Significato della Quaresima (secondo Benedetto XVI )
La Quaresima ci ricorda, pertanto, che l’esistenza cristiana è un combattimento senza sosta
La Quaresima ci ricorda, pertanto, che l’esistenza cristiana è un combattimento senza sosta, nel quale vanno utilizzate le “armi” della preghiera, del digiuno e della penitenza. Lottare contro il male, contro ogni forma di egoismo e di odio, e morire a se stessi per vivere in Dio è l’itinerario ascetico che ogni discepolo di Gesù è chiamato a percorrere con umiltà e pazienza, con generosità e perseveranza. La docile sequela del divino Maestro rende i cristiani testimoni e apostoli di pace. Potremmo dire che questo interiore atteggiamento ci aiuta a meglio evidenziare anche quale debba essere la risposta cristiana alla violenza che minaccia la pace nel mondo. Non certo la vendetta, non l’odio e nemmeno la fuga in un falso spiritualismo.
La risposta di chi segue Cristo è piuttosto quella di percorrere la strada scelta da Colui che, davanti ai mali del suo tempo e di tutti i tempi, ha abbracciato decisamente la Croce, seguendo il sentiero più lungo ma efficace dell’amore. Sulle sue orme e uniti a Lui, dobbiamo tutti impegnarci nell’opporci al male con il bene, alla menzogna con la verità, all’odio con l’amore. Nell’Enciclica Deus caritas est ho voluto presentare questo amore come il segreto della nostra conversione personale ed ecclesiale. Richiamandomi alle parole di Paolo ai Corinzi: “L’amore del Cristo ci spinge” (2 Cor 5,14), ho sottolineato come “la consapevolezza che in Lui Dio stesso si è donato per noi fino alla morte deve indurci a non vivere più per noi stessi, ma per Lui, e con Lui per gli altri” (n. 33).
L’amore, come ribadisce Gesù quest’oggi nel Vangelo, deve poi tradursi in gesti concreti verso il prossimo, specialmente verso i poveri e i bisognosi, sempre subordinando il valore delle “buone opere” alla sincerità del rapporto con il “Padre che è nei cieli”, che “vede nel segreto” e “ricompenserà” quanti fanno il bene in modo umile e disinteressato (cfr. Mt 6, 1.4.6.18). La concretezza dell’amore costituisce uno degli elementi essenziali della vita dei cristiani, che sono incoraggiati da Gesù ad essere luce del mondo, affinché gli uomini, vedendo le loro “opere buone”, rendano gloria a Dio (cfr. Mt 5,16).
Le opere quaresimali
Penitenza, digiuno, opere di misericordia
I. La penitenza…. “La virtù è «un abito elettivo conforme alla retta ragione». Ora, spetta alla retta ragione far sì che uno si addolori di ciò di cui si deve dolere. Ed è appunto ciò che si riscontra nella penitenza di cui parliamo: infatti il penitente concepisce un dolore ragionevole dei peccati commessi, con l’intenzione di rimuoverli. Perciò è evidente che la penitenza di cui parliamo o è una virtù, oppure è un atto di virtù” (STh 3, 85, 1) “Addolorarsi del passato con l’intenzione di voler far sì che non sia avvenuto sarebbe certamente una stoltezza. Ma il penitente non mira a questo, poiché il suo dolore è il dispiacere del passato con l’intenzione di eliminarne le conseguenze, cioè l’offesa di Dio e il debito della pena. E questa non è una stoltezza” (STh 3, 85, 1, ad 3).
II. Il digiuno… “il digiuno viene praticato principalmente per tre cose.
– Primo, per reprimere le concupiscenze della carne. Per cui l’Apostolo [2Cor 6, 5-6] scrive: «nei digiuni, nella castità»; poiché con il digiuno si conserva la castità. Infatti S. Girolamo [Contra Iovin. 2] scrive che «senza Cerere e Bacco, Venere si raffredda»: cioè con l’astinenza nel mangiare e nel bere la lussuria si smorza.
– Secondo, perché l’anima si elevi a contemplare le realtà più sublimi. Infatti di Daniele [10, 3 ss.] si legge che ricevette rivelazioni da Dio dopo tre settimane di digiuno.
– Terzo, in riparazione dei peccati. Da cui le parole della Scrittura [Gal 2, 12]: «Ritornate a me con tutto il cuore, con digiuni, con pianti e lamenti». Ed è quanto dice anche S. Agostino [Serm. supp. 73]: «Il digiuno purifica l’anima, eleva la mente, sottomette la carne allo spirito, rende il cuore contrito e umiliato, dissipa le nebbie della concupiscenza, smorza gli ardori della libidine e accende la luce della castità». È quindi evidente che il digiuno è un atto di virtù” (STh 2-2, 147, 1).
