiettivo bisogna situarlo al di sopra della “giustizia” (la santità, l’integrità, la morale) degli scribi e dei farisei, ma i fedeli vengono anche avvertiti che non superando quel grado di giustizia, non si entrerà nel Regno, ossia, non si raggiungerà la salvezza. Sembra più un obiettivo di minima che uno di massima. Esistono dichiarazioni simili di Gesù, che malgrado mostrino senza dubbio un grande atteggiamento misericordioso da parte sua, non sono per questo meno solenni o terribili, come: «Ecco, tu sei guarito; non peccare più, ché non ti accada di peggio», detto al paralitico di Betsaida (Gv 5,14) e la famosa frase all’adultera: «Neppure io ti condanno; va’ e non peccare più» (Gv 8,11). Resta chiaro, a tutti gli effetti, che la meta alla quale Gesù chiama bisogna situarla al di sopra dell’orizzonte del peccato, costituendo questo una barriera al di sotto della quale l’uomo si espone ad essere escluso della salvezza, e quindi a non approfittare più della Misericordia divina. Gesù ha fatto uso della sua misericordia per salvare tanti dal peccato, pure dai più atroci peccati, ma avverte che non è costretto a farlo sempre, nel caso in cui non vi sia alcuna corrispondenza alla sua chiamata.

            E’ chiaro, quindi, a quale tipo di obiettivo o meta chiami Gesù. D’altronde, sarà sicuramente meglio chiamarlo in questo modo e non semplicemente ‘ideale’, perché Gesù assicura che l’obiettivo è un obbiettivo possibile da realizzare, con la propria collaborazione ed aiuto.[2] L’ideale è in definitiva lo stesso Cristo. E’ vero che ci sarà un punto specifico di arrivo e una portata massima raggiunta da ognuno nel suo percorso terreno, la quale sarà sicuramente diversa per ognuno, ma l’imperativo di “essere perfetto” è stato detto per tutti, pur se sarà soddisfatto con delle modalità diverse. Non esiste chiamata alcuna ad un ideale mediocre, o soltanto possibile. L’ideale è sempre al di sopra del confine tra il peccato e le buone opere, e non compatibile con l’esistenza del primo.

         Lo stesso vale per l’ideale proposto dalla Chiesa e dall’intera tradizione cristiana: «Solo nel mistero della Redenzione di Cristo stanno le ‘concrete’ possibilità dell’uomo. “Sarebbe un errore gravissimo concludere… che la norma insegnata dalla Chiesa è in se stessa solo un “ideale” che deve poi essere adattato, proporzionato, graduato alle, si dice, concrete possibilità dell’uomo: secondo un “bilanciamento dei vari beni in questione”. Ma quali sono le “concrete possibilità dell’uomo”? E di quale uomo si parla? Dell’uomo dominato dalla concupiscenza o dell’uomo redento da Cristo? Poiché è di questo che si tratta: della realtà della redenzione di Cristo. Cristo ci ha redenti! Ciò significa: Egli ci ha donato la possibilità di realizzare l’intera verità del nostro essere; Egli ha liberato la nostra libertà dal dominio della concupiscenza”. E se l’uomo redento ancora pecca, ciò non è dovuto all’imperfezione dell’atto redentore di Cristo, ma alla volontà dell’uomo di sottrarsi alla grazia che sgorga da quell’atto».[3]

            La dottrina cattolica non fa altro che riproporre le parole di Cristo: “Va’ e non peccare più” (Gv 8,11). Quindi, quando si afferma che Gesù cammina con noi, che ci propone l’ideale, che ci accompagna verso questo ideale, come se dicesse: “Ma dovete fare solo quanto possibile”, ciò che la gente può – espressioni d’altronde mai pronunciate da Gesù – questo non può venire inteso nel senso che implichi la possibilità di convivere con qualsiasi situazione di peccato, pur se fosse possibile catalogare questa come una situazione puramente “oggettiva di peccato” senza entrare nel merito dell’intenzione o volontarietà delle persone.

