Ateismo di negazione degli attributi divini – Riferimenti della Sacra Scrittura

ATEISMO di NEGAZIONE degli ATTRIBUTI DIVINI – RIFERIMENTI della SACRA SCRITTURA

Ponenza presentata nelle Giornate tomistiche del seminario San Vitaliano e del centro San Bruno di Segni, a Montefiascone (VT) – Italia, il 10/3/2021. 

Tenendo in conto che la negazione degli attributi divini (manifestazioni di Dio) deve essere considerata una sorte di ateismo – e di ciò si ha parlato nelle altre esposizioni – vogliamo ora illustrare queste argomenti con dei riferimenti storici pressi dalla Sacra Scrittura stessa; dal rifiuto di Dio per parte del popolo eletto fino al rifiuto di Cristo da parte dei capi dello stesso popolo.

  1. Introduzione

            Il termine a – theos si oppone a theós (Dio), e compare in San Clemente Alessandrino (Stromata, VIII, I, 4,3) per designare quello “che afferma che non esiste Dio”, che non c’è la Divinità. Di certo che questa è stata una realtà e una tentazione permanente nella storia dell’uomo. Afferma già il salmista di essere l’uomo stolto quello che afferma: Dixit insipiens in corde suo non est Deus (Salmo 53 [52],2).[1] Nelle prediche medievali «l’insipiens» viene descritto come un folle, uno stolto o un superbo, in ogni caso qualcuno che non vale la pena prendere in seria considerazione.

Clemente di Alessandria aggiunge altro – secondo il padre Fabro – introducendo un concetto, quello di pronoia, che sarebbe simile alla nostra Provvidenza: Indica la cura paternale e pastorale di Dio su di noi, non nel cosmo in generale ma in particolari circostanze, come il dono della Scrittura, o del Figlio, o della filosofia.[2] È per questa ragione che le profezie avvengono, e che il Figlio può “essere chiamato speciale dono della Divina Provvidenza” (Stromata, V, I, 7,8).[3] Il concetto di pronoia è fondamentale; se non si crede in esso, se diviene atheos – senza Dio – è costituisce un peccato (V, I, 6,1). Questo riferimento sembra suggerire che dall’inizio proprio della tradizione cristiana, l’ateo non era soltanto quello che rinnegava Dio direttamente o negava la sua esistenza, ma perfino quello che negava o poneva seriamente in dubbio alcuni dei suoi attributi.

  1. Ateismo di terzo grado

Abbiamo visto già come per p. Fabro, il contenuto del concetto di Dio deve essere preciso, giacché è un’esigenza metafisica della sua essenza divina. Dio è soltanto in un modo e se non viene così considerato, possiamo dire che stiamo negando qualcosa di Lui. Questo concetto implica le seguenti note: “Che è un essere supremo, che è unico e sommo, che è spirito, che è trascendente in se stesso, che è un essere personale supremamente libero”.[4] Esiste un certo tipo di ateismo, chiamato come di «terzo grado», che consiste in negare uno o più attributi divini, poiché corrompono il concetto di Dio e gli attribuiscono una forma di essere che contradice la sua natura. Il teologo illuminista A. Christian Roth lo definisce del seguente modo: “L’ateo di terzo grado non è colui che nega Dio o qualcosa al suo posto, ma colui che nega tuttavia qualcosa di Dio, o qualche attributo o provvidenza o anche qualche persona divina“.[5]

Il padre Fabro ne enumera alcuni esempi storici: a) negazione della conoscibilità dell’esistenza e natura di Dio in genere (scetticismo, agnosticismo); b) negazione della sua unicità e perfezione (politeismo); c) della trascendenza (panteismo, monismo); d) della spiritualità (naturalismo); e) della personalità (razionalismo, idealismo, ecc.).[6]

Cercheremo di illustrare l’apparire di questa speciale forma di ateismo e negazione di Dio con alcuni esempi dalla Sacra Scrittura.

  1. Il sincretismo

            Il vocabolo sincretismo deriva dal greco synkrētismós con il significato di “coalizione cretese”.[7] La parola latina sincretismus, ripresa da Erasmo da Rotterdam nella lettera a Filippo Melantone del 22 aprile 1519, passò ad indicare le tendenze eclettiche e conciliatrici tra scuole di pensiero diverse, nel senso moderno di “fusione”. Da quest’origine risulta che può essere considerato come un’unione e fusione di elementi ideologici già inconciliabili, attuata in vista di esigenze pratiche di carattere culturale, filosofico o religioso, appartenenti a due o più culture o dottrine diverse.

