TESTIMONIANZE INTERNE su GIOVANNI, AUTORE DEL VANGELO

TESTIMONIANZE INTERNE su GIOVANNI, AUTORE DEL VANGELO

    Oggi è comune affermare, come sentenza ormai assunta ma mai provata, che l’apostolo Giovanni, detto “l’evangelista”, non fu il vero autore del quarto Vangelo che porta il suo nome. Quest’assunzione, comune tra gli studiosi e gli studenti, anche cattolici, non è indifferente ed è del tutto gratuita, non conforme alla tradizione e all’insegnamento del Magistero della Chiesa, ma soprattutto è un’affermazione che non viene supportata dalla testimonianza interna che emerge dal Vangelo stesso, di cui intendiamo analizzare alcuni punti difficili.

    Il Vangelo di Giovanni si presenta (ciò si conosce come testimonianza o critica interna) come l’opera di un testimone oculare dell’intera attività di Gesù: in 1, 14 l’autore si associa ad altri e, insieme a loro, testimonia di aver visto la gloria del Verbo fatto carne (coincide anche con 1Gv 1, 1-4)[1]. Anche in 19, 35 è un testimone oculare che afferma di aver visto uscire acqua e sangue dal costato trafitto di Gesù[2]. Poiché il discepolo amato era l’unico discepolo maschio rimasto ad assistere a questa scena della morte di Gesù, è facile concludere che si tratta di Gesù stesso. Questa era la comprensione unanime di tutta la tradizione della Chiesa e, a partire da 170, la convinzione che Giovanni l’Apostolo fosse l’autore del quarto Vangelo era ampiamente diffusa. Testimonianze come quelle di Sant’Ireneo di Lione (+ 202), che fu discepolo di Giovanni stesso attraverso San Policarpo, sono molto eloquenti. Nella sua opera Adversus Haereses, scritta intorno al 180, afferma: “Subito Giovanni, il discepolo del Signore, che riposava sul suo petto, pubblicò egli stesso un Vangelo, quando viveva a Efeso in Asia”[3].

    I piccoli tentativi di opporsi all’attribuzione di Giovanni apostolo furono molto deboli e di breve durata[4]. Una dichiarazione della Pontificia Commissione Biblica, ai tempi in cui tale organismo fungeva da assistente del Magistero ecclesiastico, afferma chiaramente “che gli argomenti interni ed esterni portano a riconoscere l’apostolo Giovanni, e nessun altro, come autore del quarto Vangelo, e che i fatti narrati dal quarto Vangelo non sono del tutto o in parte inventati con quel fine, come se fossero allegorie o simboli dottrinali; e che i discorsi del Signore non sono composizioni teologiche dello scrittore, poste in bocca al Signore”[5].

1 – Questione dell’autenticità del Prologo del vangelo di Giovanni

1 – Schnackenburg sostiene che il Prologo non è né originale del Vangelo né opera dell’evangelista. Questa tesi è seguita da diversi autori, tra cui Brown, che sostiene che si tratta di un inno poetico composto in ambiente giovanneo (comunità giovannea)[6]. Lo seguono anche autori come De Ausejo, che ha studiato gli inni del NT e sostiene che esisteva un poema originale che è servito come base redazionale per il Prologo[7].

2 –Altri sostengono che la stessa mano abbia composto il Prologo e il Vangelo (Ruckstuhl), o addirittura lo stesso autore (Robinson), con sfumature diverse. In ogni caso, non è infrequente trovare l’opinione su che il Prologo sia stato composto molto tempo dopo il Vangelo[8].

     Le differenze con il resto del Vangelo esistono indubbiamente, soprattutto per quanto riguarda la forma letteraria. Il Prologo è principalmente poetico. Anche se nel Vangelo troviamo alcuni discorsi di Gesù, la cui solennità ed espressione vanno oltre la prosa ordinaria; non c’è nulla che eguagli in lunghezza la struttura poetica del Prologo. Anche alcuni termini sono diversi, come il principale: “Lógos” (Parola), che non compare più nel Vangelo – ma nella prima Lettera e nell’Apocalisse -, “charis” (grazia) e “plērōma” (pienezza). 

