Il vangelo del Verbo Incarnato

Giovanni Evangelista con la coppa delle acque urticanti - Il Greco

Giovanni Evangelista con la coppa delle acque urticanti – Il Greco

La grandezza del vangelo di San Giovanni

            Il Vangelo di san Giovanni è, per eccellenza, il vangelo del Verbo Incarnato; infatti, come insegnava san Tommaso, «il contenuto di questo Vangelo è la conoscenza della Divinità del Verbo»:

«Giovanni si è elevato al di sopra della nube della fragilità umana e come un’aquila che vola ha fissato con gli occhi acutissimi dell’anima la luce della verità immutabile, cogliendo la Divinità stessa di nostro Signore Gesù Cristo per cui questi è uguale al Padre, cercando di esprimerla e di inculcarla nel suo Vangelo, nella misura che ritenne accessibile alle esigenze di tutti» (Commento a Giovanni, Prefazione 11).

  Quest’osservazione dell’Angelico riassume il pensiero di Sant’Agostino, nel suo paragone tra il quarto vangelo ed i sinottici, dove afferma che Giovanni «attinse dal petto dello stesso Signore, con più abbondanza e in un certo qual modo con più intimità il mistero della sua divinità»:

«Tuttavia i tre evangelisti [Mt, Mc, Lc] si sono soffermati moltissimo, su quanto Cristo ha compiuto nel tempo terreno, grazie alla carne umana; Giovanni, invece, ha soprattutto considerato la stessa divinità del Signore, con la quale [Cristo] è uguale al Padre, e ha cercato di farla conoscere in modo particolare con il suo vangelo, entro quei limiti che credette sufficienti per gli uomini. [Giovanni] pertanto si innalza molto più in alto di questi evangelisti e a tal punto [da credere] di vedere costoro vivere sulla terra con Cristo, mentre lui s’innalza, invece, al di sopra di [ogni] vapore che ricopre tutta la terra e giunge al cielo più alto. Di qui sembra che con la perspicacia della sua intelligenza molto profonda e molto ferma veda il Verbo di Dio nel suo principio, “presso Dio”, per mezzo del quale ogni cosa è stata fatta e lo riconosca, diventato carne con la destinazione ad abitare tra noi, non perché sia mutato in carne, ma perché egli ha assunto la carne. Se, infatti, l’assunzione della carne non fosse avvenuta senza la divinità restasse immutabile qual era, non sarebbe stato detto: “Io e il Padre siamo una cosa sola”, giacché il Padre e la carne non sono una sola cosa. Da notare che soltanto Giovanni ha ricordato queste testimonianze del Signore su se stesso: “Chi vede me, vede il Padre”, e: “Io sono nel Padre e il Padre è in me”; ancora: “Affinché siano una cosa sola, come anche noi siamo una cosa sola”; poi: “Anche il Figlio compie allo stesso modo tutto quello che fa il Padre”; se vi sono altre testimonianze che fanno conoscere a quelli che ben intendono la divinità del Cristo, per mezzo della quale Cristo è uguale al Padre, Giovanni è quasi il solo ad averle raccolte nel suo vangelo, come se avesse attinto con più abbondanza e in un certo qual modo con più intimità il mistero della sua divinità dal petto dello stesso Signore, sopra il quale era solito riposare durante il banchetto» (Il consenso degli evangelisti, 4,7).

             Della stessa idea fu Origene, il primo gran commentatore di Giovanni, il quale esprime saggiamente la «grandezza» di questo evangelo e la “chiave di lettura” per penetrare nei suoi significati misteriosi: «Io credo che i quattro vangeli costituiscono gli elementi fondamentali della fede della Chiesa […]; e io penso che la primizia dei vangeli sia in quel testo che tu mi hai chiesto di commentare, che, volendo parlare di Colui la cui genealogia è già registrata [altrove], inizia da Chi non l’ha affatto […]. Bisogna pertanto aver il coraggio di dire che i vangeli costituiscono la primizia di tutte le scritture e che il vangelo secondo Giovanni è la primizia dei vangeli, il cui senso nessuno può afferrare, se non dopo aver poggiato il suo capo sul petto di Gesù e solo dopo aver accettato da Gesù a Maria, come sua madre» (Commento di Giovanni 1,4, 21-23).