            La misericordia di Dio (e di Cristo in particolare) non è essente di comprensione della debolezza umana, come mostrano tra l’altro episodi come quello dell’adultera (Gv 8, 1-11) e della Samaritana (Gv 4, 7-29). «Questa comprensione non significa mai compromettere e falsificare la misura del bene e del male per adattarla alle circostanze (…) è invece inaccettabile l’atteggiamento di chi fa della propria debolezza il criterio della verità sul bene (…) Un simile atteggiamento corrompe la moralità dell’intera società, perché insegna a dubitare dell’oggettività della legge morale in generale e a rifiutare l’assolutezza dei divieti morali circa determinati atti umani, e finisce con il confondere tutti i giudizi di valore».[4]

  1. La concezione luterana

          I Vangeli presentano molti dialoghi di Gesù con i peccatori, molti incontri con loro. Incontri con Dio avvenivano già nell’Antico Testamento (AT), ma nel Nuovo, con Gesù, questi incontri diventano un atteggiamento quasi costante. In tutti i casi, senza eccezioni, Gesù invita a lasciare il peccato e spesso lo fa tramite un forte avvertimento. La misericordia di Cristo raggiungerà i peccatori più abietti, gli offrirà il soccorso perché sono di esseri umani, chiamandoli ad essere figli adottivi di Dio, ma sempre con la condizione di lasciare il peccato. La misericordia non entra in trattative con il peccato in sé, con il peccato in quanto peccato. E’ vero che, tra i perdonati da Cristo, incontreremo chi amerà di più e chi di meno; lo stesso Signore l’ha fatto capire: I suoi molti peccati le sono perdonati, perché ha molto amato. Colui invece al quale si perdona poco, ama poco (Lc 7,47), ma tutti sono chiamati alla pienezza di amore: Siate santi, perché il Padre vostro celeste è santo, e ad ognuno sarà chiesto, in definitiva, che alla fine amino Dio attraversando la barriera dell’affetto al peccato, giacché altrimenti non dimostrerebbero di amare Dio. Il Rico Epulone della conosciuta parabola non lasciò il suo affetto per il peccato e non oltrepassò quella barriera, ad esempio (cfr. Lc 16, 24-25).

            Questo sembra ovvio nella tradizione cristiana, ma non lo è nel luteranesimo, ad esempio, dove il concetto di “giustificazione”, vale a dire, il diritto alla salvezza eterna, è un impegno e un’azione meramente estrinseca fondata nel ‘credere in Gesù’, nel suo potere, e nell’avere fiducia (fides per Lutero) che mi salverà, ma dove non c’è la forza trasformante quella che cambia il peccatore e lo rende giusto interiormente, davanti a Dio.

        Quando si dice che “oggi luterani e cattolici, con tutti i protestanti, siamo d’accordo sulla dottrina della giustificazione” e che “su questo punto tanto importante (la giustificazione) lui (Lutero) non aveva sbagliato”, si sta affermando, con non poca dosi di incoscienza, qualcosa che va ben oltre quello che gli stessi esperti cattolici e protestanti hanno mai osato affermare, dal momento che anche nelle cosiddette “dichiarazioni congiunte” si segnalano ben nettamente le differenze.

        In questo ambito, la più importante è stata forse la Dichiarazione comune Cattolica – luterana del 31/10/1999, pubblicata congiuntamente dal Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani (dicastero della Curia romana Vaticana, da parte cattolica) e importanti organismi delle chiese evangeliche, soprattutto luterane.[5] Come ogni documento di carattere ecumenico, questo cercava di trovare un terreno comune per raggiungere un consenso, dove perfino le diverse concezioni sui termini stessi potrebbero venire sfumate. Tuttavia, il documento segnalava anche le differenze, d’altronde inoccultabili, fra la concezione cattolica e quella luterana in particolare, riguardo l’argomento del peccato e della giustificazione, che è la combinazione più strettamente legata a quello di cui abbiamo trattato.

         La dichiarazione diceva, tra altre cose: «Insieme confessiamo che, l’uomo dipende interamente per la sua salvezza dalla grazia salvifica di Dio (…) La giustificazione avviene soltanto per opera della grazia. Dal fatto che cattolici e luterani confessano insieme tutto questo, deriva quanto segue: Quando i cattolici affermano che l’uomo, predisponendosi alla giustificazione e alla sua accettazione, “coopera” con il suo assenso all’azione giustificante di Dio, essi considerano tale personale assenso non come un’azione derivante dalle forze proprie dell’uomo, ma come un effetto della grazia».[6] Lascia in chiaro che il vocabolo “giustificazione” esiste nella terminologia cattolica come in quella luterana; il problema consisterà nel sapere come viene inteso in ogni parte. Per ambedue, l’azione giustificatrice è prima e principalmente opera di Dio. Per i cattolici, tuttavia, l’uomo può ‘collaborare’ nell’accettarla, benché la stessa accettazione sia frutto della grazia divina.

