L’ISPIRAZIONE BIBLICA e LA LIBERTA’ DEL AGIOGRAFO   

L’ISPIRAZIONE BIBLICA e LA LIBERTA’ DEL AGIOGRAFO  (*)           

Giovanni evangelista, con il rotolo della Scrittura ed il suo animale simbolico: l’aquila

         L’ispirazione biblica costituisce il fenomeno essenziale che ci permette distinguere fra i libri profani e quelli considerati propriamente sacri. Perfino quei libri che versano su materia religiosa, devoti, scritti da grandi santi o dottori, sono e rimangono sempre come un’opera umana nella misura che non godono del carisma o grazia propria dell’ispirazione biblica, che distingue un’opera che può e deve essere considerata parola di Dio da qualsiasi altra.

          Quest’argomento è stato sviluppato ormai tantissime volte ed è stato pure soggetto di diverse materie e trattati. Noi faremo semplicemente una veloce revisione dei principi e delle fonti fondamentali per poi passare a un’analisi più dettagliata di qualche problematica particolare.

  1. L’ispirazione nelle fonti della Rivelazione

a) Fondamento nella Sacra Scrittura:

            Ci sono almeno tre testi biblici che forniscono gli elementi essenziali per poter parlare di fenomeno di ispirazione biblica e di Dio come autore della Sacra Scrittura:

1°) Il primo è 2Tm 3, 16-17: «Tutta la Scrittura è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona».

            L’espressione impiegata è: γραφὴ θεόπνευστος (“scrittura ispirata”). In particolare il secondo termine (gr. Theópneustos) ricorre solo qui in tutta la Bibbia, mentre che appare altre volte nella grecità sempre con il significato di «soffiato, spirato da Dio», in senso passivo, e così è stato inteso dalle antiche versioni e dai Padri greci.  

2°) Il secondo è 2Pt 1, 20-21: «Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio».

            In questo caso l’espressione è più abbreviata: ὑπὸ πνεύματος ἁγίου (“dallo Spirito Santo” o “sotto lo Spirito Santo”), il che di solito si traduce come “mosso dallo Spirito Santo”, e serve a indicare una realtà coincidente con quella del primo testo. Ad ogni modo, questo secondo permette di definire tre idee centrali:

a) la Sacra Scrittura trae la sua origine «dall’azione dello Spirito Santo», che spinse gli uomini a parlare e scrivere in nome di Dio;

b) l’azione ispirante dello Spirito «si compì per mezzo degli agiografi» che scrissero mossi non dalla sola volontà umana;

c) per la sua origine divina, la Scrittura va «interpretata secondo quel principio di cui ha origine», cioè alla luce dello Spirito che illumina tutta la comunità dei credenti, e non dal solo ingegno umano.

b) Interpretazioni dei Padri e del Magistero:

            I padri hanno utilizzato dei termini e analogie diverse per cercare di descrivere la relazione tra Dio e l’autore sacro. Da una parte, la nozione di «Deus Auctor», per parlare dell’autore ultimo della Scrittura. Riguardo lo scrittore umano, una delle nozioni o termini più impiegati fu in greco quello di «organon» che si traduce per strumento. Si voleva sottolineare il fatto che l’agiografo, essendo un uomo conservava tutte le sue caratteristiche: la sua intelligenza, memoria e volontà nel momento di essere ispirato. Eloquenti sono le parole di san Girolamo: «non è vero, come si immagina Montano con le donne insipienti, che i profeti abbiano parlato in estasi, così da non saper ciò che dicevano»[1].    

