Domenica V di Quaresima: LA RISURREZIONE DI LAZZARO

       

Risurrezione di Lazzaro – Leon Bonat

   Questa V domenica di Quaresima viene letto  il vangelo della Risurrezione di Lazzaro. Va una piccola riflessione per aiutare la lettura, molto utile in questi giorni di Quaresima e quarantina, nella quale possiamo approfittare per coltivare lo spirito.

            La Risurrezione di Lazzaro, presentata da Giovanni nel capitolo 11 del suo vangelo, segna il culmine della vita pubblica di Gesù. Questo culmine avviene con il più grande dei miracoli. I Sinottici avevano già presentato alcuni miracoli di risurrezione operati da Gesù (Mt 5,21ss e paralleli; Lc 7,11ss e seguenti), ma nessuno di essi – come sostengono diversi commentatori – è alla pari.[1] Forse è questo dettaglio, così come l’interpretazione degli ultimi versi del capitolo precedente, che ha portato alcuni autori a immaginare che la narrazione in questione non sia autentica (e nemmeno il miracolo in quanto tale). Alcuni suggeriscono che si tratti di un’aggiunta tardiva scritta dalla cosiddetta “comunità giovannea”.[2] 

  1. Nomi e caratteristiche di persone e luoghi

– v. 1: C’era un malato, un certo Lazzaro di Betania, del villaggio di Maria e Marta sua sorella.

            Il primo verso presenta diversi nomi che saranno i protagonisti di tutta la storia. Innanzitutto, nei primi versetti si usa più volte il termine “malato” (ἀσθενῶν = asthenōn).[3] Il termine appare con delle forme verbali pure nei versetti seguenti, il che può delimitare tutta l’introduzione alla pericope tra i vv. 1-6.

            Lazzaro: Il nome La’zār è una forma abbreviata di Eleazar (“Dio aiuta”, o “aiutato dal Signore”), un nome comune nel Nuovo Testamento, come si può vedere in diverse iscrizioni funebri.[4]

            Betania: L’etimologia più plausibile la collega a Bēt-‘anyā (“casa dell’afflizione”), per cui si presta a un gioco di parole e di significato (dovuto all’afflizione delle sorelle alla morte di Lazzaro), mentre un’altra possibilità è: Bēt-aniyya (“casa della risposta/testimonianza”), anche se quest’ultima sembra più applicabile a Gv 1,28, dove il Battista, stabilito a “Betania, oltre il Giordano”, rende testimonianza di Gesù. È ben documentato che Betania, vicino a Gerusalemme, è il luogo dove Gesù si era fermato nel suo cammino verso la città (Mc 11,1; 14,3). Si trova a circa 15 stadi (tre chilometri) da Gerusalemme (cfr. 11,18), sul versante orientale del Monte degli Ulivi, dove dal 300 si venerava la cosiddetta “tomba di Lazzaro”. È un ambiente scavato nella roccia, con tombe del tipo “arcosolio” su tre dei suoi lati. Intorno alla tomba si trova l’insediamento arabo di El-Azariyye (“luogo di Lazzaro”), facendo parte attualmente di Gerusalemme Est. La casa dei fratelli doveva essere situata ad est del sepolcro, come pensa Wikenhauser, perché la Betania originale era a tre chilometri da Gerusalemme (secondo 11,18), mentre quella attuale è a soli due chilometri.[5] 

            Maria e Marta sua sorella: Entrambe le sorelle sono nominate in Lc 10,38 e suo contesto, essendo questa l’unica menzione esplicita di entrambe nei Sinottici.[6] 

– v. 2: Maria era quella che unse il Signore di olio profumato e gli asciugò i piedi con i suoi capelli; Lazzaro, suo fratello, era malato.