Uno dei casi più riguardevoli di sincretismo nella Sacra Scrittura l’abbiamo senz’altro nella storia del popolo eletto. In primo luogo nel Sinai, nella istituzione stessa dell’Alleanza mosaica, quando Mosè ritardava in scendere dal monte e gli israeliti chiesero ad Aaronne di procurarli un dio perché ormai non erano più tracce di Mosè (Es 32,1).[8] Quando Aaronne fece il vitello di metallo fuso, disse davanti al popolo: “O Israele, questo è il tuo dio che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto!” (Es 32,4), e ancora: Domani sarà festa in onore del Signore! (Es 32,5). Con quest’ultima denominazione: «Signore», che traduce il greco Kyrios e l’ebraico YHWH (Yahvé) – il nome proprio di Dio – si può essere certo che si tratta di un vero proprio sincretismo pur se con l’aspetto nascosto di idolatria.

Il passaggio presenta degli elementi di grande interesse: Riconoscono gli israeliti che Mosè era andato sul monte Sinai per essere istruito da Yahvé, sentivano ancora i tuoni e vedevano la nube, ma pensano che Mosè sia sparito o morto. Non credono che Yahvé, di cui vedevano perfino le sue manifestazioni sensibili, possa prendersi assai cura di lui. Tutto sembra iniziare con una grande sfiducia nella Provvidenza di Dio. Abbiamo poi il fatto che Aaronne si crede con capacità di fare una degna e adeguata rappresentazione del vero Dio. Affermerà che è il Dio che fece uscire Israele dall’Egitto (32,4) e perfino lo chiamerà Yahvé istituendo una festa in suo nome (32,5).

Vediamo allora come, benché descritto con delle vive immagini e trattandosi di un racconto semplice, si opera già un riduzionismo dell’idea di Dio; viene ancora considerato Yahvé ma totalmente distinto nei suoi attributi: La sua provvidenza sembra ridotta a sola prudenza carnale umana, il suo potere viene ridotto e la sua rappresentazione sfigurata, messa in mostra con tutte le imperfezioni e limitazioni propri di un animale. Inoltre, proprio il suo culto viene istituito dall’uomo e non da Dio.

Qualcosa di simile accadrà quando si si separeranno i due regni di Israele e Giuda, dopo la morte del re Salomone. Il capo delle tribù del nord, Geroboamo, convoca alla ribellione e si separa della casa di Davide e del regno di Giuda. Per evitare che la gente delle tribù del nord tornassero a Gerusalemme a sacrificare a Yahvé istituì due santuari sacri, a Dan nel nord e a Betel al sud, fabbricando due vitelli di oro, uno per ognuno dei santuari, e disse al popolo: “Siete ormai saliti abbastanza a Gerusalemme! O Israele, ecco il tuo dio, che ti ha fatto uscire dal paese d’Egitto!” (1Re 12,28).[9] Si afferma espressamente che “questo diventò un’occasione di peccato; perché il popolo andava fino a Dan per presentarsi davanti a uno di quei vitelli” (1Re 12,30). Le caratteristiche sono simili a quelle già osservate per l’episodio nel deserto, poiché Geroboamo istituirà pure un nuovo culto, dei sacerdoti e una festa per Yahvé (cfr. 1Re 12, 32-33).[10]

In ognuno di questi casi, sebbene rimanga ancora un’intenzione di voler restare uniti al Dio di Israele e di riconoscergli il nome di Yahvè, esiste di fatto una dimenticanza dell’incomunicabilità di questo nome, perché è una e unica la sua natura, la quale non può essere ridotta né assorbita dall’uomo. Appena si cerchi di minimizzarla, il risultato sarà o una negazione parziale della natura divina (negazione di alcuni dei suoi attributi, come nel sincretismo) o una negazione totale (come sarà nell’idolatria che seguirà il sincretismo). Ad ogni modo, stiamo sempre davanti a una scimmiottatura di Dio e non davanti a Dio stesso; il risultato è quindi una sorta di ateismo.