             Proprio per questo, lo studio esegetico del vangelo giovanneo ci deve portare ad una conoscenza intima, amorosa, soprannaturale, e non puramente storica e intellettuale del mistero di Gesù Cristo. A questo scopo può aiutare ed illuminare ciò che scriveva p. Gabriele Maria Allegra, ‘il san Girolamo della Cina’: «Vorrei soprattutto coordinare tutte le cognizioni in un solo principio teologico: “In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio e il Verbo si è fatto carne”».

            Lui stesso avvertiva ai suoi studenti di esegesi: «Io sono convinto che se si studia la Bibbia come un qualsiasi libro profano, non si potrà mai trovare in essa il Cristo, che ne è il centro; son pure convinto che dobbiamo giovarci di tutti i ritrovati delle scienze storiche e della critica moderna, ma senza per questo valutare per scienza tutte le ipotesi, che pullulano come funghi in questo campo» (EP 26, p. 110), e osservava che, trattandosi di un libro divinamente inspirato, che ha allo Spirito Santo per autore principale, lo studio non può essere mai staccato della preghiera e della meditazione giacché «il vero esegeta –sottolinea – è colui che, studiando e meditando la S. Scrittura, ascolta la voce dello Spirito, “qui locutus est per prophetas”» (Ms. II/d, 1, p. 12).

Notizie biografiche su giovanni apostolo.

La tradizione antica attribuisce la composizione del quarto vangelo a Giovanni apostolo, figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo il Maggiore.

Giovanni, in greco Iwannhz, è un nome ebraico composto: Iehohan, oppure Iohanan che significa: Jaweh accorda grazia, favore; Jaweh usa bontà, misericordia.

            Giovanni, secondo la notizia di Policrate trasmessa da Eusebio (Storia Ecclesiastica III,31,3), apparteneva ad una famiglia sacerdotale. Sua madre, di nome Salome (Mt 4,21; cfr. Mc 15,40 e Mt 27,56) faceva parte del gruppo delle pie donne che seguivano il Maestro e i discepoli mettendo a loro disposizione le proprie sostanze e la propria opera per coadiuvarli nel loro lavoro missionario (cfr. Mt 27,55; Mc 15,40-41; Lc 8,3). Matteo segnala la presenza sul Calvario della madre dei figli di Zebedeo (cfr. Mt 27,56; Mc 15,40) e Marco ricorda che tra le donne, le quali al mattino della risurrezione si recarono al sepolcro di Gesù, vi era anche Salome (cfr. Mc 16,1).

            Giovanni, prima di mettersi al seguito di Gesù, fu discepolo del Battista (cfr. Gv 1,35-40); forse per questa ragione la vicinanza dell’apostolo con il Precursore spiega alcuni elementi comuni tra il quarto vangelo e gli scritti di Qumran, presumibilmente. Il modo di vivere del Precursore, il tema della sua predicazione, l’impiego del testo profetico di Isaia, con il quale si esortava il popolo a preparare le vie del Signore, richiamavano l’ideale di vita, le concezioni e l’attesa escatologica dell’ambiente di Qumran, secondo quello che ufficialmente si afferma. Dal seguito del Battista, Giovanni, insieme con il fratello, passò al seguito di Cristo, poiché il Precursore stesso aveva indicato Gesù come l’Agnello di Dio. I due fratelli seguirono il Maestro a Cana (cfr. Gv 2,1-11) e per breve tempo ripresero il loro mestiere di pescatori. Più tardi furono chiamati direttamente da Gesù all’apostolato e questa fu la loro chiamata definitiva, narrata dai tre evangelisti sinottici (cfr. Mt 4,21-22; Mc 1,19-20; Lc 5,1-11).