            La traduzione letterale di questo verso dal greco va letta in questo modo (lo stesso per la Vg latina) alludendo chiaramente a un episodio già avvenuto. Il dubbio che sorge è se si tratta di un riferimento a ciò che sarà raccontato nel prossimo capitolo (12, 3-8), o se sia un riferimento alla peccatrice di chi parla Luca (7, 37-47). Il secondo ha il vantaggio di essere un episodio chiaramente collocato in un momento cronologico precedente, mentre che sul primo esiste il dubbio.

            Nel caso di Giovanni 12, si dice espressamente che la protagonista è stata Maria e che sia accaduto a Betania, essendo Lazzaro e sua sorella presenti, e quasi tutti gli Apostoli, poiché si dice che Giuda Iscariota si lamenta dell’apparente spreco di denaro. Il problema è che Giovanni si riferirebbe a qualcosa che non accade ancora secondo l’ordine cronologico del suo vangelo. Considerare che l’allusione di 11,2 versa sul capitolo 12 è la tipica posizione di coloro che presumono che il Vangelo sia stato scritto molto tardi e che rifletta le varie fasi della composizione.[7]  Si basano anche sulla possibilità che la menzione di Giovanni 11,2 faccia eco alla tradizione sinottica, perché, apparentemente, troviamo lo stesso fatto di Giovanni 12 narrato in Mt 26, 6-13 e in Mc 14, 3-9. Ci sono però alcune differenze, poiché questi due evangelisti affermano, all’inizio delle loro narrazioni, che l’evento si è svolto a Betania, ma nella “casa di Simone il lebbroso” (Mt 26,6 e Mc 14,3). Entrambi parlano di un vaso di alabastro, con un profumo di puro nardo, di grande valore, con il quale è stato unto il capo di Gesù, e la protagonista è stata “una donna” (Mt 26,7; Mc 14,3). Per Giovanni, invece, è stata Maria chi solo ha unto “i piedi” di Gesù, con un profumo di puro nardo, benché si parli di “una libbra” e nulla si dice sull’alabastro. Matteo e Marco parlano di “due giorni prima della Pasqua” (Mt 26,2; Mc 13,37), mentre Giovanni afferma che Gesù andò a Betania “sei giorni prima della Pasqua” (Gv 12,1), e che “gli offrirono una cena” (Gv 12,2), pur se la cena in questione non deve necessariamente coincidere con il giorno del suo arrivo. In ogni caso, e nonostante le differenze osservate, c’è molta somiglianza tra le tre narrazioni per supporre che si tratti di fatti diversi, soprattutto la reazione di Giuda, che in tutti e tre i racconti sembra essere identica.

            Riguardo a Luca 7, abbiamo già detto che diversi dei Padri non sembrano identificare Maria di Betania con la peccatrice. Questa ultima era venuta nella casa di Simone il fariseo e le circostanze sono ben diverse, ragione per la quale si considera indubbiamente un fatto diverso. Non è illogico pensare che Giovanni vi faccia riferimento, in modo tale che l’unzione a Betania, da parte di Maria, sarebbe successiva. In questo caso, Maria è la peccatrice di Luca 7 e questo può aver influenzato la tradizione tardiva a identificare l’una con l’altra, ed entrambe con la Maddalena (pur se quest’ultima è più problematica). La questione è contestata e non è di facile soluzione. Che Giovanni si riferisca all’episodio precedente di Luca può spiegare perché, poi, nel capitolo 12, affermerà che Maria “unse i piedi di Gesù” e non la sua testa, come fanno i Sinottici, evidenziando la somiglianza tra le due unzioni.