         Continua la dichiarazione: «Secondo la concezione luterana, l’uomo è incapace di cooperare alla propria salvezza, poiché, in quanto peccatore, egli si oppone attivamente a Dio e alla sua azione salvifica. I luterani non negano che l’uomo possa rifiutare l’azione della grazia. Quando essi sottolineano che l’uomo può solo ricevere la giustificazione mere passive, negano con ciò ogni possibilità di un contributo proprio dell’uomo alla sua giustificazione, senza negare tuttavia la sua personale e piena partecipazione nella fede, che è operata dalla stessa parola di Dio».[7] Per il luteranesimo non esiste “collaborazione” – in sé – nel lavoro della giustificazione dell’uomo. Il luteranesimo capisce che la giustizia di Dio è la nostra giustizia, ma solo per il fatto che Dio ci offre in Cristo il perdono di Dio e la sua grazia (favore divino): «Quando essi affermano che la grazia di Dio è amore che perdona (“favore di Dio”),[8] non negano il rinnovamento della vita del cristiano, ma vogliono piuttosto affermare che la giustificazione è svincolata dalla cooperazione umana e non dipende neppure dagli effetti di rinnovamento della vita che la grazia ha nell’uomo».[9]

         E’ chiaro, quindi, che nel linguaggio luterano, anche se ci siano parole come grazia o giustificazione, acquistano un significato molto diverso riguardo a quello che hanno nell’universo cattolico. Non si tratta di negare la fonte e l’origine divina della grazia – i cattolici l’intendono anche come se fosse soltanto originata in Dio –; la discussione passa però dalla sua stessa essenza. Per il luteranesimo, quella rimane sempre un favore estrinseco. Accettano che l’uomo riceve il perdono di Dio e si unisce a Cristo con la Fede e con la Parola, ma nel dire che non esiste una cooperazione o trasformazione interna integrale nell’uomo, stabiliscono una differenza fondamentale con la concezione cattolica, propriamente sul tema che abbiamo affrontato. Per i luterani e altre correnti protestanti, il perdono di Cristo non libera davvero l’uomo dalla condizione di ‘peccatore’ (intesa questa come una condizione interna, e non come la semplice possibilità di tornare al peccato), quindi si potrebbe dire che la misericordia di Dio accondiscende al peccato in quanto tale. L’ ‘ideale’ proposto da Cristo per alcuni, potrebbe essere, nell’universo protestante, tale da non varcare in modo efficace la barriera del peccato, benché non si veda come questo si possa conciliare con le frasi e la sentenza del Vangelo che abbiamo presentato.

            Non si tratta di una mera differenza culturale né consisté l’essenza del luteranesimo nel denunciare certe pratiche abusive della Chiesa cattolica del suo tempo, come ben lo dimostrano le analisi più serie e competenti,[10] ma in una reale e profonda differenza dottrinale. Dire che siamo in pieno accordo con loro, è non solo mancare alla verità del cattolicesimo, ma dello stesso protestantesimo.[11]

  1. L’elezione

I testi biblici sono schietti abbastanza quando vogliono sottolineare il momento decisivo in cui Dio mette le persone in grado di decidere sulla loro destinazione finale, di un modo assoluto, ed anche nel sottolineare il potere dell’atto elettivo dell’uomo: “Io prendo oggi a testimoni contro di voi il cielo e la terra, che io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, affinché tu viva, tu e la tua discendenza” (Dt 30,19). La vita e la morte sono due condizioni estreme, e dipendono da una scelta: “Sceglie”.

