MALE e DEMONOLOGIA: Aspetti morali

NOTE SUL MALE e DEMONOLOGIA

(Dato nel corso di Demonologia del Seminario San Vitaliano e case di formazione della famiglia religiosa del IVE, il 13/5/2020).

Aspetti morali: I peccati luciferini contro i tre comandamenti primi

  1. Il male 

Gesù caccia i demoni

              Afferma San Tommaso di Aquino (S. Th. I, 49, a.3):[1] «Risulta, da quello che è stato già detto, che non può esserci un primo principio del male, come invece esiste un primo principio del bene:

1- Perché il principio primo del bene è buono per essenza, come fu visto (I, 6, a.3). Niente può essere cattivo per essenza (q.5, a.3; q.48, a.3). Fu chiarito che ogni ente, in quanto ente, è buono; e che il male non ha altro soggetto che il bene.[2]

2 – Perché il primo principio del bene è il bene perfetto, che contiene in sé ogni bontà (q.6, a.2), come spiegato. Invece non può esistere un sommo male, perché si è visto che il male, per quanto diminuisca il bene, tuttavia non potrà mai totalmente distruggerlo (q.48, a.4); e dal momento che un bene rimane sempre, non può esserci una cosa integralmente e assolutamente cattiva. Per questo Aristotele afferma che “se il male fosse integrale distruggerebbe se stesso”.

3 – Perché il concetto stesso di male si oppone all’idea di primo principio. Sia perché ogni male viene causato dal bene (come privazione). Sia perché il male non può essere che causa accidentale [per accidens].»  Ogni male esiste solo per accidens; non potrà mai sorpassare il bene.

                (S. Th. I-II, 18, a.1): «Ogni azione tanto ha di bontà quanto possiede di entità; e per quanto l’azione umana manca di pienezza entitativa, per difetto di misura secondo la ragione, o di luogo debito, oppure di altre cose del genere (circostanze), altrettanto manca di bontà, e viene detta cattiva». Questa è l’azione moralmente cattiva; essenzialmente un bene incompleto, un male in quanto manca di bontà e non si adatta alla retta ragione (difetto di misura).

  1. Peccato dell’angelo

                (I, 63, a.1): «L’angelo, come ogni altra creatura razionale, se si considera la sola sua natura, ha la possibilità di peccare:[3] e se una creatura qualsiasi è impeccabile, lo deve a un dono della grazia, non già alla sua natura. La ragione sta nel fatto che peccare significa precisamente deviare dalla rettitudine che l’atto deve avere (…) E solo la volontà divina è norma del proprio atto, perché essa non è ordinata a un fine superiore. Invece la volontà di qualsiasi creatura non ha la rettitudine insita nel proprio atto, ma ha come regola la volontà divina, che ha per oggetto l’ultimo fine (…) Perciò solo nella volontà divina non può esserci il peccato; mentre può verificarsi in ogni volontà creata, stando alla condizione propria della sua natura». Ad4: «L’angelo peccò in una seconda maniera, (non scegliendo direttamente il male), ma volgendosi col libero arbitrio al proprio bene, senza rispettare la regola stabilita dalla divina volontà». Una conseguenza importante di tutto questo è sapere che i demoni hanno una sola regola quando agiscono: seguire i propri desideri e gli impulsi che provengono da una volontà ribelle, quindi disordinata. Si può dire, in un certo senso, che si comportano come per un capriccio.

                (I, 63, a.2): «Quali peccati possono trovarsi negli angeli? Essendo esseri spirituali, soltanto possono trovarsi quei peccati dei quali può compiacersi una creatura spirituale. Ora, una creatura spirituale non si compiace dei beni materiali. Ogni essere infatti si compiace soltanto di ciò che in qualche modo può concordare con esso (…) I beni spirituali non possono dar luogo al peccato per il fatto che uno li desidera, bensì perché li desidera in modo non conforme alla regola di colui che gli è superiore. Ma non assoggettarsi come di dovere a chi è superiore è un peccato di superbia. Questo è stato il primo peccato degli angeli.

