NON CI INDURRE o NON CI ABBANDONARE (La traduzione della sesta petizione del Padre Nostro)

“NON CI INDURRE” o “NON CI ABBANDONARE” (La traduzione della sesta petizione del Padre Nostro)               

Chiesa Basilica del Pater Noster a Gerusalemme, sul Monte degli Ulivi

Recentemente è stata nuovamente messa sul tappeto la questione della traduzione alla sesta petizione del Padre Nostro. Il Santo Padre stesso ha suggerito di cambiarla, seguendo la versione già in uso nella Bibbia della CEI (Conferenza Episcopale italiana) dal 2008 per Mt 6,13 e Lc 11,4: “Non ci indurre in tentazione”, che sarebbe cambiato in: “Non ci abbandonare alla tentazione”. Ovviamente, il cambiamento avverrebbe solo quando approvato dalla CEI con data per l’inizio del suo uso in contemporaneità.

Non pretendiamo mettere a giudizio l’opinione del Santo Padre, e meno ancora l’autorità della Chiesa sull’uso regionale di una traduzione, sulla che esercita piena autorità. Vorremo sì realizzare un breve analisi su questo testo, del perché dei suoi interrogativi, se ci sia qualche ambiguità di interpretazione nel verbo greco o nel suo equivalente latino, e poi vedere se la traduzione in lingua italiana era ormai corretta o c’era bisogno di cambiamento. Infine, dare qualche suggerimento se il cambiamento che adesso si propone sia il migliore o più accertato.

Il problema si pone a partire della traduzione del latino inducere (in-duco), che alla volta è una perfetta traduzione del greco (la lingua originale nella quale sono stati trasmessi i vangeli): eisenenkēs (aoristo congiuntivo di eis-fero): “immettere, introdurre”. In alcune lingue moderne, come in italiano, indurre avrebbe il senso di “spingere”. Certe versioni cattoliche, come ad esempio quella francese, aveva già cambiato la traduzione ufficiale a dicembre 2017.[1] Se questo fosse veramente il caso, sarebbe doveroso un cambiamento.

Ad ogni modo, il Catechismo della Chiesa Cattolica, nel num. [2846], chiariva bene su come doveva interpretarsi questa richiesta della “oratio Domini”: «Questa domanda va alla radice della precedente, perché i nostri peccati sono frutto del consenso alla tentazione. Noi chiediamo al Padre nostro di non indurci in essa. Tradurre con una sola parola il termine greco è difficile: significa “non permettere di entrare in”, non lasciarci soccombere alla tentazione. Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male (Gc 1,13); al contrario, vuole liberarcene. Noi gli chiediamo di non lasciarci prendere la strada che conduce al peccato».

Vediamo brevemente le risposte:

  1. Il testo greco e latino

Seguiamo brevemente l’analisi del R. P. Jean Carmignac, filologo e esperto nell’ebraico e nel greco della Bibbia.[2]

Gesù insegna il Padre Nostro

Il senso del verbo greco eisfero sembra contundente, secondo quanto visto: “portare, introdurre”, e lo stesso succede col latino inducere, che è una sua traduzione esatta. La forma che abbiamo in Mt 6,13 e Lc 11,4 è un congiuntivo aoristo (eisenenkēs), che sta a indicare un divieto: “Non ci porti …”. Inoltre, secondo alcuni dizionari – e Carmignac lo sottolinea – eisfero fa di forma causativa di un altro verbo, essendo il suo significato: “far entrare”. Dunque, quello che si chiede a Dio, nella petizione suddetta, e “che non ci faccia entrare in tentazione”.

I termini sia greci che latini hanno di solito un campo semantico più vasto da quello delle lingue moderne, come lo prova il fatto che alcuni verbi possono avere un significato proprio, e allo stesso tempo attuare come forma intensiva o causativa di altro verbo, ciò che sembra succeda in questo caso. Queste sfumature si perdono nelle lingue moderne, a causa dell’uso continuato e popolare dei termini.