            Nel livello del Magistero, c’è già stato un riferimento all’ispirazione biblica nel concilio di Firenze; il concilio di Trento si dedicò più alla questione della canonicità e integrità dei libri, e della definizione del canone. Fu il concilio Vaticano I che stabilì nella costituzione dogmatica Dei Filius gli elementi fondanti del vero concetto d’ispirazione. Il brano conciliare è preceduto da un riferimento al canone biblico, con parole prese dal concilio di Trento: «Questi libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, nella loro interezza, con tutte le loro parti, così come sono elencati nel decreto di questo concilio e come si trovano nella edizione latina della Volgata, devono essere accettati come sacri e canonici. La Chiesa li considera tali non perché, composti per opera dell’uomo, sono stati poi approvati dalla sua autorità, e neppure soltanto perché contengono senza errore la rivelazione; ma perché scritti sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, hanno Dio per autore e come tali sono stati trasmessi alla Chiesa»[2].

            La nozione è stata perfezionata poi nella enciclica Providentissimus Deus (18 novembre 1893) del papa Leone XIII, dove si abbordava la tematica della natura dell’ispirazione e dell’inerranza biblica. Quasi simultaneamente, alcuni teologi ed esegeti, basandosi sulla dottrina di San Tommaso di Aquino radicata nel pensiero biblico e patristico, considerarono che questa poteva contribuire positivamente a dare una risposta al problema teologico della collaborazione dell’uomo con Dio nella composizione della Sacra Scrittura, in particolare a partire della nozione della causalità strumentale. Fu in particolare il domenicano M.J. Lagrange il primo che, dal 1895, intraprese questo compito. La nozione di ‘causa principale’ (Dio) – ‘causa strumentale’ (agiografo) si adatta perfettamente a quello stabilito nella enciclica Providentissimus riguardo al ‘modus operandi’ di Dio sull’agiografo nel fenomeno dell’ispirazione: «Egli stesso così li stimolò e li mosse a scrivere con la sua virtù soprannaturale, così li assisté mentre scrivevano, di modo che tutte quelle cose e quelle sole che egli voleva, le concepissero rettamente con la mente, e avessero la volontà di scrivere fedelmente e le esprimessero in maniera atta con infallibile verità»[3]. L’ispirazione attua allora sull’intelligenza, sulla volontà e sulle facoltà esecutive dell’agiografo, le stesse facoltà che l’uomo mette in motto perfino quando cerca di comporre un’opera umana scritta, solo che qua vengono assistite in modo particolare ed efficace dallo stesso Spirito Santo.

            La dottrina verrà poi ripresa, benché con altra formulazione, dallo stesso Magistero nella costituzione dottrinale Dei Verbum del Concilio Vaticano II: «Per la composizione dei libri sacri, Dio scelse e impiegò uomini in possesso delle loro facoltà e capacità[4] e agì in essi e per mezzo di essi, affinché scrivessero come veri autori tutte le cose e soltanto quelle che egli voleva»[5].

  1. La causalità divina nello scrittore sacro

            Nell’ispirazione biblica si riconosce dunque un tipo particolare di causalità, che può spiegarsi così: Dio (causa e autore principale) muove l’agiografo (causa strumentale), che conserva il pieno uso delle sue facoltà e la sua libertà, a scrivere. L’effetto di quest’azione causale è il libro sacro che in qualità di tale viene consegnato alla Chiesa. Si era detto che “la mente dell’autore sacro viene illuminata”. Quest’illuminazione si dà specialmente nell’operazione intellettuale detta del giudizio per il quale lo scrittore giudica con certezza divina i dati, informazioni e concetti che molte volte sono stati appresi in modo umano. È Dio (l’azione si appropria alla persona divina dello Spirito Santo) che muove l’autore umano a giudicare, ed è anche l’agiografo che giudica, ma con certezza divina. È Dio che muove la volontà umana a scrivere in modo che questa scrive volontaria e propriamente, potendo chiamarsi il risultato in giustizia Parola di Dio in virtù dell’agente principale.

            L’azione della causa prima o principale, ad ogni modo, non viene limitata né determinata dalla seconda; Dio come causa principale può causare il muovere di un modo o di un altro o pure iniziare a muovere, non muovere o smettere di farlo.