                In seguito, ha potuto esserci anche l’invidia. Un certo affetto è portato a desiderare una cosa, e per la stessa ragione, viene spinto ad opporsi al suo contrario. Così l’invidioso prova dispiacere per il bene altrui, perché lo giudica un impedimento al bene proprio. L’unico modo in cui il bene altrui poteva essere considerato dall’angelo cattivo un impedimento al bene proprio, è in quanto l’angelo cattivo desiderava un’eccellenza del tutto singolare, che viene a cessare ove ci sia un altro dotato della medesima eccellenza (…) L’angelo cattivo provò dispiacere per il bene concesso all’uomo e per l’eccellenza divina, che si serve dell’uomo per la sua gloria, contro la sua volontà. Ecco perché il peccato di superbia tiene dietro il peccato di invidia».[4]

  1. La lotta e la tentazione degli uomini

                (I, 114, a.1): «Nella lotta che i demoni muovono all’uomo, si considerano due cose: la lotta in se stessa, e l’ordine a cui soggiace. La lotta in se stessa procede dalla malizia dei demoni i quali, per invidia, cercano di impedire ogni profitto dell’uomo nel bene; e, per orgoglio, cercano di usurpare una somiglianza del divino potere, con l’assegnare a se stessi determinati subalterni nella lotta contro l’uomo, come fanno gli angeli verso Dio, esercitandosi nei vari uffici per la salvezza degli uomini. L’ordine invece a cui soggiace la lotta è stabilito da Dio, che sapientemente sa servirsi del male a profitto del bene».

                (I, 114, a.2): «Tentare propriamente vuol dire sottoporre una cosa a esperimento. Tale esperimento ha lo scopo di meglio conoscere la cosa stessa: perciò, scopo immediato di ogni tentazione è la conoscenza. Talvolta però, dopo l’acquisto della conoscenza, si mira a un altro scopo ancora, che può essere buono o cattivo: buono, nel caso che uno intenda scoprire le qualità di una persona, sia nel campo del sapere che nel campo della virtù, per aiutarla ad avanzare ulteriormente; cattivo invece, quando uno vuole scoprire tutto questo per poterla ingannare e rovinare.

                Ecco perché la tentazione viene attribuita a soggetti diversi in modo diverso. L’uomo, si dice che egli tenta, talvolta con l’unico scopo di sapere; ed è così che l’uomo pecca tentando Dio, perché allora egli, dubitandone, presume di mettere alla prova la potenza di Dio. Altre volte invece l’uomo tenta con lo scopo o di giovare o di nuocere.

– Il diavolo tenta sempre per nuocere, trascinando al peccato. Ed è appunto tentare in questo modo che è ufficio proprio del diavolo: poiché, sebbene talvolta tenti così anche l’uomo, allora quest’ultimo agisce quale ministro del diavolo.

– La carne e il mondo tentano anch’essi, ma strumentalmente o materialmente: in quanto si rivela come sia una persona, dal modo col quale asseconda o respinge le voglie della carne, e dal modo come sprezza le cose prospere o avverse del mondo; di questo si serve il diavolo stesso per tentare».

                I demoni conoscono quello che agli uomini accade esteriormente: ma l’intimo stato dell’uomo, alcuni inclini più a un vizio che a un altro, lo conosce solo Dio, “ponderatore degli spiriti”. Per questo motivo il diavolo tenta, cercando di esplorare l’intimo stato dell’uomo, per poterlo poi spingere a quel vizio verso cui è più inclinato (1Pe 5, 8-9: Il vostro nemico, il diavolo, va in giro come un leone ruggente, cercando qualcuno da divorare: resistetegli stando saldi nella fede).

  1. Il peccato di superbia

a) Primo peccato:

                La superbia costituisce l’essenza del primo peccato. San Tommaso spiega il perché (II-II, 163, a. 1): «il primo (peccato) spetta a quello nel quale per primo si riscontra un disordine […] Ora, l’uomo nello stato d’innocenza era così costituito da non poter subire nessuna ribellione della carne contro lo spirito. Quindi il primo disordine degli appetiti umani non poteva consistere nel desiderio di un bene sensibile, bramato dalla carne contro l’ordine della ragione. Dunque, il primo disordine della volontà umana fu nel desiderare in modo disordinato un bene spirituale. Ma tale desiderio non avrebbe potuto essere disordinato, se l’uomo si fosse adattato alla misura stabilita dal piano divino. Rimane quindi stabilito che il primo suo peccato fu nel desiderare un bene spirituale oltre la propria misura. Ora, questo è proprio della superbia. Perciò è evidente che il primo peccato dell’uomo fu di superbia».

b) Radice di ogni peccato: La superbia sta alla radice di ogni peccato: Inizio di ogni peccato è la superbia (Sir 10,15 [Vg]). “I peccati più grossi sono quelli della superbia. Sono alla radice di tutti i peccati, anche se non è il peccato più frequente, che invece è quello dell’impurità” (P. Amorth).[5]

                San Tommaso si domanderà allora se esiste superbia in ogni peccato che si commette, affermando che bisogna distinguere se questo viene considerato in genere o in particolare (nella sua specie):

«1) Da questo lato la superbia è un peccato specificamente distinto, avendo un proprio oggetto specifico: essa infatti è, come abbiamo detto, la brama disordinata della propria eccellenza.