Ad ogni modo, sembra che questa petizione del Padre Nostro abbia avuto sempre bisogno di certi chiarimenti, così come oggetto di correzioni, di spiegazioni a modo di glosse e commenti o spiegazioni di carattere teologico, perfino pure dagli antichi autori cristiani greci e latini. Già Tertulliano (155- 230 ca.), il più antico commentatore del Padre Nostro, si sente in dovere di spiegare il senso di tale domanda, facendo notare: «Non ci indurre in tentazione significa non permettere che siamo condotti alla tentazione da colui che tenta in tutti i modi».[3]

Carmignac ci offre una lista esaustiva delle posizioni avute, con delle rispettive spiegazioni: Sia l’adizione di una glossa spiegativa al testo, come era comune fare nell’antichità e alto medioevo, sia separando il concetto di ‘prova’ da quello di ‘tentazione’ (tentativo che non risulta dato la forte ricorrenza di tentazione nel NT con il significato proprio di “incitazione al male”), sia sostituendo il significato attivo del verbo (inducere) per uno passivo, sia attenuando il senso verbale (come certe traduzioni fanno: “non ci lasci cadere in tentazione”). Alcuni autori hanno combinato i diversi tentativi, producendo come risultato, soprattutto per la tradizione latina e secondo gli autori più riguardevoli, il concludere che si tratta di “non consentire alla tentazione”, essendo giustamente quello chi si chiede nella sesta petizione.

Così Sant’Agostino, ad esempio: «Chi dona il suo consentimento al tentatore entra nella tentazione. In questa vita, infatti, è utile di essere tentato, ma non è buono entrare nella tentazione. In conseguenza, (…)   è buono di domandare di non entrare in tentazione». E ancora: «Domandiamo di non consentire a nessuna tentazione per seduzione e di non soccombere a nessuna dallo scoraggiamento».[4]

Lo stesso Tommaso di Aquino, secondo leggiamo nel suo commento al vangelo di Matteo: «E non ci indurre, che è la stessa cosa che dire: “Fa che non consentiamo”». Il commento a Matteo è un’opera di gioventù dell’Aquinate, ma coincide con quello che dopo esprimirà nella Somma Teologica: «La domanda: “Non c’indurre in tentazione”; con la quale non chiediamo di non essere tentati affatto, ma di non essere vinti dalla tentazione».[5] In questo stesso senso si esprime il Catechismo della Chiesa Cattolica [2847], quando sottolinea la necessità di distinguere tra “essere tentati” e “consentire” nella tentazione.

Aquino ha perfino spiegato il significato di inducere nel Padre Nostro (lavorava sulla versione in latino): «Si dice che Dio induce al male nel senso che lo permette, in quanto, cioè, a causa dei suoi molti peccati precedenti, sottrae all’uomo la sua grazia, tolta la quale, egli scivola nel peccato. Per questo diciamo col salmista: «Quando verranno meno le mie forze, tu non mi abbandonare, Signore» (Sal 70,9)»[6].

  1. Le lingue moderne

               Secondo alcuni interpreti, il problema si suscita più nelle lingue moderne, perché i termini usati tendono a prendere un significato più ristretto e il campo semantico si restringe. Così si esprime, ad esempio, il filologo H. Pernot: «La Vulgata ha scrupolosamente calcato la frase greca: et ne nos inducas in tentationem, ma noi ci siamo sbagliati nel far passare questo termine in francese. La frase “et ne nous induis pas en tentation” rende in modo inesatto l’idea espressa dal greco o dal latino. In effetti, “indurre qualcuno in tentazione” si trova, nella nostra lingua, molto prossimo di “spingerlo a soccombere”»[7]. Toccherebbe sottolineare che, lungo i secoli, tanti fedeli hanno capito benissimo il testo del Padre Nostro e le sue spiegazioni, sia prima nel latino come dopo in diverse lingue moderne, senza bisogno di una correzione. Ad ogni modo, si potrebbe pensare in una traduzione, con lo scopo di essere più precisi.

Abbiamo visto come alcuni lingue hanno preferito un senso più addolcito: “Non ci lasci cadere in tentazione” (pur se questo riduce la causalità divina a un effetto solo negativo), altre insistono più sull’effetto, come il tedesco, dove si chiede, infatti, positivamente il “non cadere”.