L’ultimo esempio di sincretismo in quel periodo di Israele l’abbiamo dopo l’esilio degli abitanti di Samaria (capitale del regno del Nord) a Ninive. L’imperatore assiro mise sul luogo abitanti pagani di altre regioni, al posto degli israeliti, ma un sacerdote di Israele insegnava loro la religione di Israele e il sacrificio a Yahvé, in modo tale che praticavano sia una religione sia l’altra (cfr. 1Re 17, 27-35). Queste pratiche si mantennero lungo tantissimi anni e diedero origine al popolo e alla religione conosciuta come dei samaritani, di chi Gesù dirà chiaramente: Voi adorate quel che non conoscete; noi adoriamo quel che conosciamo, perché la salvezza viene dai Giudei (Gv 4,22).

  1. L’idolatria nell’AT

L’idolatria vera e propria costituisce senz’altro un argomento diverso. Innanzitutto può essere classificata di vero ateismo in quanto porta con sé la negazione e disconoscimento di fatto del Dio vero. Di questo fatto testimonia il libro della Sapienza (13,1): Vani sono, in effetti, per natura tutti gli uomini che non sono arrivati alla conoscenza di Dio e che dai beni visibili non sono stati capaci di conoscere quello che è, che indaffarati con le opere non riconobbero l’Artefice. Il testo afferma per ben due volte che sia mancata la conoscenza di Dio. Utilizza in particolare, benché nella traduzione greca, il nome proprio di Dio: «Quello che è», affermando che è propriamente la conoscenza del vero Dio quella che è mancata.[11] Questa mancanza di conoscenza è volontaria e perciò porta con sé certa malizia, in modo tale che non può essere scusata: Neppure costoro sono scusabili, perché se tanto furono capaci da vedere, da scrutare il corso di tutto, come mai non hanno trovato più presto il loro Signore? (Sap 13, 8-9).

La Sapienza sottolinea il fatto che questo processo idolatrico è effetto da una dimenticanza del vero Dio, la che porterà anche ad una misconoscenza della natura dell’uomo e delle cose, occasionata sia dai sentimenti, dalla cupidigia e dal desiderio di guadagno, dalla sola fantasia a decapito del retto utilizzo della ragione. Leggiamo, ad esempio: Entrarono nel mondo per la vanità degli uomini, e per questo la loro rapida fine è stata decretata (Sap 14,14). Un esempio dell’influsso dei sentimenti appare anche: Un padre, afflitto da un lutto prematuro, fece fare un’immagine del figlio, rapidamente portato via, incominciò a onorare come dio l’uomo che era morto (14,15); dell’ambizione: L’ambizione dell’artista spinse anche quelli che non lo conoscevano a propagarne il culto (14,18); del solo piacere: Volendo certamente far piacere al sovrano […] la folla, attirata dalla grazia del lavoro, considerò ora oggetto di adorazione colui che poco prima aveva onorato come uomo (14, 19-20). Si segue, come conseguenza, una perversione del giudizio perfino sulle cose della natura e dell’agire umano: Non bastò l’errare intorno alla conoscenza di Dio, ma, mentre vivono in un grande contrasto d’ignoranza, chiamano pace mali così grandi (14,22).

Si insiste parimenti sulla malizia di questa mancata conoscenza, poiché questa ha prodotto che quello che corrisponde ed è proprio di Dio sia applicato alle creature: Gli uomini, asserviti o alla sventura o alla tirannide, imposero a pietre e a legni il Nome incomunicabile (14,21). San Tommaso dirà che il nome Dio espressa la natura divina[12] e come questa è solo una e non si può moltiplicare, se ne deduce che il nome Dio, in senso proprio, è incomunicabile. Potrebbe divenire comunicabile solo per una falsa opinione (il caso presente dell’idolatria) o in un senso metaforico, come quando la Scrittura dice: “Siete dèi, tutti figli dell’Altissimo!” (Sal 82,6; citato da Gesù in Gv 10,34). Ma il nome proprio, che designa la persona, come è il tetragramma sacro (YHWH) è del tutto incomunicabile.[13]

  1. San Paolo e gli attributi divini

Creazione del astro del giorno e della notte (Gn 1,16) – Abbazia di Monreale (Sicilia)

Nel Nuovo Testamento San Paolo parla molto chiaramente di attributi divini, ai quali chiama: «Quello conoscibile di Dio» (το γνωστον τοῦ θεοῦ), affermando che sono manifesti (φανερόν ἐστιν): Poiché quello conoscibile di Dio manifesto è in loro; Dio, infatti, l’ha loro manifestato (Rm 1,19). Il testo dichiara espressamente che si tratta di certi attributi divini, e in tanto manifesti, si conoscono da sempre: “le loro qualità invisibili (invisibilia Dei) – con un chiaro riferimento agli attributi divini –, la sua eterna potenza e divinità, si vedono chiaramente dalla creazione del mondo” (1,20).