2)            Si può considerare la superbia nella sua ridondanza sugli altri peccati. E da questo lato essa ha una certa universalità: poiché dalla superbia possono derivare tutti i peccati; in due modi, direttamente, in quanto gli altri peccati vengono ordinati al fine della superbia, alla propria eccellenza cui è possibile indirizzare tutto ciò che si desidera, e in maniera indiretta (accidentale), cioè col togliere gli ostacoli: poiché con la superbia si disprezza la legge divina, che impedisce di peccare».

                Molti peccati si faranno per debolezza, ma con un disprezzo della legge divina, lo quale implica pure certa superbia e gravità: «Amare Dio con tutto il cuore significa dargli il primo posto fra i nostri affetti. Gesù ha detto chiaramente nel Vangelo: “chi ama il padre o la madre più di me, non è degno di me. Chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me” (Mt 10,37). E ha detto anche: “se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26). Amare Dio più di un figlio, per esempio, significa, tra altre cose, lasciarlo libero di seguire la propria vocazione, specialmente quella alla vita consacrata. Quanti genitori impediscono ai propri figli di farlo? Con quali conseguenze nefaste? Più di qualche santo (e anche qualche mistico) ha affermato che per i genitori che si macchiano di questa colpa è preparato un Purgatorio durissimo e che si protrarrà fino al Giudizio universale! Stessa cosa vale per il caso contrario: un figlio, dinanzi a un genitore che gli impedisse di seguire il Signore, deve obbedire a Dio e non ai genitori. E se per debolezza cedesse, questo gli sarà imputato a colpa.

                Un altro esempio riguarda il marito e moglie: Un marito non vuole avere più figli e usa metodi

contraccettivi o chiede un uso sbagliato e immorale del matrimonio. La moglie che dovesse accondiscendere non pecca solo contro il sesto comandamento (come il marito), ma anche contro il primo, perché per amore del marito accetta di trasgredire la legge di Dio. Che differenza tra queste brutte situazioni ed alcune storie di mamme martiri che non hanno esitato nei primi secoli ad affrontare il martirio lasciando orfani bimbi ancora infanti, oppure di sante donne vergini (santa Cecilia), che riuscirono a far rispettare la propria verginità ai mariti pagani, i quali invece di ucciderle si convertirono (e molti morirono martiri!)».[6] Ricordare quello di San Paolo: “non avete ancora resistito fino al sangue nella vostra lotta contro il peccato” (Eb 12,4).

c) Forme speciali di superbia:

                Esistono anche alcune forme più sottili di superbia, nel campo spirituale, quando il demonio tenta ‘sub angelo lucis’ (luciferino). San Giovanni della Croce segnala tre di esse:

1 – La prima riguarda i fatti straordinari, soprattutto riguardo ai sensi esterni, se fosse il caso di certi tocchi sensibili straordinari, come suoni, parole, locuzioni, profumi, ecc., che non si sa da dove vengano. San Giovanni della Croce è chiarissimo al riguardo: «Quando l’anima si accorge che le accadono tali fatti straordinari, spesso comincia ad accarezzare segretamente una certa opinione di valere qualcosa dinanzi a Dio, il che è contrario all’umiltà.[7] Il demonio, inoltre, sa istillare nell’anima una segreta auto compiacenza, qualche volta anche troppo palese (…) Sebbene tutti questi fenomeni possano introdursi nei sensi corporali per intervento di Dio, non si deve mai fare assegnamento su di essi né accoglierli. Occorre, quindi, respingere sempre simili rappresentazioni e sensazioni, perché, anche se venissero da Dio, non gli si reca offesa né si perdono l’effetto e il frutto che Dio intende comunicare all’anima per mezzo di esse, solo perché respinte e non cercate.[8]