     In ogni caso, l’insieme delle analogie sembra più ampio e, soprattutto, più rilevante. Infatti, i vv. 11-12 sembrano una sintesi di quelle che saranno le principali suddivisioni del Vangelo di Giovanni: la prima parte o “libro dei segni” (cc. 1-12), in cui si chiarisce il rifiuto di Gesù da parte dei Giudei, e la seconda o “libro della gloria” (cc. 13-21), in cui Gesù dona la salute eterna a coloro che l’hanno accolto attraverso il sacrificio della sua passione e risurrezione[9]. Molti altri sono i temi comuni al Prologo e al resto del Vangelo: la preesistenza di Cristo (1, 1 = 17, 5); la luce degli uomini e del mondo (1, 4.9 = 8, 12; 9, 5); l’opposizione tra luce e tenebre (1, 5 = 3, 19), la visione della sua gloria (1, 14 = 12, 41); il Figlio unigenito (1, 14.18 = 3, 16); nessuno ha visto Dio se non il Figlio (1, 18 = 6, 46)[10]. E le due menzioni di Giovanni Battista nel Prologo sono chiaramente collegate a ciò che il Vangelo dice di lui, come si vedrà in seguito (1, 7 ripreso in 1, 19; 1, 15 = 1, 30)[11].

     Gli autori che hanno rifiutato l’autenticità giovannea del Prologo hanno finito, a poco a poco, per rifiutare anche quella di ampie sezioni e parti del Vangelo nel suo complesso, segno eloquente che le somiglianze superano le differenze. Crediamo che sia proprio questo a testimoniare l’autenticità e l’originalità giovannea del Prologo, per la quale propendiamo.

      Al v. 14 si afferma che è lo stesso Verbo “che si fa carne”. A differenza di “Figlio” e “figlio di Dio”, Gesù non applica mai a se stesso l’appellativo di Logos. Secondo il Prologo, il Logos ha una doppia funzione: quella di mediatore nella creazione del mondo e quella di organo della Rivelazione.

            Per quanto riguarda l’origine storica della nozione di Logos, forse è ancora oggetto di dibattito tra i biblisti, ma la soluzione sembra essere molto chiara. Molti hanno cercato di spiegare la nozione giovannea di Logos ricorrendo al pensiero giudeo-cristiano. Secondo alcuni autori, al tempo della composizione dei Vangeli sinottici, il Logos era identificato con il messaggio e la predicazione di Gesù, ma in seguito, con gli Atti degli Apostoli e le lettere di San Paolo, si è manifestata la tendenza a considerare il Logos come la Parola stessa di Dio inviata agli uomini, Gesù stesso, con le sue parole e le sue azioni, con tutte le sue manifestazioni e le sue opere. Il grande contributo di San Giovanni, rispetto ad altri autori, è la nozione di preesistenza del Logos e la precisione teologica dell’evento dell’Incarnazione[12].

2 – Testimonianza di Giovanni Battista (Gv 1, 29)

            Il giorno dopo, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!”

            Il Battista dà qui una testimonianza diretta su Gesù, vedendolo arrivare, e lo indica come l’Agnello di Dio (ὁ ἀμνὸς τοῦ θεοῦ = ho amnós toú theoú), usando la parola ἀμνὸς invece del più popolare ἀρνίον (árnion, diminutivo di ἀρήν = arēn).

1) Per autori come Dodd, ad esempio, “Agnello” è menzionato nel Vangelo con un significato un po’ diverso dall’uso che se ne fa nell’Apocalisse, anche se hanno una certa relazione tra loro[13]. In ogni caso, il termine usato nell’Apocalisse è ἀρνίον[14]. Brown ipotizza che la differenza terminologica tra l’Apocalisse e il Vangelo giovanneo (tenendo conto che differiscono in diversi termini) sia una prova che, pur appartenendo alla stessa scuola giovannea, siano stati scritti da autori diversi, pur affermando allo stesso tempo che Giovanni potrebbe aver scelto amnós – nel Vangelo – per ragioni teologiche[15]. Per noi quest’ultima affermazione, perfettamente valida, è una prova in più del fatto che potrebbe trattarsi dello stesso autore in entrambi i casi.

2) L’agnello (ἀμνὸς) di cui si parla nel quarto cantico del Servo di Dio (Is 53, 7), che non apre la bocca davanti all’uditore e simboleggia il Servo di Dio. Si combina perfettamente con l’interpretazione del Servo di Dio in Giovanni, in particolare con Gv 12, 20-43[16]. Il “Servo di Dio” in Isaia porta i crimini e il peccato di tutti (cfr. Is 53, 11-12). Brown -che appoggia questa interpretazione- afferma che il testo di Isaia 53, 7 è applicato a Gesù in At 8, 32 e che la somiglianza tra l’Agnello e il Servo di Isaia era già nota ai cristiani[17]. Inoltre, tutti i canti del Servo di Yahweh si trovano nella seconda parte di Isaia (capitoli 40-55), che è la parte del libro del profeta più applicabile a Giovanni Battista, poiché l’espressione “voce che grida nel deserto” si trova proprio all’inizio della seconda parte (Is 40, 3).

