CONOSCENZA NATURALE di DIO NELLA SACRA SCRITTURA: Libro della Sapienza e San Paolo in Romani
Il vocabolo ‘conoscere’ o ‘conoscenza’ occupa nella Scrittura un posto preminente e ricorre numerose volte. Il termine si utilizza per significare la capacità e i modi diversi di cui gode l’uomo per conoscere la realtà, se stesso, l’altro, e perfino per conoscere Dio. Su quest’ultimo argomento menzionato, la conoscenza di Dio, possiamo certamente trovare tantissime ricorrenze, le quali si riferiscono sia già a una conoscenza naturale, quella che l’uomo può raggiungere con le sue potenze naturali, sia a una conoscenza soprannaturale, raggiunta grazie alla Rivelazione propriamente detta, con la quale il Creatore può manifestarsi all’uomo e farlo partecipe del suo mistero.
Cercheremo, in questo lavoro, di sviluppare l’argomento della conoscenza naturale di Dio, di per sé molto vasto, concentrandoci in due passaggi della Scrittura, forse i più classici su questo punto: Alcuni versetti del libro della Sapienza nell’Antico Testamento, nei capitoli 12 e 13 (specialmente 13, 1-9) e la Lettera ai Romani 1, 18-28 (in particolare vv. 20-21) nel Nuovo Testamento.
1. Il testo di Sapienza 13, 1-9
A) Testo e parole chiavi:
1μάταιοι μεν γαρ πάντες ἄνθρωποι φύσει οἷς παρῆν θεοῦ ἀγνωσία και ἐκ τῶν ὁρωμένων ἀγαθῶν οὐκ ἴσχυσαν εἰδέναι τον ὄντα οὔτε τοῖς ἔργοις προσέχοντες ἐπέγνωσαν τον τεχνίτην 2 ἀλλ᾽ ἢ πῦρ ἢ πνεῦμα ἢ ταχινὸν ἀέρα ἢ κύκλον ἄστρων ἢ βίαιον ὕδωρ ἢ φωστῆρας οὐρανοῦπρυτάνεις κόσμου θεοuς ἐνόμισαν 3 ὧν εἰ μεν τῇ καλλονῇ τερπόμενοι ταῦτα θεοuς ὑπελάμβανον γνώτωσαν πόσῳ τούτων ὁ δεσπότης ἐστὶ βελτίων ὁ γαρ τοῦ κάλλους γενεσιάρχης ἔκτισεν αὐτά 4 εἰ δὲ δύναμιν και ἐνέργειαν ἐκπλαγέντες νοησάτωσαν ἀπ᾽ αὐτῶν πόσῳ ὁ κατασκευάσας αὐτὰ δυνατώτερός ἐστιν 5 ἐκ γαρ μεγέθους και καλλονῆς κτισμάτων ἀναλόγως ὁ γενεσιουργoς αὐτῶν θεωρεῖται 6 ἀλλ᾽ ὅμως ἐπὶ τούτοις μέμψις ἐστιν ὀλίγη και γαρ αὐτοὶ τάχα πλανῶνται θεον ζητοῦντες και θέλοντες εὑρεῖν 7 ἐν γαρ τοῖς ἔργοις αὐτοῦ ἀναστρεφόμενοι διερευνῶσιν και πείθονται τῇ ὄψει ὅτι καλα τα βλεπόμενα 8 πάλιν δ᾽ οὐδ᾽ αὐτοι συγγνωστοί 9 εἰ γαρ τοσοῦτον ἴσχυσαν εἰδέναι ἵνα δύνωνται στοχάσασθαι τον αἰῶνα τον τούτων δεσπότην πῶς τάχιον οὐχ εὗρον | 1In effetti sono vani per natura tutti gli uomini che sono nell’ignoranza di Dio e che, dai beni visibili non furono capaci di vedere Colui che è, né, considerando le opere, ne riconobbero l’artefice. 2 ma o il fuoco o il vento o l’aria veloce o la volta stellata o l’acqua impetuosa o i luminari del cielo stimarono dei, governatori del mondo. 3 Se, dilettati dalla loro bontà, hanno ritenuto dei tali cose, quanto più di loro è il Signore, chi li ha creati ed è la sorgente della loro bontà. 4 Se li ha colpiti la forza e l’energia, riconoscano quanto più potente di loro è colui che le ha formate. 5 Infatti, dalla grandezza e bontà delle creature, ragionando, si può osservare il loro autore. 6 Tuttavia, per costoro minore è il biasimo, perché essi forse s’ingannano mentre cercano e vogliono trovare Dio. 7 Vivendo in mezzo alle sue opere, ricercano e si lasciano persuadere dall’apparenza, perché buono è ciò che si vede. 8 Ma neppure costoro sono scusabili; 9 perché se tanto furono capaci da vedere, da scrutare il corso di tutto, come mai non hanno trovato più presto il loro Signore? |
Abbiamo visto che si usano dei termini e verbi diversi:
– Riguardo la conoscenza di Dio, si usano i seguenti termini:
1) Agnosia (a – gnosìa = non conoscenza = ignoranza).Nel v.1:θεοῦ ἀγνωσία (ignoranza di Dio); 2) Epì – gnosis (sopra – conoscere = riconoscere). ἐπέγνωσαν τὸν τεχνίτην (riconoscere l’Artefice); 3) Gnòstosan (γνώτωσαν ὁ δεσπότης = conoscano il Signore) nel v.3.