2 – Quando si pretendono di sapere cose per vie soprannaturali (falso profetismo, apparizioni, ecc.). Anche qua ci previene S. Giovanni: «In questo modo il Signore permette che il demonio accechi e inganni molte anime, a causa dei loro peccati e della loro presunzione. Il demonio può farlo e ottiene il suo scopo, perché esse gli credono e lo scambiano per uno spirito buono. Tanto è vero che, malgrado le insistenze per dissuaderle, non si riesce a strapparle dall’inganno. Dio permette che assimilino questo spirito, che consiste nel capire le cose a rovescio. Ciò è quanto accadde ai profeti del re Acab. Dio permise che fossero ingannati dallo spirito di menzogna, lasciando mano libera al demonio: Lo ingannerai senz’altro; ci riuscirai; va’ e fa’ così (1Re 22,22). E il demonio riuscì a ingannare il re e i profeti e non credettero al profeta Michea, che annunciava loro la verità, contraria a quella che gli altri avevano profetizzato. Questo perché Dio permise che venissero accecati a motivo del loro attaccamento a ciò che volevano accadesse, cioè che Dio rispondesse secondo le loro voglie e i loro desideri (…) Costoro irritano talmente Dio che egli li lascia volutamente cadere nell’errore, nell’inganno e nell’accecamento dello spirito».[9]

3 – Dalle volte con le devozioni: «Nasce nei principianti una certa vanità, talora molto grande, di parlare delle cose spirituali in presenza di altri e, a volte, di voler loro insegnare più che essere disposti a imparare. Inoltre, in cuor loro, condannano gli altri quando non vedono in essi quella forma di devozione che vorrebbero praticassero, e qualche volta lo dicono, come il fariseo nel tempio (cfr. Lc 18, 11-12) […] Molto spesso è il demonio che accresce nei principianti il fervore e il desiderio d’intraprendere queste e altre opere, perché aumentino in superbia e presunzione. Sa molto bene, infatti, che tutte queste opere e questi atti di virtù, che i principianti compiono, non solo non valgono nulla, ma si trasformano in vizi. Alcuni arrivano a tale distorsione da non volere che nessuno, all’infuori di loro, venga reputato buono.[10] Potrebbe essere anche il caso di attaccamento a un certo rito o modi di pregare, a punto tale che non si vuole accettare altri.

  1. Alcune esigenze del primo comandamento e i peccati contro

1) La dignità di Dio: Perfino nei suoi confronti, così come capita anche tra noi; negandogli l’ossequio dovuto gli si fa perfino ingiuria (forme di idolatria antiche e moderne). (II-II, 122, a. 2): «Per la virtù di religione l’uomo in primo luogo doveva essere guidato a toglierne gli ostacoli contrari al bene. Ma il primo ostacolo in questo campo è l’adesione a una falsa divinità, secondo l’espressione evangelica: “Non potete servire Dio e mammona”. Ecco perché col primo precetto della legge viene proibito il culto dei falsi dei».

2) La generosità di Dio: Va implicito il dovere di gratitudine. Ecco perché offende particolarmente a Dio l’ingratitudine nei suoi confronti, la sfiducia in lui e nella sua provvidenza e nella sua misericordia (A Sor Faustina: “Le anime che più me feriscono sono quelli che sfidano di più nella misericordia…”; ricordare anche il caso di Giuda Iscariota).

3) La fedeltà alle promesse e parole fatte: Implica il compiere la parola impegnata, ed i voti e promesse (contro ogni forma di infedeltà). I demoni temono e vengono sconfitti da coloro che vivono e compiono i voti fatti.[11]

4) L’inclemenza del dominio diabolico, come afferma Geremia: “Servirete giorno e notte ad altri dèi, che non vi daranno requie” (Ger 16,13). Il tentatore infatti non si contenta di far cadere una sola volta ma, piuttosto, si ingegna di moltiplicare le cadute: “Chi fa il peccato è schiavo del peccato” (Gv 8,34), e san Gregorio commenta: «L’errore che non vien cancellato dalla penitenza, presto ne trascina altri con sé». Mentre che la sottomissione a Dio è ben diversa: Il mio giogo è soave, e leggero il mio peso (Mt 11,30).

5) L’immensità del premio.[12]

  1. Il secondo comandamento e i peccati contro: Il ‘nome’ di Dio

                Il secondo comandamento proibisce di nominare invano il nome del Signore nostro Dio. Il grande e importante valore che questo precetto contiene e che cerca di riconoscere, perseguire e tutelare, è la santità del “nome” di Dio e il rispetto e l’adorazione a Lui dovuti come Essere Supremo, Sommo ed Eterno.