3 – I Giudei che “credettero in Gesù”: 8, 30-31

            È sorprendente che Gesù si rivolga ai “Giudei che credettero in lui” (v. 31). In effetti, ciò si armonizza bene con la fine della sezione precedente, dove si afferma che “molti credettero in lui” (v. 30), anche se non si accorda con lo sviluppo dei versetti successivi, dove -oltre a discutere duramente- in due occasioni accuserà i Giudei di volerlo uccidere (v. 37 e v. 40). Brown ritiene che si tratti di fasi diverse della redazione del testo, il che porta addirittura a ipotizzare concezioni diverse sul significato dell’espressione collettiva “i Giudei” nel Vangelo di Giovanni. Per questo autore, ci sarebbe stata una certa fase in cui la comunità che ha composto questi passaggi non considerava i Giudei come antagonisti di Gesù, anche se in seguito si è imposta un’altra concezione – più teologica – che li considerava tali[18]. Dobbiamo notare che questa idea presuppone diversi elementi, tra cui le diverse fasi della stesura del Vangelo da parte di diverse comunità primitive, ognuna con la propria mentalità teologica. Un chiaro esempio è la “teoria della storia delle forme” (Formgeschichte Kritik), che afferma che ogni fase della composizione del Vangelo risponderebbe a specifiche situazioni di vita di una determinata comunità cristiana. Tale teoria implica la postulazione di varie situazioni storiche, in un arco di tempo forse di quasi duecento anni, ipotesi che solleva molti problemi storici, soprattutto per il fatto che non è mai stato possibile dimostrare che queste comunità l’abbiano redatta, né è stata trovata alcuna traccia di tali bozze, per quanto tale ipotesi possa essere diffusa[19].

            Riteniamo che la spiegazione più semplice sia semplicemente quella di supporre che, tra gli interlocutori di Gesù, alcuni credessero e altri non credessero, come sembra dedursi dal contesto. Inoltre, non è detto che il dialogo sia continuato ininterrottamente. Di coloro che avevano creduto in lui al v. 20, alcuni potrebbero essersi allontanati, senza continuare il dialogo. Gesù avrebbe potuto iniziare il nuovo dialogo nella terza sezione con un gruppo di coloro che avevano creduto e poi altri avrebbero potuto unirsi. È anche possibile che alcuni abbiano iniziato a credere in Gesù, senza che questo implichi una fede molto profonda, una fede che in molti potrebbe essere entrata in crisi. Ciò sarebbe confermato dall’uso diretto del dativo πεπιστευκότας αὐτῷ (“coloro che gli credettero”), invece della preposizione eis (“credettero in”). Quest’ultima è più forte e indicherebbe un atto più forte o più fervente di credere in Gesù, anche se altri autori rifiutano questa differenza[20].

4 – Risurrezione di Lazzaro e capitoli 11-12

            La risurrezione di Lazzaro, presentata da San Giovanni nel capitolo 11 del suo Vangelo, segna il culmine della vita pubblica di Gesù. Questo culmine avviene con il più grande dei miracoli. I Sinottici avevano già presentato alcuni miracoli di risurrezione operati da Gesù (Mt 5, 21 ss. e paralleli; Lc 7, 11 ss.), ma nessuno di essi – come sostengono diversi commentatori –si può paragonare ad esso[21]. È probabilmente questo dettaglio, oltre all’interpretazione degli ultimi versetti del capitolo precedente, che ha portato alcuni autori a pensare che il racconto in questione manchi di autenticità, estendendo questa supposizione al miracolo in quanto tale. È stato suggerito che si tratta di un’aggiunta successiva, opera di una comunità giovannea (Brown), o di una “rielaborazione giovannea” (Beutler), o forse di un lavoro del redattore – l’Apostolo o un altro – che cerca di dare un tocco figurativo-simbolico alle sue alte speculazioni teologiche (Schnackenburg)[22].

            Per diversi esegeti, infatti (come ad esempio R. Brown), i vv. 40-42 del capitolo 10 sono la conclusione di un’intera sezione del cosiddetto “libro dei segni” (o prima parte del Vangelo), proprio perché si conclude con il “segno” (o miracolo) più portentoso[23]. Questi versetti sarebbero anche le ultime parole di questo ministero, che prosegue con il capitolo 13, già parte del “libro della Gloria” o della Passione[24].

