LA SIMILITUDO: PARTECIPAZIONE SOPRANNATURALE AL ENS-ESSE DIVINO

LA SIMILITUDO: PARTECIPAZIONE SOPRANNATURALE AL ENS-ESSE DIVINO

Presentato nelle giornate tomistiche di marzo 2022 al seminario San Vitaliano (Cardinale Barbarigo), dell’Istituto del Verbo Incarnato / Montefiascone (VT) / Italia.

L’argomento è di natura filosofica – teologica, ma con fondamento biblico, che tratta sulla somiglianza dell’uomo con Dio per la grazia. Rimandiamo, per approfondimento, anche a un articolo precedente nostro, sul tema dell’uomo come immagine di Dio, in questo stesso blog: qui.

            I temi di queste giornate hanno girato intorno all’argomento del ritorno all’Ens – Esse come fondamento di tutto il reale. Essendo Dio il fondamento ultimo di tutto il creato perché causa suprema di esso, essendo la somma di tutte le perfezioni e l’Essere per essenza, ci è sembrato giusto affrontare un argomento che vincola di modo speciale il creato – e in particolare il culmine del creato che è la creatura razionale – con questo Essere supremo. Il vincolo che stiamo cercando è al livello dell’ens-esse (ente e atto di essere), ma con l’Essere supremo. L’uomo ha una essenza che è propria e partecipa il suo essere naturale da Dio, che ne è la causa. Ma qua vorremmo vincolare l’uomo con l’argomento dell’esse divino. In quale modo si può dire che l’uomo partecipa di quell’essere divino al modo proprio nel quale Dio lo possiede?

Creazione di Adamo – mosaici della Basilica di Monreale (Sicilia)

Essendo l’uomo l’unica creatura dell’universo materiale che è «capax Dei» era logico che Dio l’invitasse a una speciale comunione di vita con Lui. San Paolo parlava agli ateniesi affermando che Lui (Dio) “non è lontano da noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo e siamo, come hanno detto anche alcuni dei vostri poeti: “Di lui, infatti, noi siamo anche stirpe”” (Atti 17, 27-28). San Tommaso di Aquino afferma tassativamente che questa comunione fra la natura umana e la natura divina è non solo possibile ma si realizza di fatto per una certa ‘ricreazione’: “l’uomo, come partecipa la conoscenza divina con la virtù della fede mediante la facoltà dell’intelletto, e l’amore divino con la virtù della carità mediante la facoltà volitiva; così partecipa la natura divina, secondo una certa somiglianza, con una nuova generazione o creazione (regenerationem sive recreationem), e mediante la natura dell’anima” (S. Th. I-II, 110, a. 4c).[1]

  1. La «similitudo» (somiglianza) nell’uomo

Troviamo il termine per la prima volta nel racconto della creazione nella Genesi, dove si parla della creazione dell’uomo e come applicato all’uomo: Faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram (“Facciamo l’uomo a immagine e somiglianza nostra” [Gen 1,26]). L’ebraico impiega il termine demût tradotto nella Volgata come similitudo, dalla radice dâm (sangue), significando senz’altro la somiglianza fisica, che viene dal sangue. Il termine greco, nella versione della LXX, è invece ὁμοίωσιν, il che non sembra indicare un esclusivo riferimento alla somiglianza fisica.

Il termine somiglianza, e la sua relazione con l’altro di immagine, si chiarisce, di un punto di vista biblico, molto di più nel confronto fra Gen 1,26 (creazione di Adamo) e Gen 5,3 (nascita di Set, figlio di Adamo). In 5,3 viene detto, infatti, che Adam generò Set a centotrenta anni.

– 1,26: Facciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram…

– 5,3: genuit (Adam) ad similitudinem et imaginem suam…         

Se cerchiamo di tradurlo letteralmente dall’ebraico, abbiamo:

– 1,26: Facciamo l’uomo a (nella) nostra immagine e come nostra somiglianza

– 5,3: E (Adam) generò nella sua somiglianza e come la sua immagine, e lo chiamò (Set).[2]

Osserviamo che l’ordine dei termini si inverte tra il primo caso e il secondo:

1 – Come abbiamo detto, la radice ebraica per somiglianza (demût) è «dâm» = “sangue”. La somiglianza, biblicamente, viene dalla procreazione. Nella discendenza genetica (tra Adamo e Set, il secondo versetto), la somiglianza prende la precedenza sull’immagine, dal momento che quest’ultima implica solo una rappresentanza, un segno, mentre che la somiglianza implica la stessa natura. Invece nel rapporto Dio – uomo di Gen 1,26, la precedenza è del segno o immagine (tsélem), non esistendo un’identificazione nella natura.

