AMICI DELLO SPOSO (Card. Marc Ouellet)

Card. Marc Ouellet, AMICI DELLO SPOSO: Per una visione rinnovata del celibato sacerdotale; ed. Cantagalli, Siena 2019; 223 pagine.

            Il cardinale prefetto della Sacra congregazione per i Vescovi, S.E.R. Marc Ouellet, ci regala un prezioso volumetto di recente pubblicazione, molto attuale sia tanto per l’opportunità che per l’importanza della tematica affrontata, con la quale cerca di realizzare uno studio approfondito e completo della problematica del celibato sacerdotale: Le sue fondamenta teologiche pastorali, la sua storia nella vita della Chiesa, sia orientale che occidentale, seguito da interessanti riflessioni spirituali dove non mancheranno degli encomi e delle raccomandazioni su questo prezioso dono della vita sacerdotale, consacrandolo a chi è regina e madre di ogni sacerdote cattolico, Maria Santissima.

            Non intendiamo fare una recensione del libro in senso proprio, pur se il volume lo meriterebbe. La nostra intenzione è quella di fermarci sull’esposizione dei due primi capitoli, che sembrano la base di tutta l’esposizione, nella quale intercaleremo dei nostri commenti e parafrasi su alcuni dei paragrafi più significativi.

1. Rinnovamento sacerdotale del nostro tempo

            L’esposizione di questo primo capitolo inizia con la distinzione fra il chiamato sacerdozio comune dei fedeli e quello ministeriale o gerarchico, citando a questo riguardo il Concilio Vaticano II che afferma: «Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro, poiché l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano dell’unico sacerdozio di Cristo» (Lumen Gentium, 10). Esistono così due modalità di sacerdozio, e tutte e due reali, restando però diverse nella loro essenza.

            Il sacerdozio di Cristo è opera della Trinità intera, perché Lui è l’inviato dal Padre che concede il dono dello Spirito Santo alla Chiesa, spirito la cui missione è continuare l’opera di Cristo in terra. Il sacerdozio di Cristo è divino – umano, come è anche il suo essere, poiché non costituisce una particolare attività come altre di Gesù, bensì la mediazione redentrice stessa della sua Persona incarnata la cui obbedienza fino alla morte sbocca nel dono dello Spirito Santo. È il sacerdozio di Cristo quello che riconcilia il mondo con Dio e che dona lo Spirito. Il sacerdozio di Cristo s’inscrive in questo dialogo trinitario come la mediazione centrale di comunione che costituisce la Chiesa e la indica alle nazioni come “segno” e “strumento” di salvezza [p. 28].

            Come si vive questo sacerdozio di Cristo nella Chiesa? Questo sacerdozio continua nella storia degli uomini, senz’altro, per opera dello Spirito Santo, ma in un altro modo, con una modalità propria, ecclesiale e sacramentale, universalizzando l’incarnazione di Cristo nell’Eucaristia (rendendo quest’Incarnazione più universale), e prolungandola nel Corpo della Chiesa. Questo lo fa, effettivamente, in modo sacramentale: La lettera agli Efesini dice che Cristo sposo “si è offerto per la Chiesa per santificarla, purificarla con il lavacro dell’acqua e della Parola” (cfr. Ef 5,25) [cfr. pp. 22-23]. Questa sentenza permette di vedere un riferimento al Battesimo e al sacerdozio comune di tutti i fedeli. L’opera più specifica di Cristo è però ancora più sublime, poiché consiste nel donarsi come vittima di espiazione, e questo lo fa attraverso l’Ordine Sacro e l’Eucaristia, donazione che si continua grazie al sacerdozio ministeriale.

            I pastori rappresentano Cristo Capo e sposo della Chiesa, agiscono in Persona Christi, in modo particolare attraverso la remissione dei peccati e l’offerta del Sacrificio eucaristico. I fedeli partecipano alla filiazione divina di Cristo; ricevono la vita nuova di Lui, la grazia, la filiazione adottiva. Il sacerdozio ministeriale invece, esprime la mediazione di Cristo in quanto egli rappresenta il Padre ed è il suo ministro, e come Gesù, non deve avere altro desiderio che quello di compiere la volontà del Padre [p. 35]. Per questo motivo – aggiungiamo noi -, il sacerdote ministeriale deve imitare la volontà di Gesù anche nei particolari, compresso la dedizione totale al Regno, e questo suppone e implica il dono del celibato.