            Per Brown non c’è dubbio che il materiale di questi capitoli provenga da ambienti giovannei, dal momento che abbonda di aspetti che gli sono tipici (personaggi come Tommaso, Filippo e Andrea; la menzione dell’egō eimí in 11, 25; il tema dell’“essere esaltato” in 12, 35 e altri). Tuttavia, lo studioso sostiene che l’uso del termine “i Giudei” in questi capitoli differisce non poco da quello che abbiamo visto nei capitoli 1-9, poiché qui non designa le autorità ostili a Gesù, ma la gente comune della Giudea e di Gerusalemme. Un argomento più forte deriva dal fatto che la risurrezione di Lazzaro è collocata tra la festa invernale della Dedicazione del Tempio (in 10, 22) e la festa primaverile della Pasqua (11, 55). Secondo questa sequenza, dobbiamo supporre che Gesù lasci il suo ritiro nella zona della Transgiordania (“al di là del Giordano”[25]; cfr. 10, 40), salga a Betania, ritirandosi dopo la risurrezione di Lazzaro a Efrem, vicino al deserto (11, 54). Da lì sarebbe tornato a Betania “sei giorni prima della Pasqua” (12, 1), dove torna sempre dopo aver predicato a Gerusalemme in ciascuno di quei giorni (cfr. 12, 36; 12, 50, anche se in questo secondo versetto lo fa solo intendere). Per Brown, la sequenza presentata nei Sinottici (Transgiordania – Gerico – Gerusalemme, con casa a Betania) sarebbe più facile da comprendere se i capitoli 11-12 non fossero considerati originali[26].

            Gli argomenti sono deboli: si suppone che siano trascorsi diversi giorni tra la risurrezione di Lazzaro e la Pasqua successiva, anche se questa era vicina, ed Efrem (l’odierna Taybe in Palestina, a nord di Gerusalemme) può essere raggiunta in un giorno di cammino da Betania o da Gerusalemme. I Sinottici semplicemente non menzionano questa tappa. D’altra parte, l’ostilità delle autorità ebraiche è evidente anche in questi capitoli. Ricordiamo che sono gli stessi capi dei sacerdoti a decidere di “uccidere anche Lazzaro” (12, 10), perché “a causa sua molti credettero in Gesù” (12, 11), anche se viene fatta l’avvertenza che “anche molti dei capi credettero in lui” (12, 40).

            I capitoli 11 e 12 sono necessari per comprendere la Passione e l’odio contro Gesù, perché mettono in evidenza il più grande miracolo da lui compiuto – riconosciuto dai suoi nemici – che tuttavia suscita la più grande amarezza da parte loro. Il linguaggio e i concetti tipici del quarto Vangelo, riconosciuti anche dai suoi contestatori, lungi dall’essere una prova di non originalità, sono una testimonianza molto chiara dell’autenticità giovannea.    

5 – Discorso del Cenacolo: Gv 13, 31-14, 31 e cap. 15-16

            Dal punto di vista letterario, la prima considerazione è un apparente taglio alla fine del capitolo 14, poiché leggiamo -in 14, 31- che il Signore dice agli Apostoli, ancora nel Cenacolo: “Alzatevi, andiamo via di qui!” Questo ha fatto supporre che siamo in presenza di diverse formulazioni del testo. La prima ipotesi fatta dai critici è che i capitoli 15-17 -tutto ciò che segue dopo 14, 31- non siano stati scritti dallo stesso autore del Vangelo, ma siano un’aggiunta tardiva di un’altra mano. La maggior parte degli studiosi, cattolici, protestanti e anche i meno religiosi, ritengono che tale posizione non sia sostenibile. Questi capitoli, infatti, per forma e contenuto, sono perfettamente simili agli altri discorsi del quarto Vangelo. In ogni caso, il taglio è abbastanza importante da distinguere – almeno strutturalmente – un primo discorso (13, 31 – 14, 31) e un secondo discorso di addio (15, 1 – 16, 33)[27]