                Nella Sacra Scrittura il ‘nome’ designa sempre l’essenza e l’identità profonda della persona. Ciò che vale per i nomi in molti lingue, vale per tutti i nomi ebraici: sono sempre intrisi di un significato molto profondo che è un po’ come l’identikit di colui che porta quel dato nome. Pensiamo, solo per fare qualche esempio, al significato del nome di Gesù (“Yahweh salva”), a quello dell’arcangelo Michele (“chi è come Dio”), a quello del profeta Elia (“Dio è Yahweh”). Il nome individua dunque la persona, la ragione profonda del suo essere ed anche il contenuto della sua missione.

                Nella Somma Teologica, San Tommaso analizza anche le etimologie del termine ‘Dio’, proposte dal Damasceno [De fide orthodoxa 1, 9]: «Il termine Dio (in greco “theòs”) può procedere da tre origine: da theein, cioè da ‘correre’, e dal soccorrere tutte le cose (la rapidità con la quale Dio agisce e prevede tutte le cose); o da aethein, ossia da ‘ardere’ (poiché il nostro Dio è un fuoco che consuma ogni ingiustizia; cfr. Dt 4,24; Eb 12,29); oppure da theasthai, cioè dal vedere tutte le cose».[13] Ora, tutto ciò appartiene all’operazione, in particolare alla Provvidenza dalla quale il nome Dio deriva il suo significato.[14] Da ciò emergono certe caratteristiche essenziali di questo essere che “tutti chiamano Dio”: l’assoluta potenza, l’ineffabile ed eterno amore, il supremo controllo e la simultanea conoscenza di tutto lo scibile, reale o potenziale. Ci saranno altri nomi di Dio che Lui stesso rivelerà, in particolare il nome proprio che esprime il suo essere: “Io sono quello che sono”. Ecco perché il ‘nome’ è quello con il quale una realtà si conosce e per la quale una realtà si fa conoscere se stessa come è.

                Per questo motivo Dio chiamò le opere della Creazione che ha Egli ha fatto con dei nomi diversi, e per questo mise l’uomo nella terra perché mettessi i nomi agli animali e bestie, in segno di padronanza e dominio su di esse: Avendo il Signore Dio formato dalla terra tutti gli animali dei campi e tutti gli uccelli del cielo, li condusse all’uomo per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato gli esseri viventi, quello doveva essere il loro nome (Gen 2,19). Ed è anche il modo in cui Dio ci conosce: “Ti conosco per nome e hai anche trovato grazia ai miei occhi” (a Mosè: Es 33,12. 17); “Non temere, perché ti ho redento, ti ho chiamato per nome, tu sei mio” (Is 43,1).

                Per quel stesso motivo, negli esorcismi, si domanda ai demoni il loro nome, perché implica il riuscire ad avere un certo controllo su di lui. Afferma il p. Amorth: «Bisogna sapere che dire il nome, per il demonio, è una sconfitta seria».[15]

  1. La santità del nome divino

                I passi della Sacra Scrittura che affermano che il Nome di Dio è santo sono tanti.

                La più grande “cantatrice” della santità del nome di Dio è l’Immacolata, che nel Magnificat afferma senza esitazione “santo è il suo nome” (Lc 1,49). Sta all’apice di una parabola che parte nell’Antico Testamento e trova, nei Salmi e in certi profeti, bellissime espressioni:[16] In Ezechiele si legge testualmente: «Le nazioni hanno disonorato […]. Ma io ho avuto riguardo del mio nome santo, che gli Israeliti avevano disonorato […]; per amore del mio nome santo che voi avete disonorato» (Ez 36,20-22); «Farò conoscere il mio nome santo in mezzo al mio popolo Israele» (Ez 39,7); «La casa di Israele […] ha profanato il mio santo nome con tutti gli abomini che hanno commesso» (Ez 43,7-8).