            Tommaso di Aquino analizza certi casi particolari in relazione a quanto diciamo, senza sviluppare lui stesso un trattato di ispirazione biblica, verità che al tempo suo non era definita dal Magistero come tale, ma quanto dice circa la grazia carismatica della profezia si ne adatta perfettamente, in quanto implica anche una vera illuminazione dell’intelligenza, specialmente nell’operazione del giudizio, un impulso sulla volontà seguito da un moto delle potenze operative, e tante volte perfino la mozione per mettere per scritto quanto rivelato. Possiamo far notare due punti importanti:

1°) Non è un abito, ma un moto transeunte.

            Dopo aver dimostrato, infatti, che la profezia è un fenomeno di conoscenza (“principaliter consistit in cognitione”)[6], San Tommaso afferma che la profezia viene equiparata ad una certa luce intellettuale, perché è visione, e questa si produce tramite la luce[7]. Deve essere soprannaturale, perché si tratta della conoscenza di cose superiori alla natura. Non può essere permanente, perché altrimenti il profeta avrebbe sempre la capacità di profetare, cosa che è falso (fornendoci qualche esempio al riguardo)[8]. Dunque, è a modo di passione o impressione passeggera e transeunte; non è dunque un abito, giacché l’abito rimane[9].

            Lo stesso possiamo dire del carisma dell’ispirazione biblica, analogo in natura a quello profetico: L’ispirazione non è un fenomeno permanente, ma che dura, per un certo agiografo, quanto dura la composizione del libro sacro, fino al suo completamento.

2°) Il discernimento fra quello che è ispirato da Dio e quello che è proprio dell’agiografo:

            A questo proposito, Aquino afferma che “l’anima del profeta può essere illuminata da Dio in due maniere: primo, mediante un’espressa rivelazione; secondo, “mediante un istinto, o impulso che talora le anime subiscono anche senza saperlo”, come scrive S. Agostino. Per questo motivo il profeta ha –nel primo caso– massima certezza di ciò che conosce espressamente mediante lo spirito di profezia, ed è certo che tali cose le sono state rivelate da Dio”[10]. Si vede in casi come in Geremia, dove lui stesso rende testimonianza: «Il Signore mi ha mandato a profetizzare contro questo tempio e contro questa città le cose che avete ascoltato» (Ger 26, 12). Stessa cosa lo troviamo per le profezie o oracoli consegnati per scritto e parte del testo sacro[11].

            In altri casi, invece, quando si tratta di certo istinto soprannaturale, il soggetto “non è in condizione di discernere, se quanto egli pensa sia dovuto alla mozione divina, o allo spirito proprio”[12]. Lo spiega ancora meglio più avanti:           

Profeta Isaia (affresco di Raffaele Sanzio in chiesa Sant’Agostino di Roma)

         “La mente del profeta, infatti, quando viene mossa a giudicare o a comprendere, talora è portata a conoscere soltanto una data cosa, altre volte invece arriva anche a conoscere che quella cosa gli viene rivelata da Dio. – Parimente talora la mente del profeta è mossa a parlare in modo da capire ciò che lo Spirito Santo vuole esprimere con quelle parole, come David, il quale poteva dire: “Lo spirito del Signore ha parlato per mezzo mio” (2Sam 23, 2); talora invece colui, che è mosso a dire delle parole, non capisce quello che lo Spirito Santo vuoi intendere con esse, com’è evidente nel caso di Caifa” (Gv 11, 50-51)[13]. In questo ultimo caso, Aquino afferma che si tratta di “impulso o istinto profetico”, qualcosa di imperfetto nel genere di profezia[14].