            Una seconda soluzione al problema letterario di cui sopra è quella di pensare che i capitoli 15-16 siano fuori posto e che siano stati inseriti tardivamente dall’evangelista (o da qualcun altro) quando la stesura del Vangelo era già terminata[28]. Questa è l’opinione di Brown, che segue Dodd e altri esegeti, e si basa -oltre che sul noto “taglio” di 14, 31- sulla ripetizione che essi osservano tra 13, 31-14, 31 da un lato, e il capitolo 16 (16, 4b-16, 33) dall’altro, poiché se si affiancano le due sezioni si nota una notevole corrispondenza nell’argomento e nell’ordine degli argomenti (Gesù che lascia il mondo, promessa del Paracleto, pur se sul primo testo si insiste di più sul comandamento dell’amore, e sul secondo sul vedere di nuovo Gesù e sulla fede). Brown ritiene che non vi sia dubbio che questi capitoli non siano sempre stati collegati, ma che la loro unione sia dovuta a una riflessione più elaborata sulla dottrina dell’Eucaristia, avvenuta molto più tardi. La maggior parte dei detti o delle frasi dell’intera sezione (13, 31 – 14, 31) sarebbe costituita da materiale adattato a un contesto in cui Gesù parla ai suoi discepoli. Gli elementi che vi troviamo oggi non sarebbero presenti nel discorso iniziale; alcune modifiche di questo materiale potrebbero essere state introdotte nella pubblicazione del Vangelo da parte dell’evangelista o nella redazione finale[29].

            Per la sua ipotesi, Brown si basa principalmente sulla ripetizione tematica, come abbiamo detto. A nostro avviso, l’argomento lessicale è più che sufficiente a smentire che si possa parlare di ripetizione. Se così fosse, il vocabolario che troviamo nella sezione 13, 31 – 14, 31 e quello dei capitoli 16 – 17 dovrebbe essere molto simile, cosa che non avviene nemmeno per i verbi che ricorrono più volte nello stesso capitolo 14, con l’eccezione di ὑπάγω (hupágō = “partire”), di per sé un verbo molto comune in Giovanni[30].

            Se sosteniamo che l’evangelista stesso è l’autore di tutto questo discorso, ci restano solo due possibilità: o l’ha scritto così come lo conosciamo oggi, opinione che non è la più diffusa tra gli studiosi ma che è ritenuta possibile da alcuni[31], oppure ha scritto prima la sezione 13, 31 – 14, 31, con i suoi ricordi più immediati, e poi il capitolo 16 (o 15 – 16) in un secondo momento, come una riflessione più completa e sistematica, anche se sempre con le parole pronunciate dal Signore nell’Ultima Cena, e che invece di cancellare ciò che era stato scritto prima, ha preferito aggiungere nuovo materiale. In quest’ultimo caso, si potrebbe obiettare perché l’evangelista non abbia riordinato tutto il suo lavoro e non abbia fatto apposta a far trasparire nel Vangelo una tale apparente incongruenza – soprattutto la frase di Gesù in 14, 31 – tanto più che di solito è molto attento e preciso anche nell’enumerazione dei fatti, come abbiamo visto a proposito della cena pasquale. Si può rispondere che probabilmente ha voluto così per visualizzare meglio lo sviluppo del suo pensiero, per dare al lettore l’opportunità di riflettere più attentamente sui temi già considerati e, in un certo senso, per rispetto al testo che lui stesso aveva scritto in precedenza, che considerava più vicino all’epoca di Gesù e anche ispirato[32]. La frase di 14, 31 può anche essere intesa, come facevano gli autori antichi, come un invito di Gesù agli Apostoli a percorrere la via della Passione[33].

6 – La preghiera sacerdotale di Gesù: Gv 17

            Il titolo “preghiera sacerdotale” risale a San Cirillo di Alessandria, ma si è affermato nel XVI secolo, con David Citreo (1531-1600), che la chiama “preghiera del sommo sacerdote”[34], perché presenta Gesù come Sommo Sacerdote che intercede per i fratelli presso il Padre, nella stessa linea della lettera agli Ebrei e Romani 8, 34. Altri la chiamano “preghiera di consacrazione, di missione, di glorificazione”; più modernamente è stata definita “preghiera per l’unità dei credenti”, per il suo carattere universale.

            Molti autori trovano diverse analogie tra l’argomento e il vocabolario di questa preghiera sacerdotale di Gesù e il resto del Vangelo. Non sorprende, quindi, che la scoperta di tante somiglianze faccia supporre che il discorso della cena sia stato elaborato da scuole diverse e che non sia opera di una stessa mente umana. Molti riconoscono che il capitolo 17 è stato costruito rielaborando i detti tradizionali di Gesù, molti dei quali pronunciati durante l’Ultima Cena. Ciò che sorprende è il motivo per cui egli non ritiene che sia opera di un unico autore che sia stato testimone oculare di questi discorsi.