  1. Breve presentazione della struttura e fatti che precedono il miracolo

a) Breve accenno alla struttura:

            Tutto il capitolo 11 si può dividere in tre grandi parti: Una prima di preparazione remota o generale (vv. 1-16) dove si presentano, in un’introduzione, come abbiamo visto, i personaggi e i luoghi (vv. 1-6) e poi la decisione di Gesù di andare in Giudea per trovarlo (vv. 7-16). Una seconda di preparazione più immediata (vv. 17-37), dove troviamo, tra l’altro, l’importantissimo dialogo di Gesù con Marta (vv. 20-27) e con Maria (vv. 28-33). La terza parte presenta con grande chiarezza la Risurrezione di Lazzaro come tale (vv. 38-44) seguita da una lunga conclusione (vv. 45-54), accompagnati da una parentesi che ci introduce nella seguente scena (vv. 55-57). Proviamo a fermarci sul miracolo stesso di Gesù nel far risorgere Lazzaro.

Tomba di Lazzaro a Betania

          Se dovessimo riassumere il messaggio della struttura del capitolo, potremmo fare brevemente riferimento a quanto segue:

1 – La prima parte (11, 1-16) mostra il lento passaggio dalla concezione ebraica della malattia fisica e della morte come sogno, al bisogno di credere in qualcosa che si rivelerà totalmente nuovo e rivoluzionario, anche se gli Apostoli non lo capiscono ancora. Gesù, ex-professo, non si muoverà fino alla morte di Lazzaro, affinché gli Apostoli e i credenti comprendano che egli è venuto a portare la vita in modo assoluto, e che potrà distruggere la morte.

2 – Nei dialoghi con le sorelle (11, 17-33): Con Marta (vv. 20-27) domina chiaramente il tema della Fede, la necessità di “credere” in Gesù, fede che ha bisogno di essere purificata. Non basta credere che alla fine dei tempi Cristo stabilirà la Vita eterna. Inizia ora, anche se in germe e con certi segni che lo profetizzano. Maria (vv. 28-33), come espressione di vita contemplativa, non si sforza tanto di credere quanto di “andare o venire” da Gesù, confidando pienamente nella sua potenza.

3 – La sezione sulla risurrezione stessa (vv. 38-44) ci pone di fronte all’evidenza del potere di Gesù, che non toglie il bisogno di credere, ma richiede una decisione definitiva. O il suo potere viene accettato o viene respinto con grande senso di colpa, perché una tale meraviglia viene attribuita a un uomo malvagio che si pensa debba necessariamente morire.

b) La perturbazione di Gesù:

– v. 33: “Quando Gesù la vide piangere, e vide piangere anche i Giudei venuti con lei, fremette nello spirito, si turbò” (ἐνεβριμήσατο τῷ τῷ πνεύματι πνεύματι). È una combinazione di due espressioni greche: la prima è l’aoristo medio di ἐμβριμάομαι (embrimáomai = gemere, sospirare, cavalcare nella rabbia). Nella versione greca dei LXX indica una chiara espressione di rabbia o di indignazione (Dan 11,30), mentre nei Sinottici ha o un aspetto di rimprovero (Mc 15,5; Giuda e gli altri che rimproverano la donna che aveva versato un costoso profumo sul capo di Gesù), o di severo monito (Mt 9,30; Gesù ai ciechi guariti). La seconda espressione greca è il verbo ἐτάραξεν (dal verbo tarassein) che normalmente esprime una profonda agitazione.

            L’Aquinate sostiene che l’espressione serve a indicare i sentimenti che Cristo nutriva nel suo cuore. Egli osserva che Gesù Cristo era vero Dio e vero uomo; perciò negli episodi della sua vita quasi sempre troviamo cose umane mescolate a quelle divine. E se talora si narra di lui qualcosa di umano, subito vi si aggiunge anche qualcosa di divino.[8] Infatti, di Cristo non si legge niente di più abietto della sua Passione; e tuttavia mentre era pendeva dalla croce si manifestarono fatti divini: il sole si oscurò, le pietre si spezzarono, i corpi dei santi giacenti nei sepolcri risuscitarono. Così pure alla sua nascita: mentre egli giace nel presepio una stella splende nel cielo, l’angelo ne canta le lodi, i re Magi gli offrono doni. Lo stesso avviene in questo episodio: infatti, Cristo subisce qualcosa di umiliante per i sentimenti della sua umanità, un turbamento per la morte di Lazzaro, come sta scritto (sebbene egli manifesterà la sua divinità risuscitandolo).[9] 

            E continua: «In questo turbamento si deve notare, per prima cosa la pietà (di Gesù); secondo, la discrezione; terzo, la padronanza di sé.