          Pronunciate più di mille anni più tardi, le parole del Maestro Gesù, con tutta la mansuetudine e la forza di consolare che possono venirle attribuite, non sono molto diverse da quelle dell’Antico Testamento: “Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo” (Lc 13,5). Queste sono perfino più decisive, perché si tratta non più della semplice scelta di un oggetto esterno, ma comprende tutto un atteggiamento interiore, la conversione, la trasformazione dell’essere umano (e non solo l’imputazione esterna del titolo di salvezza, come in Lutero), non essendoci altra opzione che la morte. Anche in questo caso, la scelta è la vita o la morte, e il potere di scelta è nuovamente nell’uomo.

           La visione più tradizionale che si sviluppò in Occidente sulla natura dell’atto umano libero, ha certamente origine in Aristotele. San Tommaso la riscatta per l’elaborazione del pensiero cristiano: «La volontà vuole di necessità, come determinata da un’inclinazione naturale, il fine ultimo».[12] In sintesi, la felicità è il fine ultimo dell’uomo che coincide con quello che la volontà vuole, in ultima analisi, anche se questa rimane libera riguardo all’uso dei mezzi (azioni concrete) per il fine.[13]

        Tuttavia, San Tommaso ha qualche testo dove sottolinea in modo molto più rilevante il potere di scelta della volontà, specialmente riguardo ad un certo “fine”, come discusso da alcuni dei più notevoli studiosi della dottrina dell’Aquinate: «La scelta (arbitrio) è un certo giudizio sul da farsi, e questo giudizio si desume dal fine, come le conclusioni dai principi: per cui, come non giudichiamo i primi principi esaminandoli, ma assentiamo naturalmente ad essi e in base ad essi esaminiamo tutte le altre cose; così negli appetibili non giudichiamo del fine ultimo con un giudizio di discussione o esame, ma lo approviamo naturalmente, e quindi su di esso non vi è scelta (elezione), ma volontà. Dunque abbiamo rispetto ad esso una libera volontà, dato che la necessità dell’inclinazione naturale non ripugna alla libertà, secondo Agostino (De Civitate Dei, V) ma non un libero giudizio (arbitrio), propriamente parlando, perché non cade sotto la scelta».[14]

         La domanda che sorge necessariamente da questo testo è: Come è possibile parlare di “libero arbitrio” riguardo al fine ultimo (felicità), nel quale abbiamo detto che si vuole necessariamente? La domanda sorge maggiormente, se si ammette, secondo l’autorità di S. Agostino, che ogni libero arbitrio è un atto di scelta. E’ per questo motivo che il padre Cornelio Fabro – uno dei commentatori a cui abbiamo accennato – suggerisce che l’unico modo per risolvere tale paradosso, sia la necessità di porre, fra l’intenzione naturale del fine in comune e l’elezione dei mezzi, l’elezione del fine del progetto di vita in concreto, dove si potrebbe e si dovrebbe parlare di volontà libera o ‘libero arbitrio’, e questo è l’atto fondamentale della libertà esistenziale (della persona).[15]

         A questo fine ultimo concreto non si accede per necessità o impulso naturale, ma con un vero e proprio atto di scelta, per quanto fondamentale questo possa essere considerato. «E’ questa la scelta esistenziale del fine che qualifica ontologicamente e moralmente il soggetto. C’è infatti chi sceglie come scopo della sua vita, e quindi come oggetto della sua felicità, la ricchezza, chi i piaceri, chi la carriera o gloria umana, chi la cultura… e chi la conformità con la volontà di Dio e la vita eterna. E’, tuttavia, una scelta sempre riformabile secondo tutto l’ambito della propria libertà. E’ la responsabilità (libertà) di questa scelta concreta del fine che attua la libertà personale e costituisce in atto la sua moralità».[16]

        Quanto detto potrà sembrare un linguaggio filosofico o accademico, troverà però, senza dubbio la sua perfetta corrispondenza nella vita reale. Vediamo che le persone si muovono, in molti casi da piccole o da molto giovani, in base a un modello di comportamento, e seguendo un certo ideale (fine concreto), verso la quale orientano tutti gli atti singolari della loro vita (scelta dei mezzi). C’è infatti chi sceglie per scopo della sua vita, e quindi come oggetto della sua felicità, i soldi, chi i piaceri, chi la carriera o la gloria umana, chi la cultura… e chi la conformità con la volontà di Dio e la vita eterna, ci sono altri che scelgono tutto per il loro esclusivo interesse. E’ comune ascoltare persone che dicono: “Questo è sempre stato così, non è mai cambiato!”, per più atti specifici che abbia fatto e con i quali abbia incanalato la sua vita. Naturalmente esistono casi di grandi e radicali cambiamenti di direzione nella vita, e questo si inserisce anche in ciò che viene detto. La scelta del fine ultimo concreto può cambiare, anche se non sembra essere il più comune. È una scelta orientativa dell’intera vita, ma rimane sempre nell’ambito di scelta dell’uomo.