            Alcuni autori lo sottolineano soprattutto in relazione al documento cristiano chiamato Didachè o “dottrina dei dodici apostoli”. Brown elenca diversi elementi in comune con i capitoli IX e X di quel documento, dove alcuni paragrafi iniziano con la formula: «Ti ringraziamo, o Padre!», somigliando anche alla preghiera di Gesù che inizia con il vocativo «Padre» in 17, 1; anche il tema della gloria in Gv 17 (vv. 1. 5. 22), che nella Didachè (IX, 2. 3. 4; X, 2. 4. 5) appare frequentemente, così come altre somiglianze. Mazzeo elenca fino a otto punti di contatto (espressioni, idee) che coincidono tra la Didachè e Giovanni 17, pur sostenendo che la preghiera sacerdotale non può aver influenzato la Didachè per motivi cronologici. Ciò presuppone – da parte dell’autore – che le parole di Giovanni 17 siano molto più tarde e non abbiano alcun legame con quelle pronunciate da Gesù nel Cenacolo. Infatti, l’autore ipotizza che la preghiera di Gv 17 sia stata composta nel contesto di vita (‘Sitz in Leben’) della comunità cristiana che aveva iniziato a celebrare liturgicamente l’Eucaristia.

            È vero che il significato eucaristico della preghiera sacerdotale di Gesù era già stato evidenziato da San Cirillo di Alessandria e da Giovanni Crisostomo, perché il legame con l’Eucaristia esiste senza dubbio. Bultmann arrivò a dire che si trattava (cap. 17) di una “preghiera eucaristica” della comunità giovannea, ma perché non attribuirla a quella comunità? Anche autori razionalisti hanno bollato posizioni come quelle di Bultmann come “romanzesche e indimostrabili”[35].

            Altri autori moderni, al contrario, sottolineano l’intima connessione con il Vangelo di Giovanni: Moloney, fervente promotore della cosiddetta analisi narrativa, conclude che “il prodotto finale è totalmente giovanneo nella sua struttura e nel suo messaggio”[36]. In questo senso, diversi autori considerano il cap. 17 come un apice o un culmine del Vangelo, una sintesi superiore dell’evangelista. Thüsing lo considera “una sintesi di tutto ciò che riguarda le intenzioni e le opere di Gesù”[37].

            La dichiarazione sulla storicità dei vangeli affermava anche: «[Alcuni] partono da una falsa nozione della fede, come se questa non si curasse della verità storica, o addirittura fosse con essa incompatibile. Altri negano a priori il valore storico e l’indole dei documenti della rivelazione. Altri, infine, tenendo in poco conto l’autorità degli apostoli in quanto testimoni di Gesù Cristo, nonché del loro ufficio e influsso nella comunità primitiva, esagerano il potere creativo di detta comunità. Le quali cose tutte non solo sono contrarie alla dottrina cattolica, ma mancano altresì di fondamento scientifico ed esulano dai retti principi del metodo storico (…) Si astengano in modo assoluto dal proporre novità vane o non abbastanza provate. Nuove opinioni, già solidamente dimostrate, le espongano, se occorra, con cautela e tenendo presenti le condizioni degli uditori. Nel narrare fatti biblici non vi mescolino particolari fittizi non conformi alla verità»[38].

[1] “Noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre” (Gv 1, 14). “Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita” (1 Gv 1, 1). Si aggiungerebbe: “Questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera” (Gv 21, 24).

[2] “Uno dei soldati con una lancia gli colpì il fianco, e subito ne uscì sangue e acqua” (Gv 19, 34).

[3] S. Ireneo de Lyon, Adversus Haereses (Contra las herejías) III, I, 1 [PG VII, 845].

[4] Per queste affermazioni: cfr. A. Wikenhauser, L’Evangelo secondo Giovanni (Nuovo Testamento commentato IV; Morcelliana Brescia, 1959), 20-25.

[5] Cfr. PCB, Autore e verità storica del quarto vangelo (29/5/1907) [ASS 40 (1907) 383] (http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/pcb_documents/rc_con_cfaith_doc_19070529_quarto-evangelio_it.html [consultata il 22/4/2024]).

[6] «E’ un inno, una sintesi poetica di tutta la teologia e la narrativa del vangelo, e anche è un’introduzione» (R.E. Brown, El Evangelio y las cartas, 35).