Pietà, perché il motivo che lo produce, il quale fu un motivo giusto. Uno infatti si turba giustamente, se si turba per la sofferenza di un altro, come in questo caso. Come dice San Paolo (Rm 12,15): Rallegratevi con quelli che godono, piangete con quelli che piangono.

Discrezione, perché si turba secondo il giudizio della ragione, cosicché sta scritto: “Fremette nel suo spirito e si turbò”. Nel turbamento dello spirito si accenna alla mente (la parte superiore della sua anima).

– Finalmente va notato il dominio di sé; perché Cristo fu lui a turbare di proposito se stesso.

            Gesù volle essere turbarsi e rattristarsi per tre motivi. Primo, per dare la prova della realtà e verità della sua natura umana. Secondo, per insegnarci come noi dobbiamo comportarci con moderazione nella tristezza (…) Il terzo motivo è per suggerire a noi, che per i morti dobbiamo addolorarci e piangere (cfr. Sal 37,9).

            Mostra anche i sentimenti del suo cuore con la parola: “Dove l’avete posto?” (v. 34). Egli lo volle chiedere non perché l’ignorava; ma perché il popolo, mentre gli indicava il sepolcro, dichiarasse che Lazzaro era morto e sepolto; cosicché il miracolo risultasse immune da ogni sospetto.[10] 

            Come si vede, esistono veramente dei motivi per riflettere su tutti gli sforzi fatti da Gesù per dimostrare la realtà dei suoi miracoli, i quali a volte vengono purtroppo negati da uomini di scrivania che si proclamano esegeti cristiani, e che come tali sono pagati.

  1. La preghiera di Gesù e il miracolo della risurrezione

            La pietra della tomba è descritta come sovrapposta o attaccata ad essa: era una grotta, e vi era stata posta una pietra (v. 38). L’apertura fu così sigillata, ma poteva essere rimossa per seppellire un altro corpo in un secondo momento.

            In senso mistico, la grotta indica il profondo abisso dei peccati (Sal 68,3 [Vg]: sono immerso nel fango profondo e non c’è punto di appoggio). La pietra sovrapposta sta a indicare la Legge, scritta appunto sulla pietra, la quale non toglieva il peccato, ma teneva gli uomini nel peccato, perché essi peccavano più gravemente in quanto agivano contro la legge (Gal 3,22: La Scrittura ha racchiuso ogni cosa sotto il peccato). Gesù ordina – afferma il Crisostomo – la rimozione della pietra (senza rimuoverla lui stesso) per assicurare al miracolo maggiore certezza, per rendere loro stessi testimoni del miracolo. Secondo Sant’Agostino, la rimozione della pietra indica l’abolizione delle osservanze legali per quei fedeli di Cristo che si aggregavano alla Chiesa dai popoli pagani. Pertanto, la rimozione della pietra equivale a dire: “Togliete la pietra – ossia il peso della Legge, e predicate la Grazia!”[11]

a) La preghiera di Gesù: (v. 41) Gesù fissò gli occhi in alto e disse: “Padre, ti ringrazio per avermi ascoltato!

            Nella sua preghiera (vv. 41-42) Gesù rende grazie, indirizzando la sua intelligenza verso il Padre celeste. Se noi vogliamo pregare secondo l’esempio di Cristo, dobbiamo elevare a Lui gli occhi della mente, distogliendole dalle cose presenti, sia per la memoria, sia per la cogitativa, sia per l’intenzione. L’esortazione ad “alzare gli occhi al cielo” è un invito a non confidare nei propri meriti, ma a sperare solo nella misericordia divina (Sal 122,1ss: “A te elevo i miei occhi, a te che abiti nei cieli …”).