III. Le opere di misericordia
Elemosina:
“Gli atti esterni vanno riferiti a quella virtù a cui appartiene il movente che spinge a compiere tali atti. Ora, il movente che spinge a fare l’elemosina è l’intenzione di soccorrere chi è in necessità: infatti alcuni [Alb. Magno, In 4 Sent. 15, 15], nel definire l’elemosina, affermano che essa è «un’azione con la quale si dà per compassione qualcosa a un indigente, per amore di Dio». Ora, questo movente appartiene alla misericordia, come si è visto [q. 30, a. 4]. Per cui è evidente che fare l’elemosina è propriamente un atto di misericordia. E ciò risulta anche dal termine stesso: infatti in greco esso deriva da misericordia, come il latino miseratio. E poiché la misericordia, come si è visto [ib., a. 2; a. 3, ob. 3], è un effetto della carità, ne segue che fare l’elemosina è un atto di carità dettato dalla misericordia” (STh 2-2, 32,1).
Spirituale e materiale:
“La ricordata enumerazione dei vari tipi di elemosina è desunta correttamente dai vari difetti del nostro prossimo. Difetti che in parte interessano l’anima, e ad essi sono ordinate le elemosine spirituali, e in parte interessano il corpo, e ad essi sono ordinate le elemosine corporali.
I. Infatti le miserie corporali capitano o durante la vita, o dopo di essa. Se durante la vita, o consistono nella mancanza di cose di cui tutti hanno bisogno, oppure consistono in eventuali bisogni particolari.
a) Nel primo caso il bisogno è o interno o esterno. I bisogni interni sono due:
– uno che viene soddisfatto col cibo solido, cioè la fame, e ad esso si riferisce il dar da mangiare agli affamati;
– il secondo invece viene soddisfatto col cibo umido, cioè la sete, e ad esso si riferisce il dar da bere agli assetati.
I bisogni comuni esterni sono ancora due:
– uno riguarda il vestito, e ad esso si riferisce il vestire gli ignudi;
– l’altro riguarda l’alloggio, e ad esso si riferisce l’alloggiare i pellegrini.
b) Parimenti i bisogni speciali o dipendono da una causa intrinseca, come la malattia,
– e qui abbiamo il visitare gli infermi,
– oppure da una causa estrinseca, e ad esso si riferisce il riscattare i prigionieri.
Dopo la vita poi ai morti si dà la sepoltura.
II. Analogamente, ai bisogni spirituali si soccorre con atti spirituali in due modi.
– Primo, chiedendo l’aiuto di Dio: e per questo abbiamo la preghiera, con la quale si prega per gli altri.
– Secondo, offrendo l’aiuto fraterno: e ciò in tre modi. Primo, contro le deficienze dell’intelletto: contro quelle dell’intelletto speculativo offrendo il rimedio dell’insegnamento; contro quelle dell’intelletto pratico offrendo il rimedio del consiglio.
– Secondo, abbiamo le deficienze dovute alle passioni delle potenze appetitive, la più grave delle quali è l’afflizione o tristezza: e ad essa si rimedia con la consolazione.
– Terzo, ci sono le deficienze dovute al disordine di certi atti: e queste possono essere considerate sotto tre aspetti. In primo luogo dal lato di chi pecca, cioè in quanto dipendono dal suo volere disordinato: e allora abbiamo un rimedio nella correzione. In secondo luogo dal lato di chi subisce la colpa: e allora, se gli offesi siamo noi, possiamo rimediare perdonando l’offesa; se invece gli offesi sono Dio e il prossimo, allora «non dipende da noi perdonare», come dice S. Girolamo [In Mt 3, su 18, 15]. In terzo luogo ci sono le conseguenze dell’atto disordinato che gravano su quelli che convivono col peccatore, anche contro la sua volontà: e ad esse si rimedia sopportando, specialmente nei riguardi di coloro che peccano per fragilità, secondo le parole di S. Paolo [Rm 15, 1]: «Noi che siamo i forti abbiamo il dovere di sopportare le infermità dei deboli». E ciò va fatto sopportando non solo gli atti disordinati dei deboli, ma anche qualsiasi altro loro peso, secondo l’espressione dell’Apostolo [Gal 6, 2]: «Portate i pesi gli uni degli altri». (STh 2-2, 32, 2).