[7] Cfr. S. De Ausejo, ¿Es un himno a Cristo el Prólogo de San Juan?, EstBib 15 (1956), 233-77; 381-427; R. Schnackenburg, Logos-Hymnus und johanneischer Prolog, BZ 1 (1957), 69-109.

[8] Cf. J. A. Robinson, The Relation of the Prologue to the Gospel of St. John, NTS 9 (1962-63), 120-29. Altre opinioni in Brown, Giovanni, 28-29.

[9] Tutti parti alle quali si adatta l’affermazione del v. 11: “Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto”, e quella del v. 12: “A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome”.

[10] In rapporto alle rispettive citazioni del Prologo abbiamo: “E ora, Padre, glorificami davanti a te con quella gloria che io avevo presso di te prima che il mondo fosse” (Gv 17, 5); “Io sono la luce del mondo” (Gv 8, 12; 9, 5); “Questo disse Isaia perché vide la sua gloria e parlò di lui” (Gv 12, 41); “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3, 16); “Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre” (Gv 6, 46).

[11] Comparazione di 1, 7 con 1, 19: “Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo: «Tu, ¿chi sei?»”; e 1, 15 con 1, 30: “Egli è colui del quale ho detto: “Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me”.

[12] Come pure in 1Gv 1, 1: “Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita”.

[13] «Non c’è dubbio che “l’Agnello” dell’Apocalisse di Giovanni abbia origine in questa tradizione apocalittica» (C.H. Dodd, L’interpretazione del quarto vangelo [Biblioteca Teologica 11; Paideia Brescia 1974], 292). Allo stesso tempo, egli sostiene che l’Apocalisse condivide con il quarto Vangelo diverse espressioni della chiesa di Efeso (cfr. L’interpretazione, 297).

[14] In brani come: “l’Agnello, che sta in mezzo al trono, sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita” (Ap 7, 17); “Faranno guerra all’Agnello, ma l’Agnello li sconfiggerà, poiché egli è il Signore dei signori e Re dei re” (17, 14). Nel primo caso, anche il contesto è di glorificazione, specialmente perché se afferma, versetti prima, che “la salvezza appartiene all’Agnello” (7, 10), e che la folla degli eletti stava ritta, davanti al trono e all’Agnello (7, 9).

[15] Cfr. R. Brown, Giovanni: Commento al vangelo spirituale, Cittadella, Assisi 19913, 78.

[16] Così J. Beutler, Comentario al Evangelio de Juan, EVD, Estella 2016, 67. Gesù afferma in Gv 12, 23 che “è venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato”, e poi inizia a parlare della necessità che il chicco di grano muoia per dare frutto. Si menziona ancora il termine ‘servitore’ (diákonos) in 12, 26 –ma non quello di ‘servo’‒. Beutler vede una connessione molto intima, ma il contesto di quei versetti di Giovanni è quello della glorificazione del Figlio dell’uomo.

[17] Per rapporto anche di Mt 8, 17 con Is 53, 4 e di Eb 9, 28 con Is 53, 12. Clemente di Roma (I, 16) applicava pure Is 53 interamente a Gesù.

[18] Cfr. R. E. Brown, op. cit., 459-460.

[19] Los documentos de la Iglesia se han expedido oportunamente, incluso con carácter definitorio, sobre la exageración del poder redactor de las comunidades primitivas: «Otros, …no apreciando la autoridad de los Apóstoles, en cuanto testigos de Cristo, ni su influjo y oficio en la comunidad primitiva, exageran el poder creador de dicha comunidad. Todas estas cosas no sólo son contrarias a la doctrina católica, sino que también carecen de fundamento científico y se apartan de los rectos principios del método histórico». Pontificia Comisión Bíblica (PCB), Instrucción Sancta Mater Ecclesia, 1 (1964)

[http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/pcb_documents/rc_con_cfaith_doc_19640421_verita-vangeli_sp.html].

[20] Cfr. C. H. Dodd, A l’arrière-plan d’un dialogue johannique, RHPR 37 (1957), 6.

[21] Così A. Wikenhauser, L’Evangelo secondo Giovanni, 284.

[22] “Un’aggiunta redazionale al piano del Vangelo” (cfr. R. E. Brown, Giovanni, 540). Cfr. anche R. Schnackenburg, Das Johannesevangelium 5-12, (HThK) IV/2, 396-97; J. Beutler, Comentario, 277, cho sostiene, in ogni caso, che “l’intero testo di 11, 1-46, nella sua forma definitiva, deve essere considerato e interpretato come un testo giovanneo, poiché le parti ipotizzate diventano componenti del testo in ultima istanza e vengono comprese sulla base di esso”.