                Cosa significa “santità”? In greco santo si dice “aghios“, che letteralmente significa “privo di terra”. Santità, dunque, è “essere privi di terra”, ossia al di sopra di ciò che è contingente, caduco e imperfetto, dimensioni tutte appartenenti alla vita di quaggiù. Santità, dunque, è sinonimo di perfezione assoluta (trascendenza sui limiti propri degli enti creati), di eternità (trascendenza sulle limitazioni del tempo), immutabilità (trascendenza al di sopra della contingenza e mutevolezza degli enti creati). Ecco il perché della riverenza che si deve avere al nome di Dio e dei suoi santi, e il peccato terribile che implica deriderlo, peccato proprio dei demoni e dei dannati, che maledicono la loro sorte. Insegna San Tommaso (Supl, 98, a. 5): «Dio può essere conosciuto per sé o per altro. In sé e per sé lo conoscono i beati; i dannati e noi lo conosciamo per altro. In sé Dio, che è bontà essenziale, non può dispiacere ad alcuna volontà: così chiunque lo veda nella sua essenza non può odiarlo. Invece certi suoi effetti sono ripugnanti alla volontà, perché in contrasto con certi desideri. E sotto quest’aspetto uno può odiare Dio, non in se stesso, ma a motivo dei suoi effetti. E quindi i dannati, nel percepire Dio in quell’effetto della sua giustizia che è il castigo, e la sofferenza che subiscono, hanno odio verso di lui». Anche (II-II, 34, a. 1): «Ci sono certi effetti di Dio che ripugnano a una volontà disordinata: p. es., le punizioni, e lo stesso divieto dei peccati fatto mediante la legge divina, il quale ripugna a una volontà depravata dalla colpa. E in rapporto a codesti effetti Dio può essere odiato da certuni: cioè in quanto viene considerato come proibitore dei peccati, e distributore dei castighi».[17]

                L’incredulità è l’odio a Dio sono considerati i peccati più gravi in se stessi, perché implicano avversione a Dio, e si oppongono alla bontà di Dio in se stesso. Sono più gravi della disperazione, perché questa proviene dal non sperare più di poter essere partecipi della bontà di Dio e si oppone alla bontà di Dio in quanto partecipata a noi; sebbene la disperazione possa essere più pericolosa, perché ci allontana più facilmente delle opere buone (cfr. II-II, 20, a.3).

  1. La bestemmia

                In senso stretto, la bestemmia è l’ingiuria rivolta contro il nome di Dio. San Tommaso la definisce come (II-II, 13, a.1): «menomazione di una bontà eccellente, e in particolare della bontà divina». È anche contro la bontà divina: «chiunque nega a Dio qualche cosa che a lui si deve, o gli attribuisce quanto a lui non si addice, sminuisce la bontà divina».

                Diceva il curato di Ars che è così orribile questo peccato che i cristiani non dovrebbero avere coraggio di commetterlo. Significa infatti detestare e vomitare fango e veleno contro una bellezza infinita ed ingiuriare villana e volgarmente Colui che è causa solo del bene. La bestemmia è dunque, un atto di somma ed estrema superbia e irriverenza, commesso verso Colui che, se volesse, potrebbe istantaneamente fulminare il bestemmiatore e precipitarlo nell’Inferno (cosa che non fa solo per la sua infinita misericordia); atto che esprime l’estrema stupidità dell’uomo, che ingiuria l’Unico che è sempre e comunque suo Amico, ed infine atto che esprime la somma maleducazione, grossolanità e volgarità dell’uomo, ovvero il distintivo degli ignoranti, dei cafoni e dei grezzi, che degrada ed abbrutisce l’uomo rendendolo simile ai demoni, bestemmiatori per antonomasia.[18]         

                Esistono diversi tipi di bestemmia, secondo il curato di Ars: 1) Per affermazione, dicendo: “il buon Dio è crudele e ingiusto nel permettere che soffra tanti mali, che sia calunniato in questa maniera, come sono sfortunato! Tutto va in rovina a casa mia, non posso avere niente, mentre tutto riesce a casa degli altri!”. Le continue lamentele, anche nella vita religiosa, contro i superiori, pensando che si beneficia ad alcuni e che sempre pospongono a me, almeno si ne somigliano molto: Pensare che Dio non sia giusto; attribuire ingiustizia a Dio.

2) Quando si dice che il buon Dio non è onnipotente e che si può fare qualche cosa senza di lui: Sfiduciare dell’onnipotenza di Dio (una forma di bestemmia; contro Gv 15,5: Senza di me non potete far nulla).

3) Quando si attribuisce ad una creatura ciò che è dovuto soltanto a Dio: idolatria delle creature e superstizioni.