            Accenna poi all’efficacia della sua preghiera con quella frase: “Padre, la ringrazio per avermi ascoltato!” Se la frase si applica a Cristo in quanto uomo, non presenta difficoltà: così infatti Cristo era inferiore al Padre, e in tal senso aspetta anche a lui pregare il Padre, ed essere esaudito da Lui. Ma se si applica a Cristo in quanto Dio – come vuole il Crisostomo -, allora presenta difficoltà; poiché in quanto tale a Cristo non si addice né pregare né essere esaudito, ma esaudire le preghiere degli altri. Ma ci sarebbe un altro discorso. Possiamo dire, che uno viene ascoltato quando si compie la propria volontà. Ora, la volontà del Padre si compie sempre. Ma essendo la volontà del Figlio (il Verbo incarnato) identica a quella del Padre, ogni qualvolta il Padre adempie la sua volontà, adempie la volontà del Figlio. Il fatto poi di rendere grazie all’inizio della orazione è un esempio di come dobbiamo pregare: prima di chiedere qualcosa per il futuro, dobbiamo ringraziare Dio per i benefici ricevuti (cfr. 1Tes 5,18: In tutto rendere grazie).[12]

b) La resurrezione: (v. 43) Detto questo, gridava a gran voce: – “Lazzaro, vieni fuori!”

            Il grido dell’autore della risurrezione è descritto come grande. In senso letterale, lo fa per distruggere l’errore dei gentili e di alcuni tra i giudei, che dicevano che le anime dei morti dimoravano nelle tombe insieme alle salme. Perciò egli grida, per chiamare l’anima assente e lontana dalla tomba.

– v. 44: Il morto è uscito, con i piedi e le mani avvolti in bende, e il volto coperto da un sudario.

            San Tommaso afferma che, in senso mistico, il morto rappresenta il peccatore, e il suo venir fuori si può dare in due modi:

1 – Attraverso il pentimento: dalla consuetudine del peccato viene fuori anzitutto con il pentimento, e torna allo stato di giustizia. Egli ha le mani ancora legate con le bende, cioè dalle concupiscenze carnali. Essendo tuttora nel corpo (prova anche che Lazzaro risorge alla vita carnale e non ancora alla gloria), i penitenti non possono ancora essere liberi dalle loro molestie dovute anche alle colpe passate. La copertura del volto mediante un sudario, indica che in questa vita non possiamo avere la piena conoscenza di Dio (cfr. 1Corinzi 13,12: adesso vediamo come mediante uno specchio, in enigma, allora vedremo a faccia a faccia).

2 – Il secondo modo di venir fuori è quello che si ha mediante la Confessione o Penitenza, di cui l’Aquinate fa una piccola digressione. Il morto che esce ancora legato è il penitente confesso, ma ancora reo di colpa. Perché si sciolga dai peccati viene dato ordine ai ministri di scioglierlo e di lasciarlo andare. Colui infatti che Cristo da sé risuscita interiormente, i discepoli sono poi chiamati a scioglierlo; perché i risuscitati vengono assolti dal ministero dei sacerdoti.[13] Cristo chiama coloro che lo aiutano a liberare il Risorto dai suoi vincoli, come una sorta di ministri, così come i nuovi Risorti sono assolti dal ministero dei sacerdoti.  

            «Lo stesso vale per la penitenza. Se uno infatti, prima dell’assoluzione del sacerdote è perfettamente contrito, ottiene la remissione dei peccati, avendo anche il desiderio di sottoporsi alle chiavi della Chiesa, senza di che non può esserci vera contrizione. Ma se prima la sua contrizione non era perfetta, e quindi insufficiente per la remissione dei peccati, egli conseguirà la remissione della colpa mentre riceve l’assoluzione, se non mette ostacolo allo Spirito Santo. Lo stesso si dica per l’eucarestia, per l’estrema unzione, e per tutti gli altri sacramenti».[14]

           

[1] Cosí A. Wikenhauser, L’Evangelo secondo Giovanni [Nuovo Testamento commentato IV; Morcelliana Brescia, 1959], 284.