2 – In 5,3 la somiglianza tra Adamo e Set è data dal sangue e viene menzionata prima di altro tipo di rapporto. Abbiamo detto che in 1,26 non ha la precedenza, ma nonostante viene menzionata. Questo vuol dire che esiste allora una somiglianza analoga, comparativa, in quanto che Dio ha voluto far partecipe all’uomo dal suo lignaggio: “Di lui, infatti, noi siamo anche stirpe” (Atti 17,28). Cerchiamo di approfondire nella natura di questo rapporto.

  1. L’utilizzo di «similitudo» come partecipazione nella natura divina

            Il primo tentativo di descrivere le implicazioni della partecipazione nella natura divina è presentato da San Tommaso alla luce della categoria di ‘similitudo’: “Nondimeno il nome Dio è comunicabile, se non secondo tutta l’estensione del suo significato, almeno in parte, per un certo (accostamento o) somiglianza (similitudo): talché si potranno chiamare «dei» coloro che partecipano un qualche cosa di divino a modo di somiglianza, secondo le parole dei Salmi: “Io ho detto: Voi siete dei” [Sal 81,6]”.[3]

Più avanti, nel commento al vangelo di San Giovanni, l’Angelico sosterrà che la grazia consiste propriamente in una somiglianza con la divina essenza: “Con quest’ordine essi raggiungeranno questa unità, poiché vedranno che io (Gesù) sono in essi con la grazia come in un tempio (vedi 1 Cor 3,16: «Non sapete che siete il tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?»), grazia che è come una somiglianza della tua essenza, con la quale tu sei in me mediante l’unità di natura (Gv 14,10: «lo sono nel Padre e il Padre è in me»)”.[4]

Abbiamo già citato il testo di S. Th, I-II, 110, a.4c, dove se ne parla di una similitudo come partecipazione della natura divina a partire di una certa rigenerazione. En in altri testi afferma che la similitudo implica anche la partecipazione alla figliolanza divina, partecipando, come figli, della figliolanza di Colui che è Figlio per natura.[5]

  1. La similitudo trascendentale della creatura con Dio

San Tommaso afferma due modi fondamentali di similitudo – categoria di per sé molto ampia nel suo pensiero -: Una partecipazione predicamentale, che è anche univoca, e una partecipazione trascendentale che è analoga.[6]

1) La prima (predicamentale) è quella dove tutti partecipano della stessa e identica forma sostanziale, come le specie partecipano del genere (‘animale razionale’ partecipa del genere animale), e gli individui partecipano della propria specie (diversi uomini della specie uomo).

2) La seconda (trascendentale) consiste nella partecipazione di una formalità o perfezione che sussiste in sé, fuori dai partecipanti. Così, tutte le creature sono buone perché partecipano della Somma Bontà; tutti sono perché partecipano della perfezione dell’atto di essere.

La prima non è applicabile alla relazione Creatore-creatura in nessuno dei livelli e meno ancora alla somiglianza della grazia, perché nessuna specie creata può considerarsi divina in quanto appartenente allo stesso genere o specie, e anche perché tutte le perfezioni stanno in Dio con assoluta unità e semplicità, mentre che nelle creature si troveranno limitate e separate. La seconda è invece adatta per spiegare il fondamento di appartenenza o derivazione da parte delle creature da Dio, sia già nel livello della creazione o della ricreazione (grazia), e questo si fondamenta nel fatto che Dio è l’ente per essenza (ens per essentiam) mentre che le creature lo sono per partecipazione.