      Il testo evangelico sembra anche confermare ciò che viene detto e ci assicura che non si tratta di una mera disquisizione filosofica, ma di un fatto reale: Perché dov’è il tuo tesoro, lì sarà anche il tuo cuore (Mt 6,21). Il cuore dell’uomo, nella Scrittura, è la sede dei più profondi e più intimi desideri, il più profondo dell’anima. E’ per questo motivo che la scelta dell’uomo è capace di vita e di morte, come diceva il Deuteronomio. D’altra parte, se è vero ciò che la Scrittura afferma: (Dio) Il quale vuole che tutti gli uomini si salvino e arrivino alla conoscenza della verità (1 Tim 2,4), il risultato quindi è molto semplice: Vuol dire che, infatti, Dio ha dato al libero arbitrio umano, la facoltà di scegliere un obiettivo o ideale al di sopra della linea di giustificazione, ossia, ha dato la facoltà di desiderare la salvezza e impegnarsi nel realizzarla, pur se questo significhi il costante aiuto della grazia divina. In caso contrario, non ci sarebbe motivo per il “siate santi” tante volte menzionato nella Scrittura. Non esiste chiamata a un ideale intermedio o mediocre, non c’è chiamata da Dio a fare soltanto il possibile, se per questo si intenda il non varcare la soglia della piena giustificazione, sebbene per varcarlo vengano richiesti alcuni atti eroici, in certi casi (come il rinunciare a una relazione con una persona che è già impegnata).

  1. Conclusione

            La chiamata alla pienezza della vita cristiana, che non è altro che la concettualizzazione del precetto divino: Siate perfetti come il Padre vostro celeste è perfetto, deve essere, per natura, qualcosa di radicale ed esigente, in quanto suppone un tentativo di assomigliarsi alla natura divina allontanandosi dai limiti della natura creata. Questo non può essere diversamente, e le frasi del vangelo sono chiare al riguardo. Perfino quando Cristo invita soltanto a modo di consiglio, utilizza delle espressioni che sono del resto assolute: (Lc 18,22) «Vendi tutto quello che hai e dàllo ai poveri, così avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi». Come ben afferma uno esimio teologo, piuttosto che dire che propone, dobbiamo dire che Gesù stabilisce con la sua autorità un nuovo ordine, quello del Regno, al quale prima invita, e dopo invia: Gli insegnava come uno che ha autorità (Mt 7,29).

      E’ per questo motivo che il Signore delinea chiaramente il confine fra il seguirlo, con la sua grazia, la quale concede la giustificazione, e il rifiuto al suo messaggio. D’altra parte, chiede ai suoi seguaci di essere assolutamente chiari su questo: Il vostro parlare sia: “Sì, sì; no, no”; poiché il di più viene dal maligno (Mt 5,37) e anche: Chi non è con me è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde (Mt 12,30). Il Vangelo e le lettere di San Paolo, sono pieni di opzioni disgiuntive, che richiedono di optare per Cristo o contro (Nessuno può servire due padroni; perché o odierà l’uno e amerà l’altro; Mt 6,24). Affermare che l’opzione, “o questo, o questo”; “o questo, o niente…” non è cattolica o cristiana, è una sciocchezza totale e rivela un’ignoranza preoccupante del Vangelo (o un modo di capirlo al rovescio, e ciò è ancora più preoccupante).

          Il Vangelo è chiaro, il che non significa che è rigido. E’ radicale in molte delle sue esigenze, perché vanno all’essenza del messaggio cristiano, e indica sempre i mezzi per poter essere all’altezza di quelle esigenze. Questo e non altro è l’ideale evangelico. E si ne fa l’opzione in favore con un atto di scelta, che può essere rinnovato, ma che nella sua radice ha un carattere assolutamente definitivo. Dio rispetta la libera scelta fino alla fine, perfino nelle sue conseguenze negative, se esistono. Dire che non si prende in considerazione seriamente il potere di scelta nell’uomo, è diffidare della stessa opera di Dio nell’uomo.