  1. La virtualità della causalità divina e dello scrittore sacro

           L’ultimo esempio mostrato ci espone un caso in cui può essere ispirato un soggetto che non sia propriamente un profeta (come il caso di Caifa) e neanche una persona chi cerchi di essere fedele o docile all’ispirazione divina. Ma San Tommaso dirà ancora di più: “Si noti però che anche i veri profeti non conoscono tutto quello che lo Spirito Santo voleva intendere nelle loro visioni, parole ed operazioni, perché la mente del profeta è uno strumento inadeguato”[15]. Questo sarà sempre così: sia nei veri o falsi profeti, sia nei buoni o nei cattivi, la virtualità o potere di azione della causa principale è infinitamente superiore a quello della causa strumentale, e perciò la mente del profeta rimane sempre uno strumento inadeguato.

            Un altro testo dell’Aquinate illumina quanto affermato ma da un’altra prospettiva: “Pertanto, anche se alcuni espositori delle sacre Scritture si adattano alla lettera di alcune verità (espongono alcune verità) che l’autore (umano) non comprende, non c’è dubbio che lo Spirito Santo, che è l’autore principale delle divine Scritture, le ha comprese”[16]. Questo ci porta dalla mano alla considerazione del chiamato senso letterale della Scrittura, e le sue implicazioni.

            In effetti, San Tommaso presenta parecchie volte una definizione di senso letterale, vincolandolo sia alla stessa lettera o parole, sia all’autore e perfino all’autore principale:

1 – “Senso letterale è, quello che l’autore intende, ma l’autore della Sacra Scrittura è Dio”. Quel primo significato, con cui le parole significano le cose, appartiene al primo senso, che è il senso storico o letterale[17].

2 – “Nel primo modo, secondo il fatto che le cose sono significate dalle parole; ed in questo consiste il senso letterale[18].

3 – “Appartiene al senso letterale tutto ciò che si deduce correttamente dal significato stesso delle parole[19].

            Nel corpus del articolo 10 della prima questione della Summa, l’Aquinate iniziava la risposta dicendo che “Dio può non solo adattare parole per esprimere una verità, ciò che può anche l’uomo; ma anche le cose stesse”, con lo quale fondamenta l’esistenza del chiamato senso spirituale della Scrittura, per il quale le realtà stesse espresse dalle parole della Scritture possono anche significare altre cose o realtà, ma aggiungerà che questo può darsi anche nello stesso senso letterale, come diceva già S. Agostino: “Siccome Dio comprende simultaneamente col suo intelletto tutte le cose, non c’è difficoltà ad ammettere, con S. Agostino, che anche secondo il senso letterale in un medesimo testo scritturale vi siano più sensi”[20].

            Questo ‘anche secondo il senso letterale’ si adatta al testo precedentemente citato de De Potentia, dove si affermava perfino che, se in un testo della Scrittura ci sono delle verità che l’autore umano no le capisce, certamente che lo Spirito Santo le avrà sì capito, e quest’interpretazione può venire alla luce posteriormente, sia da un altro testo della Scrittura, sia da un espositore o dallo stesso Magistero.

            Uno degli esempi più eloquente l’abbiamo a proposito della chiamata profezia della vergine e dell’Emmanuele, di Isaia 7, 14: 

– In molte edizioni bibliche, seguendo il testo ebraico possiamo trovare: “Ecco la giovane donna concepirà e partorirà un figlio e gli porrà nome Emmanuele”. Il termine ebraico ‘almah di solito significa una donna pronta da essere sposata, senza riferimento all’età, pur se nella maggioranza dei casi si tratta di una giovane donna.

– La traduzione che segue più da vicino sia la Volgata che la LXX legge invece: “Ecco la vergine concepirà e partorirà un figlio e gli porrà nome Emmanuele”. Il termine con cui la LXX traduce l’ebraico è παρθένος (parthénos) che significa vergine.

            La LXX fu tradotta nei sec. III-II prima di Cristo da ebrei che non potevano conoscere né Gesù né Maria, ma potevano intuire che la profezia di Isaia non era ancora stata compiuta, almeno non nella sua integrità. Questo viene confermato dall’interpretazione che gli evangelisti poi ne faranno come in Matteo 1, 23, dove viene citata questa profezia di Isaia applicata alla concezione verginale di Gesù[21]. Ma non è il Nuovo Testamento a conferire questo significato alla profezia di Isaia, e ancora di meno sono la Chiesa o il Magistero a conferirlo. Questi solo riconoscono e attestano questo senso che si trovava già, in profondità, nel testo stesso di Is 7, 14[22].