4) Si bestemmia invocando il nome di Dio innecessaria o superficialmente, anche con lo spergiuro.[19]

                San Tommaso (II-II, q. 13, aa. 3-4) dice che la bestemmia ha la gravità della miscredenza, perché si contrappone alla confessione della Fede. Si aggrava se si aggiunge la detestazione della volontà; e più ancora se si esprime con parole, così come cresce il merito della fede con l’amore e la confessione. E aggiunge che si dà nei condannati (e per analogia nei demoni) «perché amano ancora le cose per cui sono puniti, ma odiano i castighi inflitti per codesti peccati, e questa ripulsa si riduce a una bestemmia di pensiero. È da credere che dopo la risurrezione in essi ci sarà la bestemmia vocale, come nei santi la lodi vocale di Dio».[20]

                Un caso particolare lo costituisce la bestemmia contro lo Spirito Santo, che potremmo anche chiamare di “chiusura radicale e definitiva all’azione della grazia”, e che San Tommaso lo chiama peccato di malizia.[21] Si possono determinare sei diverse specie: la disperazione della salvezza, la presunzione di salvarsi senza meriti, l’impugnazione della verità conosciuta, l’invidia della grazia altrui, l’ostinazione nel peccato e l’impenitenza finale.[22]

                Gesù afferma che questo peccato non sarà perdonato (Mt 12,32; Mc 3,29). (II-II q. 14, a.3): Ci sono varie interpretazioni di perché è irremissibile: L’impenitenza finale lo è di per sé perché è il peccato mortale con il quale uno ha perseverato fino alla morte, non essendo rimesso in questa vita. In un altro modo si può dire che è irremissibile non perché non venga mai rimesso, ma perché di suo lo meriterebbe. E lo merita per due ragioni:

a) quanto al castigo: Certi peccati hanno una ragione di debolezza (i giudei venivano ostacolati di credere alla divinità a causa dell’umanità di Cristo che vedevano in lui), ma quelli che attribuiscono al demonio le opere dello Spirito, peccano con malizia e non meritano perdono.

b) quanto alla pena: Perché toglie i mezzi con i quali si compie la remissione dei peccati (sebbene l’onnipotenza e misericordia di Dio può trovare la via del perdono in modo quasi miracoloso).

        9. Terzo comandamento: Santificare le feste

                Ci limitiamo soltanto a dare due ragioni teologiche di perché è necessaria l’osservanza di questo comandamento, basate sul Commento al Credo di San Tommaso. In questo modo sarà più facile capire perché l’Avversario odia specialmente la pratica di questo precetto:

                «I giudei celebravano di sabato la memoria della prima creazione. Cristo operò la seconda proprio il giorno in cui si concludeva la settimana. Da questa seconda creazione non ebbe origine l’uomo terrestre, bensì l’uomo spirituale: la nuova creatura, quella che ha valore agli occhi del Padre (cfr. Gal 6, 15). Essa prese a vivere in forza della risurrezione di Gesù (cfr. Rm 6, 4-5). Ora, la risurrezione del Signore avvenne nel giorno che i cristiani hanno a lui dedicato. Per questo noi celebriamo la domenica [giorno della risurrezione, o nuova creazione], come i giudei avevano il sabato in venerazione.

                Esso ha valore di insegnamento religioso intorno al redentore, il cui corpo nel sepolcro fu esente dal processo di decomposizione. La sua carne riposò nella speranza (cfr. Sal 15, 9), ossia nella certezza che «il Santo» non sarebbe stato abbandonato alla corruzione della morte (cfr. Sal 15, 10). Con la quiete del giorno festivo è simboleggiata la sua deposizione dalla croce, come i sacrifici ne prefigurarono la morte. Noi non pratichiamo più i riti sacrificali dell’antica alleanza per il motivo che, sopraggiunta la realtà messianica, i simboli hanno perso il loro significato. Col sorgere del sole svaniscono le ombre notturne. Tuttavia, veneriamo il sabato in onore della gloriosa Vergine che pure in tal giorno serbò la fede nel Cristo, sebbene lo sapesse morto.

                Poi [tale precetto] ha il compito di dar maggiore efficacia alla promessa della quiete eterna, allorché si avvererà qualcosa di più grande e durevole di quanto profetava Isaia: “Il Signore ti darà riposo dalla tua pena, dai tuoi affanni e dalla dura servitù in cui eri tenuto (Is 14,3) e abiteremo in “un soggiorno di pace, in dimora sicura, in luoghi di perfetta quiete” (cfr. Is 23,18)».[23]

                Questi tre motivi: Ricordo della prima creazione e figura della seconda; ricordo particolare del Redentore e anticipo vivente ed efficace del riposo eterno possono dare un’idea di come i diavoli devono invidiare gli uomini che festeggiano tali motivi e cercare ad ogni modo di impedirglieli, così come della gravità della mancanza a questo precetto.