Tutti procedono dalla radice gnōsis (conoscenza), per indicare lo stato originale di questi uomini che non sono riusciti a conoscere Dio, e che vengono chiamati “μάταιοι” (màtaioi = vani). Sembra appunto che il testo sta insinuando che abbiano mancato (caduto in vanità, in superficialità), nel non essere riusciti a conoscere Dio.
La ragione del perché sono vani si spiega nel v.5, quando si dice che dalla grandezza e bellezza delle creature, “si può vedere quello che le ha dato origine” (ὁ γενεσιουργος θεωρεῖται). 4) È utilizzato il verbo θεωρέω (theōréō= “vedere; contemplare”), più generico. Viene usato in passivo, forse perché è qualcosa che procede dalle creature (ek ktismátōn). Il modo di arrivare a quella conoscenza è per “ragionamenti o analogia” (l’avverbio analogōs).
5) Quelli che “non hanno trovato il Padrone” [v.9] (δεσπότην οὐχ εὗρον = despòtēs ouk euron).
– Riguardo la conoscenza delle creature, questa è molto più esaustiva:
1) Si parla (v.1 e v.9) di sapere (εἰδέναι, della radice οἶδα), un conoscere cioè completo, e anche il 2) verbo scrutare (v.9: στοχάσασθαι).
Perché, avendo una conoscenza esaustiva delle creature, non sono riusciti ad arrivare alla conoscenza del Creatore? La causa risiede nella loro volontà: Hanno stimato (le creature) come dei (θεοὺς ἐνόμισαν; v.2)e anche le hanno ritenuto tali (Dei) (θεοὺς ὑπελάμβανον; v.3).Di fatto, questa vana stimazione delle creature porterà gravi conseguenze, e terribili, quali sono le conseguenze dell’idolatria, che il libro della Sapienza presenterà a partire de 14,8.[1]
– In quello che riguarda lo stesso Dio, viene nominato con i seguenti nomi: v.1: τον ὄντα (“Colui che è”); τον τεχνίτην (technìtēn = “l’artefice”); v.3: ὁ δεσπότης (despòtēs = Signore o padrone);v.5: ὁ γενεσιουργος (“chi ha originate”); v.3: ἔκτισεν (éktisen = “chi ha creati”).
B) Analógos: Il modo della conoscenza viene segnalato proprio nel mezzo del discorso (v.5) dal termine ἀναλόγως, che è un avverbio, che non segnala un attributo bensì una modalità.
In genere, análogos in greco viene da lògos (parola), ma con l’aggiunta della preposizione ‘ana’ acquisisce un nuovo significato, quello di analogìa come “l’equivalenza secondo un rapporto reale”, il che costituisce “la proporzione”. In questo senso viene usato da parecchi autori classici:
– análogos: È usato come “quello che è di accordo a una parola (lògos) determinata o dovuta”; “proporzionato; conformabile”. Così, da Platone nel Timeus (69, b) e dal filosofo Timaeus Locrus (103, d). Altre volte (Asclepodiotus) significa “in progressione aritmetica”. In neutro: análogon viene usato da Aristotele en senso avverbiale: in proporzione (Etica Nicomaco, 1158a 35).
– Analogia è invece più utilizzata con il significato di “proporzione matematica” (Timeus 31c; 32c), seppur senza escludere qualche riferimento ai termini (Et Nic., 1131a 31).
Altre espressioni sono: katà tèn analogian (Plat., Politica, 257b) e katà tòn analogon (Papyr Amherst, II 85, 17f; Philone, De Virtutibus¸ 95). Anche Origene, nella versione Esapla della Bibbia, usa in Lv 27,18 l’espressione significando: a proporzione degli anni che restano (per il giubileo) … Nella LXX l’espressione viene leggermente cambiata nelle parole, pur conservando il significato.