            È quello che alcuni autori hanno introdotto con il concetto di sensus plenior[23] (sebbene il concetto non è tradizionale né appare nei documenti magisteriali), che significherebbe quel senso contenuto -letteralmente- nelle parole, ma noto solo a Dio e quindi sconosciuto all’agiografo, o almeno non conosciuto da lui in tutta la sua portata. In qualche documento più recente della PCB il concetto appare pur se si lo considera un’ipotesi in boga legata alla ricerca degli studiosi[24].

            È possibile conoscerlo solo alla luce della rivelazione successiva, come abbiamo accennato: l’uso che il Nuovo Testamento fa dell’Antico Testamento, l’adempimento della profezia, in particolare la rivelazione fatta da Cristo, e anche il modo in cui i testi biblici sono stati compresi dalla tradizione e dal magistero della Chiesa. Non potrebbe essere un senso che contraddica quello che l’agiografo ha direttamente affermato, né può contenere un’affermazione opposta. Questo senso deve essere in qualche modo implicito nel senso letterale, altrimenti si metterebbe in discussione la natura della causalità strumentale; tuttavia, poiché la virtualità dell’agente principale è maggiore di quella dell’agente strumentale, è sempre possibile che ci siano aspetti di quell’effetto che l’agente strumentale non riesce a percepire.

  1. Qualità morale dell’autore umano

            San Tommaso si domanda espressamente “se sia necessaria la bontà dei costumi per la profezia”. Utilizzando quest’ultimo termine in senso analogo, come già esposto, potremo farsi la stessa domanda per l’ispirazione biblica.

            L’Aquinate risponde che «la grazia santificante -principio del bene più grande che un soggetto può avere- viene data principalmente allo scopo di unire l’anima con Dio mediante la carità […]. Quindi tutto ciò che può sussistere senza la carità può trovarsi [in un soggetto] senza la grazia santificante, e quindi senza bontà di costumi. Ora, la profezia può sussistere senza la carità, ciò che è reso evidente da due cose:

1) Dai rispettivi atti: poiché la profezia appartiene all’intelletto, il cui atto precede quello della volontà, che ha la sua perfezione nella carità. L’Apostolo infatti enumera la profezia tra i carismi riguardanti l’intelletto, che si possono avere anche senza la carità[25].

2) Dal fine dell’una e dell’altra: poiché la profezia è data per il bene della Chiesa, come gli altri carismi, secondo l’affermazione dell’Apostolo: “La manifestazione dello Spirito è data a ciascuno per l’utilità comune” (1Cor 12, 7); e non è ordinata direttamente, come la carità, ad unire a Dio gli affetti del profeta. Perciò la profezia può sussistere indipendentemente dalla bontà di costumi, rispetto alla prima radice di tale bontà.

            Se invece consideriamo la bontà di costumi rispetto alle passioni e agli atti esterni, allora la cattiveria dei costumi è incompatibile con la profezia. Questa infatti richiede la massima elevazione dell’intelletto alla contemplazione delle cose spirituali, la quale viene impedita dalla violenza delle passioni e dalla preoccupazione delle cose esterne. Si legge infatti a proposito dei “figli dei profeti”, che “essi abitavano insieme ad Eliseo” (2Re 6); facendo così una vita quasi solitaria, per non essere privati del dono profetico a motivo delle occupazioni mondane»[26].