[1] Le seguenti citazioni sono tutte della Somma Theologiae (S. Th) di San Tommaso di Aquino, salvo contraria indicazione.

[2] Sap 1,14: Egli ha creato tutte le cose perché esistano; salubri sono le creature del mondo, in esse non c’è veleno mortifero, né il regno degl’inferi è sulla terra.

[3] Gio 4,18: Nei suoi angeli riscontra difetti.

[4] Sap 2,24: Per invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza quanti sono del suo numero.

[5] R.P. G. Amorth, Memorie di un esorcista: La mia vita in lotta contro Satana; Ed. Piemme, Milano 2010, 208.

[6] Cfr. D. Leonardo Maria Pompei, I dieci comandamenti: Il cammino della vita, 18 (versione on-line).

[7] “Quel credersi – come Lucifero – che siamo qualcosa di grande” (S. Luigi M. di Montfort, Lettera circolare agli amici della Croce, 48. Costituzioni dell’Istituto del Verbo Incarnato [125]).

[8] S. Giovanni della Croce, Salita al Monte Carmelo, II, 11, 5 (versione on-line).

[9] S. Giovanni della Croce, Salita al Monte Carmelo, II, 22, 12. Come dice Isaia 19,14: Ha mandato loro uno spirito di smarrimento. Si capisce che Dio opera in maniera privativa, lasciando che si smarrissero, per voler loro intromettersi in misteri che non potevano raggiungere naturalmente.

[10] S. Giovanni della Croce, Notte oscura, I, 2, 1.2.

[11] Se uno viola la legge di Mosè, in base alla deposizione di due o tre testimoni morrà senza alcuno scampo; quanto più acerbi supplizi pensate voi che si meriti chi avrà calpestato il Figlio di Dio, e avrà tenuto come profano il sangue del testamento grazie al quale fu santificato, e avrà fatto oltraggio allo Spirito? (Eb 10, 28-29).

[12] Cfr. S. Tommaso d’Aquino, Opuscoli teologico – spirituali (In symbolum apostolorum); In duo praecepta caritatis et in decem legis praecepta expositio, I, 1.

[13] Cf. S. Th. I, 13, a.8 arg.1. Quest’ultima significazione trova conferma l’etimologia derivante dal sanscrito “thieu”, che significa “luce”, e perciò, come luce, fa conoscere (Cfr. I dieci comandamenti, 20).

[14] S. Th. I, 13, a.8 ad1.

[15] https://www.agi.it/cronaca/padre_amorth_esorcista_libro-2134020/news/2017-09-09/.

[16] Cfr. Sal 30 [29],5; 33 [32],21; 97 [96],12; 99 [98],3: Santo egli è; 103 [102],1; 105,47; 111 [110],9; 145 [144],21.

[17] Anche in S. Th. I, 60, a.5, ad5: «Quelli che non lo vedono nella sua essenza, lo conoscono attraverso effetti particolari, che talvolta sono in contrasto con la loro volontà. Per questo motivo, si viene a dire che essi odiano Dio: e tuttavia, in quanto Dio, rimane il bene universale di tutte le cose».

[18] Cfr. I dieci comandamenti, 24.

[19] Cfr. I dieci comandamenti, 25.

[20] Cfr. i rispettivi corpus dei due articoli segnalati. In II-II, 13, a.4: “Chiunque muore in peccato mortale porta con sé una volontà che in qualche maniera detesta la divina giustizia. Ed è così che nel dannato può sempre esserci la bestemmia”.

[21] “Perché si abbandona e si esclude quanto poteva impedire la decisione di peccare: la speranza, esclusa dalla disperazione; il timore, escluso dalla presunzione. Queste cose escluse soni prodotto dallo Spirito Santo. Perciò peccare per malizia in questo modo è peccare contro lo Spirito Santo” (II-II, 14, a.1).

[22] Cf. S. Th., II-II, 14, a.2.

[23] Cfr. S. Tommaso d’Aquino, Opuscoli teologico – spirituali (In symbolum apostolorum); In duo praecepta caritatis et in decem legis praecepta expositio, III, 1.2.3.

 

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