– uso nella Bibbia: Come avverbio, soltanto ricorre nel nostro testo di Sap 13,5. Ma abbiamo l’espressione κατὰ τὴν ἀναλογίαν τῆς πίστεως in Rom 12,6, tradotta normalmente come: in (secondo la) somiglianza di fede. Infatti, il testo di Rom 12, 6-8 si presenta così:
Abbiamo infatti dei doni (carismi) diversi secondo la grazia a noi concessa; se la profezia secondo la analogia della fede; se il servizio (diaconia) per (nel) il servizio; se di chi insegna, per l’insegnamento; se di chi esorta, per l’esortazione. | ἔχοντες δε χαρίσματα κατα την χάριν την δοθεῖσαν ἡμῖν διάφορα, εἴτε προφητείαν κατα την ἀναλογίαν τῆς πίστεως, 7 εἴτε διακονίαν ἐν τῇ διακονίᾳ, εἴτε ὁ διδάσκων ἐν τῇ διδασκαλίᾳ, 8εἴτε ὁ παρακαλῶν ἐν τῇ παρακλήσει· |
Parlando dei carismi (o grazie in beneficio della comunità), San Paolo usa di solito come dimostrazione, un effetto, un’opera esterna. Invece non così per la profezia. Questa si misura “secondo l’analogia della fede”, probabilmente perché la profezia si relaziona con la rivelazione e implica un dono transeunte e non permanente di Dio. Probabilmente sia in rapporto con quanto viene detto tre versetti prima, in 12,3: Λέγω (…) παντι τῷ ὄντι ἐν ὑμῖν μη ὑπερφρονεῖν παρ᾽ ὃ δεῖ φρονεῖν ἀλλα φρονεῖν εἰς το σωφρονεῖν, ἑκάστῳ ὡς ὁ θεὸς ἐμέρισεν μέτρον πίστεως.
Dico (…) ad ognuno che è tra voi, di non sovrastimarsi (nel pensiero) più del necessario, ma di pensare giudicando secondo la misura di fede che Dio ha assegnato a ciascuno.
Nella nuova economia di salvezza, l’uomo deve reputarsi solo dalla ‘misura della fede’. Orbene, questo termine μέτρον di 12,3 viene tradotto nella versione siriaca Peshitta con la stessa parola con la quale si traduce ἀναλογίαν in 12,6, riferita anche essa alla fede (un uso combinato delle due parole anche nel Timeus 69, b). Dunque, sembra che la migliore traduzione nella Bibbia per ‘analogia’ sia misura, proporzione. Tornando ora al nostro testo di Sap 13,5, dove il termine è un avverbio, vediamo che l’uomo soltanto potrà scoprire questa ‘proporzione’ fra le creature e Dio, facendo uso del suo ragionamento. Solo con il ragionamento (non con un carisma, non con un sentimento, non con un’impressione), l’uomo potrà elevarsi a Dio a partire dalle creature. Dunque, secondo i riferimenti biblici, sembra che in Sap 13,5 si stia parlando, in modo inequivoco, di conoscenza razionale di Dio.