La chiarezza della morale cristiana non è rigidità, bensì una conseguenza di ciò che si propone, una realtà che cerca di stabilirsi con carattere definitivo. Che il Signore ci aiuti a seguirla così com’è, con fedeltà, senza riduzionismi o falsificazioni.

 

[1] Secondo alcuni studiosi, in rapporto alla trasmissione orale dei vangeli, sarebbe possibile riconoscere nel sermone montano un’intera catechesi – di Gesù in primo luogo, apostolica dopo – molto bene strutturata, la cui sezione centrale va da Mt 5,21 a Mt 7,12. Detta sezione centrale viene divisa in tre sezioni di sette sentenze ognuna di esse (secondo i metodi rabbinici di insegnamento), ed una sentenza finale per ogni sezioni. La prima sezione (5, 21-48) è proprio quella che determina a differenza – dell’insegnamento di Gesù – con la legge mosaica in quello che riguarda i comandamenti: Vi fu detto – io vi dico… Finisce con la sentenza citata che comanda di essere perfetti. Probabilmente, il testo greco utilizza perfetti per indicare la sfumatura diversa che le parole di Gesù avevano suggerito, tale come le compressero gli Apostoli che erano presenti (cfr. P. Perrier, Evangiles de l’oral a l’écrit II: Les Colliers Évangéliques; Ed. du Jubilé, Paris 2003, 181-192).

[2] Mt 11,29: Imparate da me che sono mite e umile di cuore.

[3] San Giovanni Paolo II, Enciclica Veritatis Splendor (06/08/1993), 103 [http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/encyclicals/documents/hf_jp-ii_enc_06081993_veritatis-splendor.html], citando anche il Discorso ai partecipanti a un corso sulla procreazione responsabile (1/3/1984), 4: Insegnamenti VII, 1 (1984), 583.

[4] S. Giovanni Paolo II, Veritatis Splendor (06/08/1993), 104.

[5] Pontificio Consiglio per l’unità dei cristiani, Dichiarazione comune sulla dottrina della giustificazione (31/10/1999) http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/chrstuni/documents/rc_pc_chrstuni_doc_31101999_cath-luth-joint-declaration_it.html

[6] Cfr. Dichiarazione comune, 4, 19.20.

[7] Cfr. Dichiarazione comune, 4,21.

[8] La dichiarazione cita spesso le stesse fonti luterane, come qui: Cfr. Weimar edition of Luther’s Works (WA) 8:106; American Edition 32:227.

[9] Cfr. Dichiarazione comune, 4,23.

[10] Ad esempio, cfr. R. Coggi, La riforma protestante II, EDB, Bologna 2004; anche L. Calvalcoli, op., II Dio di Lutero (http://www.riscossacristiana.it/il-dio-di-lutero-di-p-giovanni-cavalcoli-op).

[11] Per il luteranismo, l’uomo giustificato è anche un peccatore, sebbene il suo peccato si trova “assoggettato”. Pure quando il linguaggio può somigliarsi a quello cattolico, la differenza fondamentale riguardo alla dimensione del peccato sussiste, e si tratta veramente di una differenza di base, per quanto determina se la grazia misericordiosa di Dio trasforma totalmente all’uomo nel giustificarlo o meno.

[12] Tommaso di Aquino, Questione disputata sulla verità (De Veritate), q.22, a.5.

[13] «La volontà tende necessariamente al fine ultimo, in modo da non potervi non tendere, ma non tende necessariamente a qualcuna delle cose che sono per il fine (i mezzi): per cui rispetto a tale cose ha la possibilità di tendere a questa o quella» (De Veritate, q. 22, a.6).

[14] Cfr. De Veritate, q. 24, a.1, ad20.

[15] Cfr. Cornelio Fabro, Riflessioni sulla libertà, EDIVI, Segni 2004, 39-40.

[16] Cfr. Riflessioni, 41. Inoltre ad essere riformabile, possiamo aggiungere che si tratta di un’elezione volontaria e pienamente cosciente, ossia, assolutamente diversa dall’inclinazione trascendentale della quale parlano i fautori della così chiamata “opzione fondamentale”.

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