È la frase: “Non abbandonarci alla tentazione”, una traduzione veramente giusta? È vero che è stata usata da alcuni commentatori; non dalla maggioranza però, e non da quelli più importanti nella storia della Chiesa. Si tratta, d’altronde, una traduzione esatta? A prima vista, non si capisce perché, se non si può dire: “non ci indurre in tentazione”, perché Dio mai induce, e soltanto il supporlo sembra uno scandalo, fin che punto possiamo allora dire: “non abbandonarci in tentazione”? Non è anche scandaloso pensare che Dio possa abbandonarci in una tentazione?[8] Propriamente, è l’uomo che abbandona Dio quando, con maggiore o minore grado di colpevolezza, cade nella tentazione, commettendo peccato. Il termine ‘abbandono’, come tale, è semanticamente molto ricco, come abbiamo visto, e perciò sembra pure esso aver bisogno di un’ulteriore spiegazione.

  1. Proposti di soluzioni e traduzioni

Carmignac propone due soluzioni: La de J. Heller – che nomina “l’unica scientifica da lui conosciuta” – e quella sua.[9] Ambedue si fondano sul sostrato semitico (ebraico o aramaico) del testo evangelico, e sulla sintassi di queste lingue. Coincide con l’uso di questa sintassi in altri passi del NT (e per l’ebraico, anche con la sintassi di questa lingua in molti testi di Qumran, contemporanei in principio a quelli del NT) e, coincide anche, in quanto al risultato, con quella traduzione dei padri e dottori più eminenti della Chiesa. Il risultato è: Quello che si chiede propriamente, è il non consentire nella tentazione.

Heller afferma che, in greco, l’espressione “eiselthēin in” (“entrare in”), si esprime in ebraico con una sola radice verbale più preposizione («BW’ be»). L’uso frequente è per le cose materiali, ma si può applicare a quelle spirituali, e li mostrerà con numerosi esempi del AT. Nel caso che ci interessa, se il sostrato del testo evangelico è in lingua semitica, non può che significare: “entrare, consentire alla tentazione”. Ma in greco e in latino questa espressione viene tradotta con dei verbi causativi, che significa il “fare che uno (un altro) compia l’azione espressa dalla radice verbale”. Il latino inducere è il causativo di introire (“entrare”). Siccome nella richiesta del Padre Nostro abbiamo un ‘non’; questo fa sì che la richiesta consista in proibire o impedire qualcosa. Il risultato è: “Fai che noi non consentiamo alla tentazione”, il che si assomiglia al consiglio di Cristo ai suoi tre apostoli nel Getsemani.

Riguardo alla soluzione dello stesso Carmignac, questa va nella stessa direzione: La negazione causa – efetto nella lingua ebraica. Come nel ebraico, secondo quanto abbiamo detto, si esprime con una sola forma verbale sia la causa che l’effetto, nella proposizione negativa, la negazione che precede quel termine può negare sia la causa (non fare venire), sia l’effetto (far non venire). L’autore prova queste affermazioni con dei numerosi testi e ricorrenze ebraiche, soprattutto con l’ebraico dei testi di Qumran.

Nei due versetti che ci interessano – sia quello di Mt o di Lc -, il greco che troviamo sarebbe la traduzione di una forma semitica, solo che in greco non esiste questa doppia applicazione della negazione, potendosi dunque tradursi : “non ci fai entrare in tentazione”, o: “fai che non entriamo in tentazione”. Ci sono comunque due testi molto illuminanti al riguardo:

1 – Il Salmo 141,4: “Fa sì che il mio cuore non tenda verso una cattiveria (cosa cattiva)”, essendo proprio questo il modo di tradurlo – in positivo –, se vogliamo mantenere il ritmo proprio della poesia ebraica con le proposizioni anteriori dello stesso salmo.

2 – Il secondo è il consiglio di Gesù agli Apostoli nel Getsemani: “Pregate per non entrare in tentazione” (Mc 14,38; Mt 26,41; Lc 22,46), dove la forza della negazione è messa sul verbo “entrare”.