A questo proposito, insegnava San Giovanni Paolo II: «Dopo aver affermato che con la sua intelligenza l’uomo è in grado di “comprendere la struttura del mondo e la forza degli elementi […] il ciclo degli anni, la posizione degli astri, la natura degli animali e l’istinto delle fiere” (Sap 7, 17.19-20), in una parola, che è capace di filosofare, il testo sacro compie un passo in avanti di grande rilievo. Ricuperando il pensiero della filosofia greca, a cui sembra riferirsi, l’Autore afferma che, proprio ragionando sulla natura, si può risalire al Creatore: “Dalla grandezza e bellezza delle creature, per analogia si conosce l’autore” (Sap 13,5). Viene quindi riconosciuto un primo stadio della Rivelazione divina, costituito dal meraviglioso «libro della natura», leggendo il quale, con gli strumenti propri della ragione umana, si può giungere alla conoscenza del Creatore. Se l’uomo con la sua intelligenza non arriva a riconoscere Dio creatore di tutto, ciò non è dovuto tanto alla mancanza di un mezzo adeguato, quanto piuttosto all’impedimento frapposto dalla sua libera volontà e dal suo peccato».[2]
2. Il testo di Romani 1, 19-21
A) Testo e parole chiavi:
18 Ἀποκαλύπτεται γαρ ὀργὴ θεοῦ ἀπ᾽ οὐρανοῦ ἐπὶ πᾶσαν ἀσέβειαν καὶ ἀδικίαν ἀνθρώπων τῶν την ἀλήθειαν ἐν ἀδικίᾳ κατεχόντων, 19 διότι το γνωστον τοῦ θεοῦ φανερόν ἐστιν ἐν αὐτοῖς· ὁ θεος γαρ αὐτοῖς ἐφανέρωσεν. 20 τὰ γαρ ἀόρατα αὐτοῦ ἀπὸ κτίσεως κόσμου τοῖς ποιήμασιν νοούμενα καθορᾶται, ἥ τε ἀΐδιος αὐτοῦ δύναμις και θειότης, εἰς τὸ εἶναι αὐτοὺς ἀναπολογήτους, 21 διότι γνόντες τον θεον οὐχ ὡς θεον ἐδόξασαν ἢ ηὐχαρίστησαν, ἀλλ᾽ ἐματαιώθησαν ἐν τοῖς διαλογισμοῖς αὐτῶν και ἐσκοτίσθη ἡ ἀσύνετος αὐτῶν καρδία. | 18 Difatti l’ira di Dio si è rivelata dal cielo sopra ogni empietà e ingiustizia degli uomini che soffocano la verità nell’ingiustizia. 19 Poiché quello conoscibile di Dio manifesto è in loro; Dio, infatti, l’ha loro manifestato [rivelato]. 20 Infatti, l’invisibile di Dio, dalla creazione del mondo, è contemplato come intelligibile, vale a dire la sua eterna potenza e divinità, in modo che essi sono inescusabili, 21 poiché, avendo conosciuto Dio, non lo glorificarono come Dio né gli resero grazie, ma divennero futili nei loro ragionamenti e si ottenebrò il loro cuore senza intelligenza. |
Sembra che fra i vv. 18 e 21 si sviluppi completamente una idea centrale, dal momento in che si ripete il tema che sembra incorniciare questi versetti (inclusione = ripetizione tematica). In tutte e due versetti, infatti, si parla degli “uomini empi” che soffocano la verità, aggiungendo nel secondo che non hanno glorificato Dio.
Notiamo i termini utilizzati: θεος – con o senza articolo determinato (ὁ)– è il termine greco proprio per designare Dio. Non si usano i tipici termini ebraici che compaiono nella Sapienza, come despótēs (padrone), technítēn (artefice), genesiourgós (autore), dove l’autore non voleva menzionare il nome Dio davanti ai suoi lettori ebrei. San Paolo usa un linguaggio più preciso e più universale: Parla infatti, dell’invisibile di Dio (ἀόρατα αὐτοῦ), che può essere visto (καθορᾶται) e per tanto divenire conosciuto (γνωστὸν).
B) Spiegazione: L’argomentazione si sviluppa a partire del v.19: Lo conoscibile di Dio (τὸ γνωστον τοῦ θεοῦ) è manifesto (φανερόν ἐστιν), cioè: ‘mostrato a loro’. La ragione è perché Dio stesso l’ha manifestato (ἐφανέρωσεν) e non ‘rivelato’ (come nel v.18).[3]
Ciò che viene conosciuto da Dio è quello invisibile (τὰ ἀόρατα αὐτοῦ; v.20), quello non percepito dai sensi. Ergo, non si può riferire alle creature, ma piuttosto a quello che appartiene propriamente alla divinità, i suoi attributi o proprietà invisibili, i quali vengono specificati: il suo eterno potere e la sua divinità (ἥ ἀΐδιος αὐτοῦ δύναμις καὶ θειότης).