Insiste l’Apostolo fortemente in sottolineare la volontarietà e perversità di questo disconoscimento, nell’affermare che “perciò essi sono inescusabili” (Rm 1,20). E la ragione consiste in che esisteva già una certa conoscenza del Dio vero, almeno della sua esistenza, nozione che perfino alcuni pagani avevano raggiunto, ma il fallimento consiste proprio in non volere assecondare il vero culto e la vera riverenza che questa conoscenza richiamava, ottenendo come risultato perfino l’oscuramento dell’intelligenza e la deviazione della volontà, ciò che poi sboccherà nell’idolatria: “pur avendo conosciuto Dio, non l’hanno glorificato come Dio, né l’hanno ringraziato; ma si son dati a vani ragionamenti e il loro cuore privo d’intelligenza si è ottenebrato (1,21) […] e prestarono un culto alle creature invece che al Creatore” (1,25).

La prima conseguenza è l’idolatria, ma non è l’unica. Si seguirà pure la perversità della coscienza morale, causata da un rifiuto volontario della conoscenza di Dio: Siccome non stimarono saggio possedere la vera conoscenza di Dio, Dio li abbandonò in balìa di una mente insipiente, in modo da compiere ciò che non conviene (1,28). Vengono elencati diversi generi di perversioni che si seguono dall’idolatria, perfino la schiavitù delle passioni ignominiose e ogni sorte di ribellione e di violenza. Rimane in loro certa consapevolezza che questo è contrario alla legge di Dio e alla natura, che si manifesta nel modo con cui cercano di riaffermare e approvare questi comportamenti: “Conoscendo che secondo i decreti di Dio quelli che fanno tali cose sono degni di morte, non soltanto le fanno, ma anche approvano chi le commette” (Rm 1,32). Una situazione che è tornata a essere molto familiare.

  1. Rifiuto della Rivelazione del Figlio di Dio

            Gesù disse alla Samaritana: “Dio è spirito” (Gv 2,4). Da ciò si segue che possiede intelligenza e volontà, che San Tommaso considera le “attuazione fondamentali ed essenziali dello spirito”. Queste sono considerati attributi operativi di Dio.[14] Abbiamo già visto sopra come la negazione della spiritualità di Dio (attributo affermato esplicitamente nella Scrittura) era considerata dal p. Fabro e da altri come una negazione della vera realtà di Dio.

L’intelligenza di Dio è alla volta causa dell’esistenza delle cose – in tanto è connessa con la volontà (I, q.14, a.8) – e si dice anche che in Dio esistono le ragioni o forme di tutte le cose, che costituiscono appunto le chiamate idee divine.[15] Queste idee non suppongono l’esistenza in Dio di una molteplicità di cose, perché Dio le conosce tutte in un’unica specie, che è l’essenza divina (q. 14, a.5 e a.11). Dunque, l’idea si identifica con la mente divina e in quanto tale, è eterna e immutabile come Dio stesso, ma in quanto dice relazione alle cose, è molteplice e diversificata. Il pensiero di Dio resta uno e unico; è l’Essenza pensata, questa unica ‘specie’ mediante la quale Dio pensa un’infinità di cose. “Questa divina Essenza pensata, mediante la quale Dio tutto pensa, progetta e forma, risolta poi essere, nella teologia rivelata, la Persona stessa del Verbo Divino” (cfr. I, q.34, aa.1 e 3).[16]

La presentazione che fa il Vangelo del termine verità, in particolare quella fatta da Gesù chi attribuisce se stesso l’essere la Verità, può essere considerarla in due modi, secondo San Tommaso: «Nel Vangelo si riscontra una duplice verità: l’una increata e fattiva, che è Cristo (Gv 14,6: Io sono la via, la verità e la vita); l’altra invece è la verità fatta, prodotta (1,17: La grazia e la verità vennero per Gesù Cristo)».[17] Ecco perché la verità increata viene appropriata al Figlio, che è il concepire stesso dell’intelletto divino e Verbo di Dio, mentre che nel nostro intelletto si riscontra la verità quando esso intende le cose come esse stanno. In un caso che nell’altro, la verità appare come qualcosa di obiettivo e di intimo rapporto sia con Dio che con il suo Verbo. Ogni forma di razionalismo, che contraddice questo concetto di verità fontale, è anche una forma di ateismo, perché nega l’aspetto della personalità di Dio, come aveva già anticipato padre Fabro.[18]