            Aquino lascia in chiaro che non si richiede, in principio, la virtù morale per poter godere in certe opportunità, di un dono carismatico (profezia; ispirazione biblica), perché dipende solo da Dio e può concederlo a chiunque, ma è meglio averla perché questa grazia sia meglio ricevuta, in più pienezza (mediante tutte le potenze, compressa la volontà e gli appetiti), e la vita della persona sia più consona con la grazia concreta di rivelazione che gli viene trasmessa. Possiamo quindi dedurre, con certezza, che per questo motivo Dio abbia scelto delle persone virtuose o che lavoravano con grande sforzo nel cammino della virtù, per essere autori dei sacri libri. 

  1. Rapporto tra virtù e atto volontario e libero

            In relazione con quanto detto, l’Aquinate analizza, in diversi momenti delle sue scritti e in diverse opere, la relazione che esiste tra la virtù e l’atto libero nell’uomo, contro quello che potrebbe vedersi come un condizionamento della libertà da parte dell’abito o della virtù. Così in un’opera di giovinezza:

     «In tutto ciò che rientra nella scelta, la volontà rimane libera, avendo solo la determinazione di desiderare naturalmente la felicità e non in modo determinato questo o quello (‘in hoc vel illo’). Anche se non può essere costretta, tuttavia può essere portata a fare qualcosa da certe disposizioni e abiti che la rendono più propensa a scegliere diversamente»[27].

             Questo testo ed altri sembrano distinguere nell’uomo tra l’appetito naturale di felicità e l’elezione di altre cose. Queste altre cose non sono soltanto i mezzi (ea quae sunt ad finem) ma perfino quello che viene chiamato da Fabro il fine ultimo in concreto nella quale scelta l’abito gioca un ruolo decisivo, secondo alcuni moralisti. Ad esempio:

            “In virtù della natura razionale comune a tutti gli uomini, la felicità è per tutti il bene pieno e perfetto; in virtù delle particolare disposizioni che condizionano ciascuno, il tale o tal altro bene concreto sarà stimato come quello che può renderci felici […] L’appetizione del fin ultimo concreto è condizionata, quanto alla disposizioni, dalle passioni e dagli abiti morali del soggetto”[28]. E anche: “Gli abiti buoni sono necessari per rettificare la volontà nella volizione del fine ultimo concreto”[29].

            Si capisce, in questo modo, come il ruolo delle virtù in rapporto alla volontà umana sia fondamentale dal momento che queste dispongono la volontà in maniera di prepararla per fare delle buone scelte. La virtù fa sì non solo che l’elezione sia retta, ma perfeziona la stessa libertà di elezione:

1°) In primo luogo, facilitando l’esercizio della libertà, perché toglie gli impedimenti che possono mettere le cattive disposizioni provenienti dal peccato e dal vizio, e mette delle buone disposizioni perché le potenze appetitivi seguano u obbediscano la ragione prudente.

2°) In secondo luogo, aumentando la libertà ‘morale’, perché questa cresce con l’esercizio della virtù – e nella misura che questa si esercita- (più si esercita più cresce). Si produce un vero sviluppo della libertà umana a partire dagli abiti virtuosi che influiscono sulla volontà.

            Nell’abito virtuoso si manifesta la nobiltà della volontà libera, perché trovandosi essa inclinata da un abito può non agire in base ad essa, eppure sceglie di seguire l’inclinazione quando opera secondo virtù[30].

            Possiamo trasporre quanto detto al caso dell’agiografo ispirato dallo Spirito Santo. Abbiamo detto che il suo atto di scrivere è volontario, rimanendo interamente in possesso della sua libertà pur se ispirato. Potrebbe scegliere di non scrivere, pur se ispirato, rifiutandosi ed essendo indocile a quella grazia. Scegliendo di farlo, realizza un atto libero e si lui, indipendentemente del carisma, è di per sé perseverante, costante, attento e diligente in quello che scrive, realizza pure degli atti di virtù che perfezionano la sua libertà, anche se il carisma dell’ispirazione che lui riceve non è in se stesso un abito. Quando questa grazia cessa, lui conserva le sue virtù per applicarle ad altri scritti o ad altre cose, pur se già non fossero parti di un libro ispirato.