Questi attributi vengono contemplati (καθορᾶται), ma intellettualmente. Ad ogni modo, νοούμενα (nooùmena)non è un avverbio come l’era analogōs nella Sapienza, ma un participio passivo. Non esprime dunque solo un modo di conoscenza (‘intellettualmente’) ma perfino una “qualità” nelle cose percepite. Esse sono ‘di per sé’ intelligibili (si dovrebbe letteralmente tradurre: come intelligibili; vale a dire, “in qualità di intelligibili”). Come possono essere intelligibili se sono allo stesso tempo invisibili? La risposta è: nelle sue opere (τοῖς ποιήμασιν), e questo dall’inizio, da sempre: dalla creazione del mondo (ἀπὸ κτίσεως κόσμου).[4]
Se Dio viene contemplato nelle sue opere, sembra allora che sia percepito da tutti. Pur se questo sia vero, non lo è per coloro che “soffocano la verità nell’ingiustizia” (την ἀλήθειαν ἐν ἀδικίᾳ κατεχόντων; v.18). Possono notarsi due cose:
1 – La ragione di questo soffocamento è l’ingiustizia di quelli uomini (ἐν ἀδικίᾳ). Si tratta allora di un soffocamento volontario. Ecco perché si aggiunge: “sono inescusabili” (ἀναπολογήτους).[5]
2 – Questo soffocamento non è assoluto: ‘Soffocare’ non significa annullare, perché non si annulla ciò che appartiene alle condizioni naturali create dell’uomo. Ecco perché si dice: avendo conosciuto Dio (γνόντες τον θεον), conservando essi comunque la capacità e i mezzi per conoscerlo, nonostante “non lo glorificarono né gli resero grazie” (οὐχ ὡς θεον ἐδόξασαν ἢ ηὐχαρίστησαν), divenendo invece “futili nei suoi ragionamenti” (ἐματαιώθησαν ἐν τοῖς διαλογισμοῖς αὐτῶν) e, “ottenebrando la loro intelligenza” (ἐσκοτίσθη ἡ ἀσύνετος αὐτῶν καρδία). L’effetto al quale si fa acceno, è ‘ottenebrare’, ma ciò non significa una cancellazione della loro capacità, sulla quale si afferma che rimane atta per la ‘conoscenza di Dio’ (gnostes ton theon) [contro l’interpretazione luterana].
È da notare che le due ultime azioni segnalate: dare gloria a Dio,e rendergli grazie, sono propriamente azioni religiose, benché siamo nel piano della natura. Il riferimento sembra allora venir fatto alla religione naturale, sulla quale si afferma sia necessaria, e non soltanto alla “conoscenza naturale di Dio”.
E pure interessante notare che per quello che riguarda gli attributi di Dio (quello invisibile), il verbo utilizzato è: “è manifesto” (φανερόν ἐστιν), mentre che per l’azione di “soffocare la verità nell’ingiustizia”, si dica invece che l’ira di Dio si rivela (ἀποκαλύπτεται) [in rapporto anche con il v.17, dove si parla della giustizia di Dio su quelli che lo cercano].[6]
3. Differenza tra i due testi ed altre ricorrenze
Alcuni studiosi hanno pensato che esista una dipendenza tra il testo della Sapienza e quello della lettera ai Romani, per il fatto della loro somiglianza. Possiamo osservare, nonostante, che esistono anche delle differenze che sembrano evidenti. Può darsi che Paolo abbia avuto in mente il testo della Sapienza nel comporre la sua lettera, un testo che sicuramente conosceva, ma il contenuto della lettera presenta delle sfumature diverse.
Nella Sapienza si afferma che sono vani gli uomini che ignorano Dio. L’ignorano perché furono sedotti dalla bontà e bellezza delle creature, quando è proprio questa bontà e bellezza che dovrebbe averli portati alla conoscenza di Dio. Non si menziona la causa di questo comportamento, ma si afferma che sono comunque inescusabili,[7] poiché dovrebbero essere arrivati a quella conoscenza. Si afferma, ad ogni modo, che “è minore il biasimo” per loro, considerando forse la loro debolezza e il loro inganno. L’argomento oscilla tra la conoscenza di Dio e l’idolatria, che verrà considerata dopo nel testo con tutte le sue conseguenze.
In Romani invece, come abbiamo visto, ci sono due dimensioni: La dimensione della conoscenza di Dio e quella della religione naturale, con i suoi propri atti di lode. Riguardo la prima, si dice che questa è possibile, e che può perfino arrivare a conoscere gli attributi di Dio (lo invisibile: τὰ ἀόρατα) e non solo l’esistenza di Dio (un passo in più riguardo la Sapienza). In certi uomini questa capacità è ridotta e si spiega la causa: la ingiustizia volontaria degli uomini. La conoscenza rimane nonostante come possibilità e capacità nell’uomo (avendo conosciuto Dio). Pure la menzione di questa capacità che rimane è un’informazione nuova riguardo a quella del libro della Sapienza.
Sulla seconda (religione naturale), viene detto che certi uomini non hanno dato gloria né reso grazie a Dio; quindi non hanno scusa e meritano l’ira di Dio. Il rifiuto cioè della religione naturale non è indifferente, costituisce in sé un atto moralmente cattivo e punibile. Quando si parla dell’ira, si usa il verbo apokaluptō (usato per la ‘giustizia’ nel v.17), perché appartiene all’ordine soprannaturale l’essere cosciente che il rifiuto della grazia di Dio merita una condanna; per la conoscenza di Dio (naturale) invece, si usa phaneroō, in passivo: si manifesta.