Nel rifiuto della Rivelazione di Cristo da parte dei giudei possiamo quindi scorgere una sorta di ateismo, dal momento che è stato un rifiuto lucido e consapevole di una verità che si presentava chiaramente come Verità divina, soprattutto alla luce delle opere da lui compiute e della stessa Scrittura che i giudei riverivano. Questo sembra essere il senso delle parole che Gesù rivolge ai giudei: “Perché non comprendete il mio parlare? Perché non potete dare ascolto alla mia parola” (Gv 8,43). L’atteggiamento di rifiuto della parola trasmessa e comunicata da Gesù diventava anche un ostacolo che impediva loro l’acceso alla Verità di Dio.

Nel lungo dialogo con i capi degli ebrei, nel capitolo 8 di Giovanni, Gesù si presenta a più riprese come Verbo di Dio e inviato speciale del Padre: “Se non credete che Io sono, morirete nei vostri peccati” (Gv 8,24). Aquino, nel suo commento, dirà che questa è un’affermazione personale da parte di che possiede l’essere per essenza e anche un’espressione per affermare la propria eternità.[19]

Si presenta pure come verità: Se perseverate nella mia parola, siete veramente miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi (Gv 8, 31-32). E ancora (nel doppio senso di verità, come verità sostanziale e come testimonianza veritiera): Perché io dico la verità, voi non credete (Gv 8,45). Gesù accusa loro di voler ucciderlo: Ora cercate di uccidermi, perché vi ho detto la verità che ho udita da Dio (Gv 8,40). Tommaso di Aquino, nel commento di questo passo, dichiara che Gesù rivolge ai giudei tre precisazioni: 1) Li accusa di omicidio; 2) li accusa del peccato di incredulità; 3) toglie loro ogni via perché possano scusarsi (dichiara quindi che la loro incredulità non ha scusa).[20]

Vediamo, nelle parole di Gesù, l’esistenza di una certa contrapposizione fra l’omicidio e la verità. Gesù dichiara che vogliono ucciderlo perché ha detto loro la verità, il che vuol dire che loro si schierano dalla parte della falsità, che è il dominio del demonio, il che è omicida fin dal principio” e “in chi (lui) non c’è verità (…) è bugiardo e padre della menzogna” (8,44). Ecco perché dirà che “sono figli del diavolo” e non di Abramo. Loro “non fanno le opere di Abramo” (cfr. 8,39); non ascoltano la verità di Dio perché non credono. L’opera principale di Abramo era la Fede, come pure dirà San Paolo, e loro sono propriamente increduli.[21] E il motivo perché odiavano a Gesù – a chi consideravano non più che un uomo – fino a voler ucciderlo era esattamente la loro incredulità: Cercavano ancor più di ucciderlo, perché non solo violava il sabato, ma diceva che Dio era suo Padre, facendo se stesso uguale a Dio (5,18).

La Legge comandava uccidere il profeta che avesse parlato in nome di falsi dei, o che l’avesse fatto a nome di Dio senza il suo comando (cfr. Dt 13, 1-5). Il Signore dirà comunque che ha parlato sotto il comando di Dio: Vi ho detto la verità che ho udita da Dio (8,40), e lo dimostrerà con le sue opere: Il Padre infatti ama il Figlio e gli mostra tutto ciò che egli fa, ed opere più grandi di queste gli mostrerà, in modo che voi ne rimaniate stupiti. Come infatti il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a coloro che vuole (5, 20-21). Questa sentenza si compì alla lettera nella Risurrezione di Lazzaro – oltre a altri miracoli come la guarigione del cieco di nascita[22] – e si compirà spiritualmente in tanti fedeli e credenti. Ma loro non crederanno neppure così. Gesù li rinfaccerà infatti, che loro non credono nelle opere che testimoniano di lui: Se non credete a me, credete alle opere, affinché sappiate e riconosciate che il Padre è in me e che io sono nel Padre (Gv 10,38).