Questa seconda partecipazione ammette un’ulteriore suddivisione, secondo l’Aquinate, in quanto possiamo considerarla secondo il principio di esemplarità divina, in quanto che in Dio esistono le idee esemplari di tutto il creato con l’essere divino, mentre che nelle creature esistono con l’essere proprio (l’essenza di uomo sussiste in Dio come idea, con l’essere divino, ma in ogni uomo di modo individuale). Ma questa similitudine deriva anche di un’altra, fondata nella presenza per essenza della natura divina in tutta la realtà creata come partecipazione dell’essere, trascendentali e perfezioni pure, che danno identità e entità ad ogni cosa (l’uomo è buono perché prende parte della bontà divina, ha un essere perché Dio gli fa partecipare del suo essere).[7] Esiste allora una doppia similitudo trascendentale: una formale per imitazione della forma divina e un’altra reale per la presenza per essenza come quello che fondamenta la causalità divina nella creatura (At 17,28: “In lui infatti viviamo, ci muoviamo e siamo”).

A quale similitudo trascendentale si riferisce San Tommaso quando descrive la grazia come similitudo divinitatis partecipata in homine? Senza escludere quella più estrinseca, Mons. Sanchez Sorondo pensa che si riferisca soprattutto a quella verticale che si origina nella auto trascendenza della natura divina, di carattere emergente, che possedendo l’esse per essentiam (come esse intensivo) è costituita in perfezione separata rispetto di ogni partecipazione di sé stessa, naturale e soprannaturale (la grazia in quest’ultimo caso).[8] In parole semplici, l’uomo possiede la grazia non soltanto né principalmente come una formalità che in Dio si dà in grado massimo e infinito, ma perché è causata in lui per partecipazione non solo dalla grazia di Dio ma dal proprio Essere divino.

Questo tipo di partecipazione e somiglianza può chiamarsi intrinseca, perché sebbene Dio considerato in se stesso è estrinseco a ogni creatura e a ogni azione esterna, rispetto della creatura Dio è intrinseco a ogni effetto, naturale e soprannaturale. E come il punto di incontro delle creature con Dio sono l’atto di essere e le perfezioni pure (essere, vivere, intelligere, volere, amare), risulta che la similitudo della creatura con il creatore può essere chiamata intrinseca, sia che parliamo dell’essere naturale o della grazia: “Così, per conseguenza, ogni cosa si dice buona dalla bontà divina, come da prima causa esemplare, efficiente e finale di ogni bontà. Tuttavia ogni cosa si dice buona per una somiglianza sua propria della divina bontà ad essa inerente, che è formalmente la sua bontà, e dalla quale si denomina. E così abbiamo una bontà sola di tutte le cose, e anche molte bontà”.[9]

  1. La gratia come similitudo partecipata della natura divina           

San Tommaso di Aquino

San Tommaso considera un solo bene della grazia come maggiore e superiore al bene naturale di tutto l’universo.[10] Ci sarà perciò una certa scala in questa somiglianza o similitudo: “quanto più la creatura è perfetta, tanto più si avvicina alla somiglianza di Dio (…) Quindi, sebbene ogni creatura abbia una certa somiglianza con Dio in quanto buona [vestigia], la creatura razionale aggiunge un altro motivo di somiglianza in quanto intellettuale (…) E così nell’atto di Carità Dio si percepisce più chiaramente come in una similitudine prossima”.[11]

L’Aquinate è anche molto chiaro quando sottolinea che nessuna creatura può essere causa principale della grazia: “Nessuna cosa può agire oltre i limiti della sua specie; poiché la causa deve essere sempre superiore ai suoi effetti. Ora, il dono della grazia sorpassa tutte le capacità della natura creata, non essendo altro che una partecipazione della natura divina, la quale trascende ogni altra natura. Perciò va escluso che una natura creata possa causare la grazia. Quindi, come il fuoco soltanto può far sì che una cosa s’infuochi, così è necessario che Dio solo deifichi, ammettendoci nel consorzio (consortium) della natura divina con la partecipazione di una sua immagine (similitudinis partecipationem)”.[12] L’Angelico insisterà nel far notare che la somiglianza della grazia è più nobile che la somiglianza naturale di qualsiasi anima razionale con Dio[13], arrivando ancora a dire che la somiglianza della grazia  – secundum quid – è ancora più espressa somiglianza che la somiglianza naturale dell’anima umana di Cristo, essendo quest’ultima l’immagine più perfetta di quelle create.[14]