[23] Gv 10, 41-42: “Molti andarono da lui e dicevano: «Giovanni non ha compiuto nessun segno, ma tutto quello che Giovanni ha detto di costui era vero». E in quel luogo molti credettero in lui”.

[24] Cfr. R. E. Brown, Giovanni, 556. 560.

[25] Gv 10, 40: “Ritornò quindi nuovamente al di là del Giordano, nel luogo dove prima Giovanni battezzava, e qui rimase”.

[26] Cfr. R. E. Brown, Giovanni, 540 (argomenti generali); 556ss. (particolari).

[27] Cfr. A. Wikenhauser, L’Evangelo, 346-47.

[28] Alcuni indicano il cap. 15 come una “variante” del capitolo precedente, scritto per uno scopo proprio, che è stato poi collocato nella posizione attuale senza cercare di armonizzarlo con il contesto precedente. La variante si estenderebbe addirittura al capitolo 17. Così ad esempio, G. Zevini, Vangelo secondo Giovanni, Città Nuova, Roma 20097, 426, seguendo a H. Strathmann, Il Vangelo secondo Giovanni, Paideia, Brescia 1973, 354-355.

[29] Brown è più propenso a una redazione finale successiva all’epoca dell’evangelista, anche se ritiene possibili entrambe le cose. Wikenhauser, come abbiamo detto, è più propenso alla redazione finale dell’evangelista stesso (cfr. L’Evangelo, 347). Una spiegazione completa dell’esposizione di Brown e delle sue fonti, in R.E. Brown, Giovanni, 697-715 (700).

[30] La ripetizione non si verifica nemmeno con quei verbi e forme verbali molto rappresentativi dell’argomento di entrambe le sezioni, come quelli derivati da agapáō (amare, come: ἀγαπήσω [14, 21]; ἠγάπησα [13, 34]), quelli che si riferiscono alla sequela di Gesù (ἀκολουθῆσαι [13, 37]), quelle che fanno riferimento all’invio dello Spirito Santo (πέμψει [14, 26]), al “credere” (πιστεύσητε [14, 29]) e al “glorificare” (ἐδοξάσθη [13, 31]). In 16, 27 si usa ancora phyleō (φιλεω) per “amore” e, a proposito dello Spirito, si sottolinea ulteriormente che “verrà” (v. 8 e v. 11).

[31] Sembra di essere l’opinione di Bover, che la considera come «possibile, ma non la più probabile», secondo citato da M. A. Fuentes, Las confidencias del corazón de Jesús: La última cena en el Evangelio de San Juan, Ed. Aphorontes, San Rafael 2017, 34.

[32] Altri autori accettano anche l’esistenza di due colloqui di Gesù con i suoi (quello del cap. 14 e quello del cap. 16), che si ripetono in parte, ma che non si spiegano con aggregati o fonti redazionali diverse, bensì con due fasi diverse della stessa tradizione giovannea, coordinate in un secondo momento dalla comunità o dal redattore (una visione più vicina alla cosiddetta Formgeschichte) [cfr. G. Zevini, Vangelo secondo Giovanni, 447-450, soprattutto p. 451, nota 106].

[33] Beutler afferma che così l’attestava già Agostino (Tractatus in Iohannem LXXIX, 2), e San Tommaso se ne fa eco (S. Th. III, 47, a. 2, ad1) (cfr. J. Beutler, Comentario 365).

[34] Cfr. F. La Gioia, La glorificazione, 18 [nota 7].

[35] Cfr. R. E. Brown, Giovanni, 907-8.

[36] Cfr. F. J. Moloney, The gospel of John, (e- book) Conclusione 13, 1 – 17, 26.

[37] Cfr. R. E. Brown, Giovanni, 905; R. Schnackenburg, Il vangelo, III, 267; G. Segalla, La preghiera di Gesù al Padre (Gv 17), Paideia, Brescia 1983, 13; W. Thüsing, La prière sacerdotale de Jésus (Jean, c. 17) [trad. J. Burckel et F. Stoessel] (Lire la Bible 22; Edition du Cerf, Paris 1970), 5.

[38] PCB, Dichiarazione Sancta Mater Ecclesia (La verità storica dei Vangeli), 1 e 4 (21/4/1964) [AAS 56 (1964) 712-718] (https://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/pcb_documents/rc_con_cfaith_doc_19640421_verita-vangeli_it.html) [consultata il 24/4/2024].

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