Il Signore finirà il suo discorso con i giudei dichiarando apertamente: «In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse nato, io sono» (Gv 8,58), forse la rivelazione più chiara e decisiva di questo discorso, dove Gesù, secondo San Tommaso, usa il verbo in presente (Io sono, mentre che il “prima” sta a indicare il passato). Non disse: “io fui (o ero) prima di Abramo”, ma dice “io sono” per indicare che il suo essere era dall’eternità. La risposta di Gesù inoltre (nell’originale greco: ἀμην ἀμην λέγω ὑμῖν, πριν Αβρααμ γενεσθαι εγω ειμι), fa impiego del verbo genésthai, infinitivo passivo di gìnomai, che indica un “divenire, un farsi”. Abramo fu fatto, divenne essere. Gesù invece, è da sempre.

Gli ebrei proveranno di lanciarli delle pietre, perché considerano le sue parole una bestemmia e volevano ucciderlo. Aquino afferma: «La persecuzione dei giudei deriva dall’incredulità. Le menti di quegli increduli infatti, non riuscendo a sopportare le parole di eternità, e non essendo in grado di capirle, le ritenevano bestemmie (…) Così si comportano coloro, i quali, non riuscendo a capire per la durezza del loro cuore la verità apertamente proclamata, bestemmiano chi la predica, come si legge (nella Scrittura): “Bestemmiano tutto ciò che ignorano” (Gd 1,10)».[23]

Il rifiuto volontario, lucido e totale della Rivelazione di Cristo è una sorta di incredulità che può almeno identificarsi in molti dei suoi elementi con l’ ateismo di negazione degli attributi divini, specialmente quegli operativi: la divina Intelligenza, in cui il Verbo di Dio è l’Artefice supremo delle cose, la volontà divina per la quale opera l’Incarnazione e la manifesta con delle opere visibili, la Provvidenza soprannaturale per la quale vuole salvare l’uomo tramite l’opera redentrice del suo Figlio.

Nel rifiuto di Dio che tocca vivere oggi nel mondo odierno, sembra che possano annoverarsi quelle parole di San Paolo apostolo a Timoteo, su le caratteristiche degli uomini che conservano certe apparenze di pietà, ma che rigettano la sua vera fonte: Negli ultimi giorni verranno tempi difficili; perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati, irreligiosi (…) calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene, sconsiderati, orgogliosi, amanti del piacere anziché di Dio, aventi l’apparenza della pietà, mentre ne hanno rinnegato la potenza (2Tim 3, 1-5).

[1] Dice lo stolto nel suo cuore: «Non c’è Dio».

[2] Ancora di più, la Provvidenza, secondo Tommaso di Aquino, implica un rapporto dell’Intelletto con la Volontà divina (S. Th., I, q. 22 a.1, ad3). “La dottrina della Provvidenza resta il passaggio, nella mente divina, dall’atto di intendere all’atto del volere, ma resta in se stessa un atto dell’Intelletto, sebbene dell’Intelletto pratico” (cfr. G. Cavalcoli, La nozione di Dio nel pensiero di San Tommaso, in Divus Thomas 95/3, 43).    

[3] Cfr. C. Fabro, Ateismo, voce en Enciclopedia Cattolica II, Città del Vaticano 1949, 266.

[4] C. Fabro, Introduzione all’ateismo moderno, Opere complete 21; EDIVI, Segni 2013, 52. Prima come Il problema di Dio, in Problemi e orientamenti di teologia dogmatica (Milano 1957), v. II, 5s.

[5] «Atheus tertii gradus est, qui non negat Dem nec aliud quid por Deo substituit, negat tamen aliquid Dei, aut attributum aliquod Dei aut providentiam aut etiam personam aliquam divinam» (A. C. Roth, Atheistica Scriptorum Thomasianorum ..., Lepzig 1798, I, p. 26), citato dal Fabro in Introduzione all’ateismo moderno, 53 [nota 4].

[6] Cfr. C. Fabro, Introduzione, 53.

[7] Il termine compare per la prima volta nel “De fraterno amore”, 19 di Plutarco, (Moralia 490 ab), che cita l’esempio dei Cretesi che hanno messo da parte le differenze per coalizzarsi in vista dei pericoli esterni.