[2] Cfr. R.E. Brown, Giovanni: Commento al vangelo spirituale, Cittadella, Assisi 19913, 540: “Un’aggiunta redazionale al piano del vangelo”.

[3] Oltre alla menzione del versetto iniziale, il sostantivo astratto ἀσθενεῖ (malattia) ricorre nella v. 4, e le forme verbali del verbo asthenéō, nella v. 2 in imperfetto, e nelle v. 3 e v. 6, nella forma attuale ἀσθενεῖ (astheneī).

[4] Brown afferma che è addirittura possibile, in qualche caso, trovare i tre nomi: Lazzaro, Maria e Marta, perfino insieme. Cfr. Giovanni, 560.

[5] Cfr. A. Wikenhauser, L’Evangelo, 284-85.

[6] Lc 10, 38-39: Mentre erano in cammino, Gesù entrò in un villaggio; e una donna, di nome Marta, lo ricevette in casa sua. Marta aveva una sorella chiamata Maria, la quale, sedutasi ai piedi di Gesù, ascoltava la sua parola. La menzione presenta entrambe le sorelle per la prima volta e apparentemente non mette in relazione Maria né con la Maddalena né con la peccatrice pubblica di Lc 7, 37-38, che lavò i piedi di Gesù con le sue lacrime nella casa di Simone il fariseo e li unse con il profumo, anche se la mancata menzione del nome di essa può obbedire a uno scopo preciso. I Padri non hanno identificato entrambe le donne fino a San Gregorio Magno.

[7] Brown presuppone che questo versetto sia una parentesi aggiunta da un curatore, poiché si usa il termine “Signore”, che Giovanni normalmente non utilizza in terza persona (cfr. Brown, Giovanni, 548). L’obiezione principale alla supposizione che si tratti di una revisione successiva si trova nella questione del perché, nella presunta formulazione finale, il curatore precisa che è stata Maria a ungere i piedi del Signore, senza rendersi conto che tale precisazione ha creato un’incoerenza cronologica chiaramente evidente nella formulazione finale.

[8] Combinare le cose divine con le cose umane in Gesù, senza confonderle, è l’intenzione degli evangelisti e del Vangelo stesso, perché è il modo più completo e certo di presentare il mistero del Verbo incarnato, che è il mistero di Gesù, su cui si basa la “Buona Novella”, ciò che significa il termine Vangelo. Essere scandalizzati dal fatto che molti episodi evangelici, in particolare i miracoli, sono spiegati perché Gesù è il Dio Incarnato, oltre che essere un atteggiamento assurdo, mostra una totale incomprensione del mistero di Gesù, come accade in diversi interpreti moderni, soprattutto quelli in favore della necessità di elaborare una teologia (diffusa) “dal basso” (cfr. X. de Aguirre, Tan hombre que es Dios: Jesús histórico, en los evangelios y entre nosotros; PPC, Buenos Aires 2015, 236).

[9] Cfr. Tommaso di Aquino, Commento al vangelo di San Giovanni (In evangelium Iohannis expositio), Città Nuova, Roma 1992, vol. II, XI, V, 266.

[10] Cfr. Tommaso di Aquino, Commento, 267-268.

[11] Cfr. S. J. Crisostomo, In Joannem, hom. 63,2 (PG LIX, 350-1); S. Agostino, In Ioannes Evangelio, tr. 49, 22; NBA 24, 992, citato da Aquino, Commento, 273.

[12] Cfr. Commento, 276.

[13] Cfr. Commento, 280.

[14] Aquino, Commento, 281.

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