Dice Giovanni Paolo II a proposito del testo dei Romani: «Sviluppando un’argomentazione filosofica con linguaggio popolare, l’Apostolo esprime una profonda verità: attraverso il creato gli “occhi della mente” possono arrivare a conoscere Dio. Egli, infatti, mediante le creature fa intuire alla ragione la sua “potenza” e la sua “divinità” (cfr. Rm 1,20). Alla ragione dell’uomo, quindi, viene riconosciuta una capacità che sembra quasi superare gli stessi suoi limiti naturali: non solo essa non è confinata entro la conoscenza sensoriale, dal momento che può riflettervi sopra criticamente, ma argomentando sui dati dei sensi può anche raggiungere la causa che sta all’origine di ogni realtà sensibile. Con terminologia filosofica potremmo dire che, nell’importante testo paolino, viene affermata la capacità metafisica dell’uomo (…) Nel progetto originario della creazione era prevista la capacità della ragione di oltrepassare agevolmente il dato sensibile per raggiungere l’origine stessa di tutto: il Creatore. A seguito della disobbedienza con la quale l’uomo scelse di porre se stesso in piena e assoluta autonomia rispetto a Chi lo aveva creato, questa facilità di risalita a Dio creatore è venuta meno».[8]
– Altri testi: Ci sono poi altri due testi dove San Paolo parla molto chiaramente della conoscenza naturale di Dio. Il primo a Listra, quando dopo di operare miracoli la moltitudine voleva offrire sacrifici a lui ed a Barnaba (Att 14, 15-17):
Uomini, perché fate queste cose? Anche noi siamo esseri umani come voi, con le vostre debolezze, e vi predichiamo di convertirvi da queste cose vane al Dio vivente, che ha fatto il cielo e la terra, il mare e tutto ciò che in essi si trova. Egli nelle generazioni passate ha tollerato che tutte le genti andassero per le loro strade. Ma non ha lasciato se stesso privo di testimonianza, operando benefici, dandovi dal cielo le piogge e stagioni fruttifere, saziandovi di cibo e riempiendo di letizia i vostri cuori».
Anche in questo testo osserviamo un certo riferimento alla conoscenza naturale di Dio, pur se più vicina nel contenuto al messaggio della rivelazione. L’altro testo è una parte del discorso di Paolo nell’areopago di Atene (Att 17, 22-30), e offre più sostanza:
«Dio che ha fatto il mondo e tutto ciò che in esso si trova. Egli è signore del cielo e della terra e non abita in templi fabbricati dagli uomini, né riceve servizi dalle mani di un uomo, come se avesse bisogno di qualcuno, essendo lui che dà a tutti vita, respiro e ogni cosa.
Egli da un solo ceppo ha fatto discendere tutte le stirpi degli uomini e le ha fatte abitare su tutta la faccia della terra, fissando a ciascuno i tempi stabiliti ed i confini della loro dimora, perché cercassero Dio e come a tastoni si sforzassero di trovarlo, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo e siamo, come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti: “Di lui, infatti, noi siamo anche stirpe”» (vv. 24-28).
4. Interpretazione di San Tommaso di Aquino nel Commento ai Romani
Ci limitiamo ai versetti principali: 1, 19-20:
Quia, quod noscibile est Dei, manifestum est in illis; Deus enim illis manifestavit. Invisibilia enim ipsius a creatura mundi per ea, quae facta sunt, intellecta conspiciuntur, sempiterna eius et virtus et divinitas, ut sint inexcusabiles; | Poiché quello conoscibile di Dio è manifesto in loro; Dio infatti l’ha loro manifestato. Infatti, dalla creazione del mondo l’invisibile di Dio è contemplato nelle sue opere come intelligibili, vale a dire la sua eternità, e la sua potenza e divinità, in modo che essi sono inescusabili, |
Nel suo commento, l’Aquinate afferma che “i sapienti dai Gentili” hanno conosciuto la verità di Dio. Quella conoscenza fu vera conoscenza di Dio, ecco perché il testo dice: “Quello conoscibile di Dio” (quod noscibile est Dei). Questa conoscenza è in loro manifesta tramite una luce intrinseca (“lumen intrinseco”), la luce della ragione. Vediamo come San Tommaso, diversamente della teologia protestante, non considera questa conoscenza una ‘rivelazione’, ma una conoscenza naturale.