[8] Il popolo vide che Mosè tardava a scendere dal monte; allora si radunò intorno ad Aaronne e gli disse: “Facci un dio che vada davanti a noi; poiché quel Mosè, l’uomo che ci ha fatti uscire dal paese d’Egitto, non sappiamo che fine abbia fatto”.

[9] La LXX e la Vulgata traducono in plurale: «dei», a partire di che il testo ebraico utilizza il plurale Elohim, usato sia per gli angeli, sia per i falsi dei, ma anche come nome generico per il solo e vero Dio.

[10] 1Re 12, 32-33: (Geroboamo) stabilì a Betel i sacerdoti delle alture da lui istituiti. Il quindici dell’ottavo mese… salì all’altare che aveva eretto a Betel. Aveva istituito infatti una festa per i figli d’Israele ed era salito all’altare per bruciare aromi. Il Siracide afferma che questo fu l’occasione di peccato per Israele: Geroboamo, figlio di Nabat, fece sviare Israele e condusse Efraim sulla via del peccato (Sir 47,24).

[11] Il participio τὸν ὄντα si traduce effettivamente come «quello che è».

[12] S Th, I, q.13 a.8: «Il nome Dio (così preso) si impiega per designare la natura divina».

[13] Cfr. S Th, I, q.13 a.9: «Un nome in due modi può essere comunicabile: in senso proprio o per (accostamento o) somiglianza. Nome comunicabile in senso proprio è quello che si attribuisce a più cose secondo tutta l’estensione del suo significato; comunicabile per un accostamento è quello che si attribuisce ad altri esseri per qualcuno dei vari elementi inclusi nel suo significato. P. es., il termine leone in senso proprio è detto di tutti quegli animali nei quali si riscontra la natura espressa da tale nome. Per somiglianza (o analogia) si attribuisce a tutti gli individui i quali partecipano alcunché di leonino, come l’audacia o la fortezza, per cui si dicono metaforicamente leoni (…) Siccome il termine Dio è preso a significare la natura divina, come abbiamo già detto; e siccome, d’altra parte, la natura divina non è moltiplicabile, come abbiamo dimostrato; ne viene che questo nome Dio è realmente incomunicabile, ma è comunicabile secondo una (falsa) opinione (…) Nondimeno il nome Dio è comunicabile, se non secondo tutta l’estensione del suo significato, almeno in parte, per un certo accostamento o somiglianza. Si potranno chiamare dei coloro che partecipano un qualche cosa di divino a modo di somiglianza, secondo le parole dei Salmi: “Io ho detto: Voi siete dei”.

Se ci fosse invece un nome posto a significare Dio non sotto l’aspetto di natura, ma sotto quello di supposito (individuale), allora un tal nome sarebbe del tutto incomunicabile: tale è forse presso gli Ebrei il Tetragramma».

[14] Cfr. S Th, I, q.14, a.1: Si dice che il conoscere dipende del grado di immaterialità: «essendo Dio nel sommo grado di immaterialità, ne viene che egli sia all’apice del conoscere» (onniscienza). In quanto alla volontà, afferma (q. 19, a.1), che «in ogni essere che ha l’intelletto, c’è la volontà (…) essendo la volontà intimamente connessa con l’intelletto».

[15] S. Th, I, q.15, a.2: «Le idee sono certe forme, o ragioni delle cose, primarie, stabili e immutabili, perché esse non sono state formate e, per conseguenza, sono eterne e sono sempre le stesse, contenute nella mente divina».

[16] G. Cavalcoli, La nozione di dio nel pensiero di S. Tommaso, in Divus Thomas 95/3 (1992), 41 [nota 1].

[17] Tommaso di Aquino, Commento al Vangelo di San Giovanni, XVIII, 38 [2365] (edizione Città Nuova, Roma 1992), v. III, 326.

[18] Cfr. C. Fabro, Introduzione, 53.

[19] Cfr. Commento [1179-80], 97.

[20] Cfr. Commento [1213], 110.

[21] Aquino dirà che “la fede può denominarsi opera in base al testo di 6,29: Questa è l’opera di Dio: credere in colui che egli ha mandato. Un’opera interiore però è nota a Dio e non agli uomini, secondo la sentenza della Scrittura (1Re 16,7: Dio invece scruta il cuore)” (Cfr. Commento [1221], 115).

[22] Gv 9,32: Da che mondo è mondo non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi di un cieco nato.

[23] Cfr. Commento [1291], 147-48.

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