Di modo che l’espressione semitica originale non suppone assolutamente che Dio provoca la tentazione, e meno ancora che fa soccombere in essa, nella stessa linea di Gc 1,13: «Nessuno mentre è tentato dica: «Vengo tentato da Dio!». Dio è infatti immune dal male ed egli non tenta nessuno». Nel nostro versetto, la formula “entrare in tentazione” non sarebbe la più giusta, ma piuttosto: “penetrare nell’oggetto della tentazione”; “consentire alla tentazione”, o “entrare dentro”. L’autore non consiglia dunque, come traduzione, il semplice: “non ci lasci cadere” (il che suppone una causalità divina attenuata o permissiva). I testi studiati da lui dimostrano che la causalità divina è totale e con effetto positivo. Le traduzioni proposte da Carmignac sono invece: “Fai che non entriamo nella tentazione”, o più letterale: “Fai che non soccombiamo alla tentazione”, che sembrano più giuste.[10]

R. P. Carlos Pereira, IVE

Una versione più completa e scientifica del articolo può essere scaricata qui.

 

[1] De soumettre (“sottomettere”) è stato cambiato in: laisser tomber (“lasciare cadere”).

[2] Jean Carmignac, sacerdote francese, ha fatto studi nel seminario francese di Roma e poi presso il Pontificio Istituto Biblico. Dal 1954 ha insegnato presso l’Ecole Biblique de Jerusalem, dei padri dominicani, e ha fatto gran lavoro di ricerca sui manoscritti scoperti a Qumran, nel mare Morto, sui quali diviene uno specialista. Ha fondato la Revue de Qumram. Grande conoscitore della filologia ebraica e semitica, negli ultimi anni ha intrapreso una ritraduzione ebraica dei Vangeli Sinottici, con delle interessanti ricerche sui semitismi, fino alla sua morte nel 1986. I suoi risultati sono rimasti all’Istituto cattolico di Parigi. Soltanto dallo scorso anno (2017), le autorità dell’Istituto hanno dato autorizzazione per consultare le sue schede e documenti. La sua opera scientifica su questo argomento si chiama: Recherches sur le “Notre Père”, Letouzey, Paris 1969, 236-304. Una seconda opera, più riassuntiva e dove chiaramente si schiera in favore della composizione in lingua semitica dei vangeli, è: A l’écoute de Notre Père, Paris: O.E.I.L., 1988, pp. 58-78.

[3] Tertulliano, La preghiera, cap. VIII (Migne: Patrologia latina, vol. I, col. 1164).

[4] S. Agostino, Sermone 59, c.8, per la prima, e Lettera 130 a Proba, c. 11, n.21 (Migne, PL, XXXIII, col. 502) per la seconda. Questa seconda frase è stata seguita da tanti autori nel Medioevo, secondo Carmignac.

[5] Tommaso di Aquino, In Evangelium Matthaei lectura, (Mt 6,13) n. 22; Summa Theologiae, II-IIae q. 83, a.9, c.

[6] Tommaso di Aquino, Il Padre Nostro, Opuscoli spirituali, ESD Bologna, 1999, 166.

[7] H. Pernot en Pages choisies¸74, citato da Carmignac, Recherches, 295, nota 10.

[8] Certo studioso afferma: «Non è chiaro perché un Dio che ci “induce”, ci porta dentro, nella tentazione dovrebbe essere peggiore di un Dio che ci “abbandona” ad essa. È un mistero della moderna esegesi, ma anche della presunzione umana» (Silvio Brachetta: http://www.libertaepersona.org/wordpress/2018/11/e-non-abbandonarci-alla-tentazione-un-commento-critico/).

[9] R.P. Johannes Heller, S.J., chi pubblica un suo articolo nella Zeitshrift fûr katolische Theologie (1901), XXV, 85-93: La sesta domanda del Padre Nostro. Carmignac chiede la sua traduzione in francese, e la pubblica come Appendice (II) nelle sue Recherches, 437-445.

[10] Cfr. J. Carmignac, « Fais que nous n’entrions pas dans la tentation » (La portée d’une négation devant un verbe au causatif) ; Revue Biblique 72 (1965), 218-226.

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