Prosegue l’Aquinate affermando che quello che propriamente ‘Dio è’ (quid est Deus), la sua essenza, rimane ignoto per l’uomo in questa vita. La conoscenza dell’uomo si origina comunque da quello che gli è connaturale, le creature sensibili, che non sono “proporzionate a rappresentare la divina essenza”. Ad ogni modo, rimane vero che quello conoscibile di Dio è manifesto – quindi conoscibile – agli uomini. Per questo dirà San Tommaso che l’Apostolo utilizza “invisibilia (ipsius Dei)” al plurale,[9] appunto perché l’essenza di Dio non è conosciuta a noi come propriamente essa è, giacché essa è Una in sé stessa.
L’uomo può conoscere Dio a partire delle creature in tre modi – come dirà Dionigi in De divinis nominibus:
1 – Per ‘via di causalità’ (per causalitatem), per la quale, essendo le creature defettibili e mutevoli, è necessario che vengano ridotte ad un principio immobile e perfetto;
2 – Per ‘via di eminenza’ (viam excellentiae): Il primo principio al quale tutto si riduce non sarà conosciuto come una causa propria ed univoca ma come causa comune ed eminente.
3- Per ‘via di negazione’ (viam negationis): Come la causa prima è eminente, nulla di ciò che è nelle creature (nel modo limitato in che si dà nelle creature) può competerle propriamente. “E in questo modo diciamo che Dio è infinito o immutabile, ecc.”
Quello che è possibile conoscere di Dio si rapporta con i tre modi di conoscenza esposti: 1 – Invisibilia Dei (l’invisibile di Dio) viene conosciuto per via di negazione; 2 – Il suo eterno potere (sempiterna virtus) per la via di causalità; 3 – infine, la divinità (divinitas), per via di eminenza.
5. Interpretazione della lettera ai Romani nella teologia protestante
La così chiamata ‘teologia protestante’ ha avuto una visione molto diversa sulla conoscenza di Dio e sull’interpretazione dei testi biblici che ne parlano, specialmente quello della lettera ai Romani. Uno dei principali esponenti di essa è stato Karl Barth.
Senza poter riuscire a fare un’esposizione dettagliata del suo pensiero teologico, e solo come abbozzo generale, ci sembra che il suo punto di partenza sia specificamente la concezione di religione naturale, che in tanti teologi protestanti, e in Barth in particolare, è certamente diversa da quella dei teologi cattolici classici (sembra che la differenza obbedisca a una pre-concezione epistemologica).
Barth definisce teologia naturale come “ogni (positiva o negativa) formulazione di un sistema che ha pretese di essere teologico («claims to be theological»), che interpreta [una certa] divina rivelazione, il cui oggetto deferisce fondamentalmente della rivelazione di Cristo e il suo metodo della esposizione delle Sacre Scritture”.[10] Nel capire la teologia naturale così come ‘ogni sistema che abbia pretese di essere teologico’, di voler avere contatto con la divinità, e di poter interpretare una ‘certa rivelazione’ da essa ricevuta, concede patente di religione naturale a ogni sistema religioso, pur se pagano o idolatrico.
In questo modo interpreta il testo di Rom 1, 19-23, dove si parla degli uomini che hanno vanamente cercato Dio nelle tenebre. Secondo lui, nel testo si afferma che questa ricerca vana deve venire ‘negata’ per poter poi avvicinarsi alla vera fede. Solo che quello che viene negato, insieme all’idolatria, è propriamente la ‘teologia naturale’: «Il culto idolatrico dell’umanità di se stessa (insieme all’idea che gli esseri umani hanno una capacità naturale per la divinità) deve essere negato prima di poter arrivare a una vera conoscenza di Dio mediante la fede. Il rifiuto quindi dell’idolatria è il presupposto della rivelazione».[11] Barth pensa che non ci sia nessun accenno nel testo che parli di ogni capacità umana di salire la scala del ragionamento logico verso Dio e costruire un sistema di teologia naturale. Rigetta così ogni tentativo di teologia naturale, per i cristiani nonché per i non cristiani, e perfino rigetta di parlare di somiglianza formale o di analogia entis.[12] Afferma per il contrario: «Sappiamo che Dio è colui che non conosciamo, e che la nostra ignoranza è proprio il problema e la fonte della nostra conoscenza».[13]
Una parte di questa concezione è entrata pure in campo cattolico. Come osserva acutamente un autore: «A partire dalla cosiddetta svolta antropologica della teologia, l’esperienza trascendentale, mediante la quale abbiamo acceso all’illimitato, viene ritenuta come la via privilegiata (quando non l’unica) per raggiungere Dio, trovandosi l’uomo impegnato in essa da sempre, sebbene spesso inconsapevolmente».[14] L’ “esperienza trascendentale” è propriamente l’aspetto trascendentale di ogni esperienza particolare. In ognuna di quelle esperienze, ci troveremo davanti al mistero divino e alla presenza salutare di Dio, benché l’uomo non ne sia cosciente (“non ne rifletta in modo categoriale”). «Le rivelazione trascendentale assume poi delle forme storiche per rendere possibile la realizzazione di una storia della rivelazione e della salvezza». Viene confuso l’ordine naturale con il soprannaturale e negato il carattere unico di quest’ultimo.