                I racconti evangelici hanno conservato il ricordo di alcuni fatti riguardanti «i figli di Zebedeo». Questi, a motivo del loro carattere irruente, furono chiamati da Gesù «Boanerges», cioè figli del tuono, secondo l’interpretazione offerta dall’evangelista Marco (cfr. Mc 3,17). I due fratelli ambivano di occupare i posti di onore nel regno che Gesù avrebbe istituito (cfr. Mc 10,35). Giovanni mostrò un attaccamento generoso e zelante per il Maestro, perché si oppose ad un estraneo al gruppo dei discepoli, il quale faceva uso del nome di Gesù per espellere i demoni dagli ossessi (cfr. Mc 9,38). Secondo un’informazione di Luca i figli di Zebedeo volevano indurre il Maestro a punire i samaritani con il fuoco fatto discendere dal cielo, perché si erano rifiutati di accogliere nel loro villaggio gli inviati di Cristo (cfr. Lc 9,53-54). Insieme con Pietro i due fratelli formavano il gruppo dei tre discepoli amati in modo particolare da Gesù; verso di essi il Maestro ebbe delle speciali attenzioni; egli infatti li volle testimoni della risurrezione della figlia di Giairo (cfr. Mt 5,37; Lc 8,51), della trasfigurazione (cfr. Mt 17,1; Mc 9,2; Lc 9,28) e dell’agonia nel Getsemani (cfr. Mt 26,37; Mc 14,33).

            Nel vangelo di Giovanni si parla in quattro testi del «discepolo che Gesù amava»; questi passi si trovano tutti nella seconda parte dell’opera. La sentenza comunemente accettata dalla tradizione identifica l’innominato discepolo con Giovanni evangelista. Nell’ultima cena il discepolo che Gesù amava chinò il capo sul petto di Gesù e chiese al Maestro il nome del traditore (cfr. Gv 13,23); sul Calvario allo stesso discepolo da Cristo morente viene affidata la propria madre (cfr. Gv 19,26); al mattino di Pasqua il discepolo prediletto, avvertito dalla Maddalena della tomba trovata vuota, vi accorre subito precedendo l’apostolo Pietro e fu il primo a credere alla risurrezione (cfr. Gv 20,3.8); all’apparizione di Cristo sul lago di Tiberiade il discepolo amato fu ancora il primo a riconoscere il Maestro risorto; nella stessa circostanza egli ricevette da Gesù una misteriosa predizione intorno al proprio destino (cfr. Gv 21,7, 20-23). In tre altri passi del quarto vangelo si parla di un «altro discepolo» (cfr. Gv 1,40; 18, 15-16; 20, 2-10), senza ulteriore determinazione. Comunemente si ritiene che questo «altro discepolo» sia il discepolo prediletto.

            Anche se sussistono alcune difficoltà per l’identificazione di Giovanni evangelista con il discepolo amato da Gesù, tale identificazione rimane la soluzione più fondata e più seguita. Una delle difficoltà maggiori verso tale identificazione è rappresentata da quanto detto in Gv 18,15-16,[1] dove si rileva che il discepolo amato da Gesù era una persona nota al sommo sacerdote; questa notizia non si accorda facilmente con l’altra informazione su Giovanni apostolo, originario della lontana Galilea (Betsaida, vicino a Cafarnao), il quale esercitava il mestiere di pescatore.[2]

                L’identificazione del discepolo amato con Giovanni evangelista si fonda su vari argomenti, dei quali è utile fare un breve cenno. Questo discepolo appartiene al gruppo dei Dodici; egli era, infatti, presente all’Ultima cena, alla quale, secondo la testimonianza dei sinottici, hanno preso parte soltanto gli Apostoli. Nel gruppo dei Dodici Gesù ha mostrato una spiccata predilezione per tre di essi, cioè per Pietro e per i due figli di Zebedeo. Ora Pietro non può essere il discepolo prediletto, perché egli viene spesso ricordato per nome accanto al discepolo che Cristo amava (cfr. Gv 13,23-24; 20,2; 21,20); nemmeno Giacomo può esser identificato con questo discepolo amato, poiché egli venne martirizzato verso il 44 d. C. (Cfr. Atti 12,2), essendo quindi in età ancor giovane, mentre il discepolo amato giunse ad età assai avanzata (cfr. Gv 21,20-33). Resta quindi soltanto Giovanni, figlio di Zebedeo. Tale argomento viene corroborato dal fatto che nel quarto vangelo non si nomina mai Giovanni, come pure non si fa il nome del suo fratello Giacomo; questo silenzio sul nome dei due fratelli – diverso dal uso dei Sinottici- non può essere casuale, ma intenzionale.