Concludendo, la grazia, in quanto “somiglianza partecipata della natura divina”[15] è una somiglianza intrinseca più perfetta che quella dell’immagine, pur se questa è anche una somiglianza intensiva (intensiva similitudo). Si tratta di una comunicazione formale della natura divina nella partecipazione già formale dell’immagine. Somiglianza espressissima della natura divina nella somiglianza espressa; una comunicazione della nuova natura – natura divina -, con la natura umana che eleva questa «in esse et operari» e la conforma a Cristo e l’introduce nella vita ad intra della società trinitaria. Ovviamente, non è la grazia una nuova sostanza dell’anima, perché l’anima umana è una sola per ogni individuo e perché la grazia sta al di sopra dell’umana natura; è piuttosto una forma accidentale della stessa anima.[16]

San Tommaso aggiunge che per la grazia si manifesta un ulteriore effetto, che è la stessa deificazione dell’anima, una partecipazione formale, propria e intrinseca della stessa natura divina.[17] È una partecipazione formale della divinità in quanto tale, ossia dello stesso nome divino in quanto imposto per significare la natura divina, una partecipazione della natura divina nella sua essenza tale come è vissuta nel seno della Trinità: “[Cristo] ha amati [i suoi discepoli, non perché diventassero dei per natura] ma in una maniera consimile, cioè perché diventassero ‘dèi’ mediante la partecipazione della grazia (vedi Sal 81,6: Io ho detto: Voi siete dèi; 2 Pt 1,4: Per mezzo di lui ci ha donato i beni grandissimi e preziosi che erano stati promessi, perché diventassimo partecipi della natura divina)”.[18] La grazia comunica partecipativamente all’uomo l’essere, la vita, il pensare, l’amare intratrinitario nel consorzio con le tre Divine Persone e l’unisce al Verbo Eterno con un’unità somigliante all’unità di natura con la quale il Padre è unito al Figlio nello Spirito Santo.[19]

  1. La divina presenza nell’anima

            L’Angelico Dottore stabilisce in modo magistrale la progressione della divina presenza nell’anima:

a) “Primo, come causa efficiente: e in tal modo è in tutte le cose da lui create.

b) Secondo, come l’oggetto d’operazione si trova nell’operante: e questo propriamente avviene nelle operazioni dell’anima, come l’oggetto conosciuto è nel conoscente e quello desiderato nel desiderante. Perciò, in questa seconda maniera Dio si trova particolarmente nella creatura ragionevole, che lo conosce e lo ama attualmente per una disposizione abituale. E siccome la creatura ragionevole deve questo alla grazia, come si vedrà più innanzi, si dice che Dio, in tal modo è nei santi per grazia”.[20]

Più avanti chiarisce meglio quale sono i veri effetti di questa nuova presenza e fin dove riesce l’anima le Persone divine: “Una persona divina si dice di qualcuno o perché deriva da lui, come il Figlio è dal Padre; o perché ne è posseduta. E diciamo di possedere quello di cui possiamo liberamente far uso o godere. E in questo modo una Persona divina non può essere posseduta che da una creatura ragionevole unita a Dio. Le altre creature possono subire la mozione di una Persona divina, non però fino ad essere in grado di godere di essa e di operare sotto il suo impulso. A questo talora arriva la creatura ragionevole, p. es., quando è fatta partecipe del Verbo divino e dell’Amore procedente, fino a poter liberamente conoscere con verità Dio e rettamente amarlo. Perciò solo la creatura ragionevole può possedere una Persona divina. Ma per averla in questo modo non le bastano le sole sue forze: onde è necessario che le sia dato dall’alto; giacché si dice che ci è dato ciò che abbiamo da altri. Perciò dovrà appartenere a una Persona divina di essere data e di essere Dono”.[21] Questo è il dono chiamato dallo Spirito Santo.

Quindi, se per la similitudo imaginis (“similitudine dell’immagine”) solo Dio entra nella mente (“solus Deus illabitur menti”; Quodlib. III, q. 3, a.7), per la similitudo gratiae (“somiglianza della grazia”) noi possediamo come frutto imperfetto le Persone Divine.[22] Un altro testo lo chiarisce meglio: “La persona divina, però, non si può avere da noi se non per il frutto perfetto, e così la si ottiene mediante il dono della grazia santificante; o piuttosto proprio come ciò per cui siamo uniti al godibile (al fruibile), in quanto le stesse persone divine lasciano nelle nostre anime certi doni con cui godiamo di un loro proprio sigillo formale, cioè l’amore e la sapienza; per questo motivo si dice che lo Spirito Santo sia il pegno della nostra eredità”.[23]