            Come conclusione, crediamo che nell’ispirazione biblica si manifesta, di modo pratico e palese uno dei migliori esempi di causalità divina sull’uomo, di modo trascendentale, dove l’effetto soprannaturale lavora nell’autore umano e per suo mezzo, rispettando le intere sue caratteristiche, sua piena coscienza, sua intera volontà e sua intoccabile libertà, per la quale produce un effetto che è suo, ma allo stesso tempo è totalmente di Dio, pienamente soprannaturale. 

R. P. Carlos D. Pereira, IVE

(*) Presentazione svolta alle ‘giornate tomistiche’ del Seminario San Vitaliano Papa di Montefiascone (VT), Italia, il 16/03/2024.

[1] Cfr. S. Girolamo, Prologo in Isaia.

[2] Conc. Vat. I [24/4/1870], cap. II : De Revelatione ; EB 77 (DS 3006).

[3] Cf. PP. Leone XIII, Providentissimus Deus; EB 125 (DS 3293).

[4] Cfr. PP. Pio XII, Divino afflante Spiritu: (EB 556).

[5] Conc. Vat. II, Cost. dottrinale Dei Verbum, 11.

[6] Cfr. Tommaso di Aquino, Summa Theologiae (S. Th) II-II, 171, a. 1.

[7] “Manifestatio visionis intellectualis fit per lumen intellectuale” (cfr. S. Th. II-II, 171, a. 2).

[8] L’esempio presentato è quello che riferisce il profeta Eliseo al suo servo, a proposito della donna sunammita in 2Re 4, 27: Giunta presso l’uomo di Dio sul monte, gli afferrò i piedi. Giezi si avvicinò per tirarla indietro, ma l’uomo di Dio disse: «Lasciala stare, perché il suo animo è amareggiato e il Signore me ne ha nascosto il motivo; non me l’ha rivelato».

[9] Aggiungerà Aquino, citando a San Gregorio Magno, che “si deve notare che i profeti santi, per il frequente esercizio del loro ministero, talora proferiscono cose che derivano dal loro spirito, pensando di esser mossi dallo spirito profetico” (S. Th. II-II, 171, a. 5, sc). Sarebbe il caso del profeta Natan, che confermò il re Davide nel suo desiderio di costruire il Tempio, ma fu poi avvertito da Dio di dire a Davide che non sarebbe lui a farlo bensì suo figlio (cfr. 2Sam 7, 3-17).

[10] Cfr. S. Th. II-II, 171, a. 5.

[11] Ad esempio Is 30, 8: Su, vieni, scrivi questo su una tavoletta davanti a loro, incidilo sopra un documento, perché resti per il futuro in testimonianza perenne.

[12] S. Th. II-II, 171, a. 5.

[13] Cf. S. Th. II-II, 173, a. 4.

[14] Cf. II-II, 171, a. 5. Ancora nel commento a San Giovanni: «Egli non può dirsi profeta, se non in quanto ebbe una delle funzioni profetiche: l’atto di annunziare una profezia; mentre la sua immaginazione e ragione rimanevano ad essa contrarie» (In Iohannem evang. Expositio, XI, lec. 7).

[15] S. Th. II-II, 173, a. 4.

[16] «Unde si etiam aliqua vera ab expositoribus sacrae Scripturae litterae aptentur, quae auctor non intelligit, non est dubium quin spiritus sanctus intellexerit, qui est principalis auctor divinae Scripturae» (Quest. Disput. De Potentia, IV, a. 1, c).

[17] « Sensus litteralis est, quem auctor intendit, auctor autem sacrae Scripturae Deus est, qui omnia simul suo intellectu comprehendit […] Illa ergo prima significatio, qua voces significant res, pertinet ad primum sensum, qui est sensus historicus vel litteralis» (S. Th. I, q. 1, a. 10c).