            Nella Chiesa nascente, come risulta dagli Atti, Giovanni appare tra le persone più in vista. Negli Atti il suo nome figura subito dopo quello di Pietro (Atti 3,1-11; 4, 13.19; 8,14); i due apostoli vanno insieme al tempio per pregare (cfr. Atti 3,1-11); dopo la guarigione dello storpio, ambedue vengono arrestati e deferiti al sinedrio (Atti 4, 3.13.19). Dopo la persecuzione, verificatasi a Gerusalemme, i due apostoli si recano insieme in Samaria per visitare i nuovi credenti e vi soggiornano per un breve periodo allo scopo di evangelizzarvi gli abitanti (cfr. Atti 8, 14.15). Secondo la testimonianza di S. Paolo, Pietro, Giacomo il fratello del Signore (cfr. Galati 1,19) e Giovanni costituiscono «le colonne» della Chiesa madre, la Chiesa di Gerusalemme (Galati 2,9).

            Da questa fugace notizia, che documenta la presenza di Giovanni a Gerusalemme in occasione della visita di S. Paolo, si può dedurre che Giovanni si trovava nella città santa al tempo del Concilio di Gerusalemme (49 d.C.). Gli Atti invece, quando parlano dell’ultima visita di S. Paolo a Gerusalemme (verso il 57) ricordano soltanto Giacomo (Giacomo il Minore), presentandolo come capo dei “fratelli” di quella comunità cristiana (cfr. Atti 21,8); cioè fa logicamente concludere che Giovanni, a quel tempo, si era già allontanato da Gerusalemme.

                Le fonti neotestamentarie non trasmettono nuove notizie sulla vita dell’apostolo; questo silenzio viene in parte rotto da notizie trasmesse dalla tradizione. Infatti, da testimonianze di autori del sec. II sappiamo che l’apostolo dimorò ad Efeso e che governò diverse Chiese della provincia di Asia. Molto probabilmente il soggiorno ad Efeso di Giovanni dovette aver inizio dopo l’anno 67, poiché S. Paolo, quando si trovava in questa importante città dell’Asia (dal 53 al 56), non s’incontrò con l’evangelista, come risulta dal silenzio degli Atti, i quali ignorano del tutto la presenza di Giovanni ad Efeso, ed anche dal fatto che verso l’anno 65 la Chiesa di Efeso fu affidata a Timoteo; ora non vi può essere dubbio che Timoteo rimase ad Efeso fino alla morte di S. Paolo (anno 67).

         Dagli antichi scrittori si è informati che sotto l’imperatore Domiziano (81-96), Giovanni fu relegato nell’isola di Patmos, dove ebbe le visioni ricordate dall’Apocalisse. Sotto Nerva l’apostolo rientrò ad Efeso, dove rimase fino alla morte attendendo al governo delle Chiese dell’Asia; egli morì ad età molto avanzata durante l’impero di Traiano (98-117). Secondo alcune testimonianze antiche la morte dell’apostolo sarebbe avvenuta nell’anno settimo di Traiano (anno 105). La tomba dell’apostolo fu molto venerata nell’antichità e divenne meta di pellegrinaggi.

            Due problemi di notevole importanza sono strettamente connessi con quello di Giovanni apostolo, autore del quarto vangelo, di cui sono stati dati i lineamenti biografici essenziali. Dei due problemi il primo riguarda il soggiorno di Giovanni ad Efeso; il secondo interessa la distinzione oppure l’identificazione di Giovanni apostolo con un certo Giovanni il Presbitero, conosciuto da una testimonianza di Papia. Ma tutte e due trovano una soluzione adeguata entro il marco di quello conosciuto dalla tradizione. Cercheremo di parlarne in futuro.

[1] Gv 15,16: Pietro invece stava fuori, davanti alla porta. Uscì dunque l’altro discepolo noto al sommo sacerdote, parlò alla portinaia e fece entrare Pietro.

[2] Non è necessario ricorrere a diverse tradizioni riportati nel quarto vangelo da un autore diverso da Giovanni per spiegare la difficoltà. In verità l’autore del quarto vangelo, essendo uno dei due figli di Zebedeo, evita di parlare di se stesso preferendo designarsi con formule velate e discrete, come «l’altro discepolo» oppure: «il discepolo che Gesù amava». Tale argomentazione riveste maggior vigore probativo se si considera il fatto che Giovanni, secondo un computo segnalato da J. Chapman, ricorda il nome degli apostoli in numero più elevato di quello constatato in ciascuno dei tre vangeli sinottici.

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