San Tommaso aggiunge infine un altro effetto, affermando che la grazia, in quanto partecipazione della natura divina, non soltanto realizza che le Persone Divine siano presenti in noi, ma realizzano anche una assumptio (‘assunzione’) tramite la quale diventano consorti della natura divina assimilandoci alla sua Bontà. Questa assunzione è somigliante (ma solo somigliante) a quella che si compie con la singola natura umana di Nostro Signore in quanto al principio – che è anche l’intera Trinità – ma non in quanto al termine; mentre in Cristo la assunzione termina nell’unione ipostatica con la stessa natura divina, per essenza, nella Persona del Figlio, in noi termina nella partecipazione della natura divina che sempre comporta l’incorporazione dell’intera Trinità nell’anima del giusto. Il rapporto con l’unione ipostatica è soltanto comparativo; resta chiaro che si tratta di due realtà diverse.[24]

Con questa partecipazione della stessa Trinità, tramite la grazia, si realizza pure una sorte di attribuzione degli effetti causati dalle Divine Persone nell’anima del giusto: Si attribuisce al Figlio la partecipazione nella sua propria «Filiazione per essenza», allo stesso tempo che la comunicazione del dono di Sapienza; allo Spirito Santo, la partecipazione della «Carità per essenza»; al Padre, l’origine fontale della ricreazione. Così, le Divine Persone, per un certo sigillo nelle nostre anime che le è proprio, ci dicono di essere un pegno e un anticipo di quel perfetto possesso del dono della gloria nella patria celeste.[25] La grazia come partecipata similitudo naturae divinae implica una rigenerazione ‘in esse et operari’ da dove deriva la Carità come partecipazione dell’infinita Carità per essenza che è lo Spirito Santo.[26]

  1. Conclusione

            Per la partecipata similitudo naturae divinae¸ la presenza di Dio esistente già nell’immagine si divinizza e si fa trinitaria, o meglio avviene su questa presenza (dell’immagine) una presenza nuova, una presenza formalmente divina e trinitaria. Per la somiglianza della ricreazione (“grazia”), diversamente della somiglianza della creazione (“immagine”), partecipiamo non soltanto dell’essere, i trascendentali e le perfezioni divine assolute, ma anche, e nel limite, della stessa natura divina per essenza di modo formale. Dio ci comunica nella sua essenza (formaliter), benché per partecipazione, della sua stessa natura e del modo divino interiore di vivere, pensare e amare della sua natura.

La grazia – dice l’Aquinate – è come fuoco -;[27] il fuoco è simultaneamente luce, calore ed energia operativa. La grazia, nella Scrittura, è quasi lux quaedam designatur.[28] E dirà che non è luce per essenza ma per partecipazione.[29] Per la grazia, non solo se partecipa della luce che riflessa la perfezione assoluta della Verità divina, ma anche della luce che deriva immediatamente della Luce per essenza tale come è, si realizza, vive, è pensata e voluta nel seno della natura divina e nel consorzio delle Divine Persone. La partecipazione soprannaturale della Luce divina è doppia; una perfetta che è nella gloria; un’altra imperfetta che si ha per Fede. La partecipazione imperfetta della luce divina è la Fede; ma a sua volta la Fede deriva e si ordina al ipsum lumen gratiae. Si tratta, dunque, della Luce divina per essenza nella luce divina per partecipazione: dell’appartenenza fondante della Luce Divina per essenza nella creatura.[30]

[Si attestano tutte le citazioni di rigore occorrenti, con le sue rispettive fonti]

R. P. Carlos D. Pereira, IVE

[1] También I, 93, a.2, ad3: «Sed intensive et collective similitudo divinae perfectionis magis invenitur in intellectuali creatura, quae est capax summi boni».

[2] 1,26: בְּצַלְמֵנוּ כִּדְמוּתֵנוּ. (b e tsalmenu k e demûtenu). 5,3:בִּדְמוּתוֹ כְּצַלְמוֹ  (b e demûtô k e tsalmô). Le proposizioni b e e k e sono quelle che si invertono. La prima si traduce come “a” o “in”; la seconda significa “come”.

[3] S. Th. I, q. 13, a. 9.