In questo modo viene interpretato il pensiero dell’Apostolo – e quello di San Tommaso –[15], dimenticando la forza che l’Apostolo dona al tōn gnostōn theou (“lo conoscibile di Dio”) in Romani, e dimenticando anche tutti gli altri testi, in particolare quello della Sapienza. Riguardo a Tommaso, deve restare ben chiaro che la via della causalità precede a quella della negazione (che cerca soltanto di negare l’uguaglianza degli attributi tra Dio e le creature), che poi verrà incoronata dalla via dell’eminenza.
La conoscenza naturale di Dio è
solidale con la Rivelazione e non è sua avversaria. La rende più ragionevole e
passibile di essere capita e difesa meglio, inoltre a essere di grande aiuto e
consolazione per i fedeli. Che il Signore ci conservi sempre in quella lealtà e
fedeltà all’opera da Lui stesso creata.
[1] Dopo di una descrizione più dettagliata dal processo della idolatria (13,10 – 14,7). Ad esempio, Sap 14,8: Principio della fornicazione fu l’invenzione degli idoli e la loro scoperta, corruzione della vita.
[2] P.P. San Giovanni Paolo II, Enciclica Fides et Ratio (14/8/1998), 19.
[3] Molti traducono: l’ha rivelato, ma non è giusto, dal momento che il verbo usato è φανερoω, come nell’inizio del versetto. Faremo nel possibile qualche accenno al rapporto tra apokaliptoo (rivelare), e phaneroo (manifestare).
[4] Rafforza l’opinione di coloro che dicono che l’espressione “ἀπὸ κτίσεως κόσμου” deve prendersi non in senso oggettivo, come dicendo: dalle creature del mondo, perché altrimenti saremo in presenza di una tautologia, se messo insieme a nelle sue opere, ma nominando piuttosto l’atto creativo di Dio (così Lagrange, Zorrell, Ricciotti, Ceuppens, etc.).
[5] Si esprime come conseguenza: di modo che sono inescusabili (εἰς τὸ εἶναι αὐτοὺς …)
[6] Fondamenta la distinzione tra i due verbi: J. A. Fitzmyer, Romans: A New Translation with Introduction and Commentary (AB 33; New York: Doubleday, 1992) 273, 279-280, contro l’uso sinonimico postulato da R. Bultmann e D. Lührmann.
[7] Anche qua si usa un termine diverso in ambedue casi: οὐ συγγνωστοί (Sap 13,8) e ἀναπολογήτους (Rom 1,20).
[8] P.P. San Giovanni Paolo II, Enciclica Fides et Ratio (14/8/1998), 22.
[9] Traduce il: «ἀόρατα αὐτοῦ».
[10] Karl Barth, No! Answer to Emil Brunner, in Karl Barth: Theologian of Freedom [ed. Clifford Green; Minneapolis:
Fortress, 1991] 154; citato da Young, R.A., The Knowledge of God in Romans 1:18–23: Exegetical And Theological Reflections, JETS 43/4 (2000), 695, nota 2.
[11] Young, The Knowledge, 705.
[12] Barth argues that allowing a formal likeness or analogia entis opens the door to natural theology and accommodational one of nineteenth-century liberalism (Church Dogmatics II/1, 125–126).
[13] Barth K., The Epistle to the Romans (London: Oxford University Press, 1968) 45.
[14] Sanchez Cañizares J. – Tanzella-Nitti, La rivelazione di dio nel creato nella teologia della rivelazione del XX sec, «Annales theologici» 20 (2006) 289-335. Citando in nota 93 a Rahner, K., Uditori della parola, Borla, Torino 1967, 89; Corso fondamentale sulla fede, Paoline, Roma 1977, 101.
[15] Come Rogers, E. F. Jr., Thomas Aquinas and Karl Barth: Sacred Doctrine and the Natural Knowledge of God (Notre Dame: University of Notre Dame Press, 1995) 128–129.
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