[18] “Uno modo secundum quod res significantur per verba: et in hoc consistit sensus litteralis” (Quodlibet VII, q. 6, a. 14 (1) c).

[19] «Totum id ad sensum litteralem pertinet quod ex ipsa verborum significatione recte accipitur» (Quodlibet VII, q. 6, a. 15 (2) c). In altri momenti, parla di “realtà significate dalle voci” (cfr. In Ep ad Gal, c. 4, lec. 7).

[20] Cfr. S. Th. I, q. 1, a. 10c.

[21] Mt 1, 23: “Ecco: la vergine concepirà e darà alla luce un figlio che sarà chiamato Emmanuele”.

[22] “Dobbiamo riconoscere un misterioso orientamento dato dallo Spirito Santo alle parole di Isaia, per preparare la comprensione della nascita straordinaria del Messia” (cfr. PP. Giovanni Paolo II, Udienza 31/1/1996).

[23] In particolare, A. FERNÁNDEZ, Sentido plenior, literal, típico, en «Biblica» 34 (1953), 299-326. Anche M. A. TABET, La perspectiva sobrenatural de la hermenéutica bíblica de Santo Tomás, Scripta Theologica XVIII/1 (1986), 175-196.

[24] Nel documento PCB, Interprétation de la Bible dans l’Eglise, II B 3; Vaticano (1993): «Si definisce il senso pieno come un senso più profondo del testo, voluto da Dio, ma ‘non chiaramente espresso’ dall’autore umano. Se ne scopre l’esistenza in un testo biblico quando viene studiato alla luce di altri testi biblici che lo utilizzano o nel suo rapporto con lo sviluppo interno della rivelazione» (http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/pcb_documents/rc_con_cfaith_doc_19930415_interpretazione_it.html). Propriamente non si dovrebbe dire che è “non chiaramente espresso” dall’autore umano ma non “chiaramente conosciuto da lui”, per essere più di accordo all’insegnamento di San Tommaso. Altrimenti sembra che tutto dipende dell’interpretazione posteriore che se ne fa del testo.

[25] 1Cor 13, 2: “Se anche ho il dono della profezia e conosco tutti i misteri e tutta la scienza”. Di Caifa si dice ancora: «Non ne illuminò la mente, né l’immaginazione; cosicché la sua mente con la rispettiva immaginazione rimasero intenzionata al male. Tuttavia lo Spirito Santo mosse la sua lingua a proferire in che modo sarebbe compiuta la salvezza del popolo» (In Iohannem evang. Expositio, XI, lec. 7). «Si può essere profeta sottomesso a dei vizi spirituali, ma non a vizi carnali né a forti preoccupazioni del secolo, per le quali si allontana la mente dalle cose spirituali» (Quest. De Veritate, q. 12, a. 5).

[26] Cf. S. Th. II-II, 172, a. 4c.

[27] Cfr. Tommaso di Aquino, In II Sent., d. 25, q. 1, a. 2., sol.

[28] Cfr. A. Rodríguez Luño, La scelta etica. Il rapporto fra libertà e virtù (Ragione & Fede. Collana studi filosofico-teologici di base, 7; Milano 1988, 79). Aquino aggiunge che nell’appetito razionale -non naturale- esiste rettitudine quando si appetisce la beatitudine ‘ubi vere est’ (In IV Sent., d. 49. q. 1, a. 3, sol. 3). Questa scelta della felicità ubi vere est è quella che determina la rettitudine di un’azione e la moralità degli atti umani (cfr. S.M di Fatima Gaioli, La electio libre en el hábito virtuoso según el pensamiento de Tomás de Aquino, EDIVE, San Rafael 2023, 140).

[29] Cfr. G. Abbà, Le virtù per la felicità. Ricerche di filosofia morale – 3; Nuova Biblioteca di Scienze religiose 55, LAS, Roma 2018, 112.

[30] Cfr. S.M di Fatima Gaioli, La electio libre, 185.

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