[4] In Ioannem Evangelium, XVII, v. 23, lc. 5 [n. 2247].

[5] Cfr. In Ioan. Ev., I, v. 14b; lc. 8, 2 [187].

[6] Cfr. De Potentia Dei, q. 7, 7, ad2.

[7] Cfr. De Potentia, q. 7, 7, ad6.

[8] Cfr. Mons. M. Sánchez Sorondo, La gracia como participación de la naturaleza divina según Santo Tomás de Aquino, Univ. Pontificias: Buenos Aires – Letrán – Salamanca 1979, 138.

[9] Cfr. S. Th., I, q. 6, a.4c.

[10] Cfr. S. Th., I-II, q. 113, a.9, ad2.

[11] Cfr. Questiones disputate: De Caritate, q. unica, a.1, ad8.

[12] Cfr. S. Th., I-II, q. 112, a.1, c.

[13] Chiarisce in che senso lo è: «è superiore alla natura dell’anima, essendo un’emanazione e una partecipazione della bontà divina: ma non quanto al modo di esistere» (S. Th., I-II, q. 110, a.2, ad2).

[14] Cfr. Questiones disputate: De Veritate, q. 27, a.1, ad6: «Nessuna creatura è assolutamente (simpliciter) più nobile dell’anima di Cristo; ma in un certo senso (secundum quid) ogni accidente dell’anima è più nobile, in quanto ad essa è legato come sua forma. Si può anche dire che la grazia, in quanto creata, non è più nobile dell’anima di Cristo; ma sì in quanto c’è una somiglianza più significativa (expressior) con la bontà divina che una somiglianza naturale nell’anima di Cristo».

[15] «quaedam participata similitudo divinae naturae» (cfr. S. Th., III, q. 62, a.1c).

[16] Cfr. S. Th., I-II, q. 110, a.2, ad2.

[17] Cfr. In De Divinis Nominibus, VIII, lc. II [761].

[18] Cfr. In Ioannem Evangelium, XV, v. 9, lc. 2 [n. 1999].

[19] Fa sì che Cristo sia in noi come in un tempio [1Cor 3,16] (cfr. In Io. Ev. XVII, v. 23, lc. 5 [n. 2247]).

[20] Cfr. S. Th., I, q. 8, a.3c.

[21] Cfr. S. Th., I, q. 38, a.1c.

[22] “Questo non è altro che una partecipazione imperfetta della divina carità e amore, che non verrà tolta ma perfezionata; perciò si dice più propriamente ‘caparra’ che pegno” (Tommaso Aquino, Ad Ephesios¸ c. I, v.14 [43]). Ef 1,14: Caparra di nostra eredità.

[23] Cfr. In I Sent., d. 14, q. 2, a.2, ad2 (cfr. M. Sánchez Sorondo, La gracia como participación, 150).

[24] «La grazia come accidente è un dono che comunica all’uomo una certa somiglianza con Dio. Ma con l’incarnazione la natura umana non fu resa partecipe di una somiglianza con la natura divina, bensì fu congiunta con la stessa natura divina nella persona del Figlio. Ora, una realtà in se stessa vale più di una sua immagine partecipata» (cfr. S. Th., III, q.2, a.10, ad1).

[25] «La persona divina, però, non si può avere da noi se non per frutto perfetto, e così la si ottiene mediante il dono della gloria; o secondo il frutto imperfetto, e così la si ottiene mediante il dono della grazia del creatore; o piuttosto come ciò per cui siamo uniti al fruibile, in quanto le stesse persone divine lasciano nelle nostre anime alcuni doni di cui godiamo formalmente, cioè l’amore e la saggezza; per questo motivo si dice che lo Spirito Santo sia il “pegno della nostra eredità”» (cfr. In I Sent., d. 14, q. 2, a.2, ad2).

[26] Cfr. S. Th. II-II, q. 24, a.7c: «Infatti la carità non ha un limite di aumento nella natura della propria specie, essendo essa una partecipazione dell’infinita carità, che è lo Spirito Santo».

[27] In II Epistola ad Thimotheum, I, v.6, lec. 3.

[28] Contra Gentes III, 150, [n. 3232].

[29] In Ep. ad Ephesios¸ c. V, v.8, lct. 4 [287].

[30] Cfr. Mons. M. Sánchez Sorondo, La gracia como participación, 151.

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