            Da qui la differenza fondamentale che esiste fra i due tipi di sacerdozio, provenendo tutte e due, ad ogni modo, del sacerdozio di Cristo: Quello dei fedeli è filiale, procede dal basso, ed è ascendente, per opera dello Spirito. Quello ministeriale è paternale e discendente,perché effonde sul mondo lo Spirito del Padre, che vuole la Salvezza di tutti in Cristo. Oltre a dare una giustificazione del dono del celibato, questa distinzione aiuta pure a contrastare quella diffusa concezione dell’autorità e della gerarchia come ‘potere clericale’. Il sacerdozio ministeriale non è un potere clericale o terreno, consiste piuttosto nel vivere quella relazione di paternità con la quale il Padre ha mandato il Figlio nel mondo per santificarlo [cfr. pp. 36-37].

            L’esperienza mostra che laddove il sacerdozio dei battezzati e quello paterno dei ministri sono vissuti in comunione profonda e rispettosa, lo Spirito Santo si compiace di manifestarsi nel suo modo personale gratuito e libero nell’Amore attraverso un’abbondanza di carismi, effusi “per l’utilità comune”, in primo luogo, le vocazioni alla vita consacrata, che significano e abbelliscono la Chiesa sposa, accrescendo in conseguenza il suo dinamismo missionario[p. 38].

2. Celibato e legame nuziale: Sfide contemporanee

            Si richiama oggi da ogni parte la verità sul celibato sacerdotale. Lo si fa in nome della realizzazione personale dei preti, in nome della scienza storica e anche in nome della giustizia. I fenomeni di abbandono del ministerio sacerdotale a causa del celibato sono conosciuti da lungo tempo e sono trattati in generale con una certa discrezione non sempre ben interpretata (e credo poter io aggiungere: “dalle volte con molta poca serietà”).

            Gli scandali di grande risonanza pubblica di questi ultimi tempi hanno costretto la Chiesa ad un sincero esame di coscienza e ad un mutato argomento nei confronti della società in generale e soprattutto nei confronti di trattamento delle vittime di abusi [p. 43].[1] Sul versante pastorale, le crisi delle vocazioni e la drammatica situazione di certe comunità cristiane è stato un motivo per rimettere in questione l’opportunità di mantenere l’esigenza universale del celibato per i ministri della Chiesa latina.

            In aggiunta, correnti culturali di grande impatto affermano apertamente il loro rifiuto dell’etica sessuale cattolica ed anche il loro rifiuto della dottrina del celibato, perché, secondo la cosiddetta “teoria del Genere”, la differenza sessuale non sarebbe più che un artificio culturale senza fondamento in una natura umana universale. Si è così lontani dall’antropologia biblica dell’immagine di Dio che fonda la cultura occidentale.

            Ecco perché l’attuale crisi del celibato non è dunque una crisi morale o spirituale, è anche di natura antropologica. Si origina da una perdita del senso della nuzialità e della fecondità che va di pari passo con l’eclissi di Dio nella cultura.

            Le sfide culturali e pastorali ci costringono dunque ad un rinnovato esame delle ragioni del celibato sacerdotale. È importante conoscere i fondamenti biblici e patristici del valore di questo celibato, senza ignorare la questione dell’opportunità di mantenere l’esigenza universale per i preti della Chiesa latina (e certamente anche per i religiosi). Non basta oggi ripetere le antiche motivazioni di fondo; occorre innanzitutto restituire ai preti e ai candidati al sacerdozio l’entusiasmo che devono irradiare i ministri della Parola di Dio [pp. 44-45].

            La dissociazione dei carismi del sacerdozio e del celibato nella Chiesa latina non può essere giustificata semplicemente della difficoltà esistenziale dei preti a vivere un sacerdozio felice nell’attuale contesto, perché un tal motivo significherebbe un oblio della grazia di Dio ed una rinuncia davanti al compito di evangelizzare la cultura [p. 49].

3. La tradizione del celibato ecclesiastico: il suo valore e le sue sfide

            La tradizione ecclesiastica del celibato e della continenza dei chierici non è scaturita come una novità all’inizio del sec. IV, bensì come la conferma disciplinare di una tradizione, tanto in Oriente che in Occidente, che risaliva fino agli Apostoli.[2]

            Quando il Concilio di Elvira in Spagna stabilì nel 306 che i preti dovevano vivere obbligatoriamente la continenza perfetta, occorre comprendere che questa esigenza della Chiesa dei primi secoli incluse sia il celibato e la proibizione a risposarsi, sia la continenza perfetta per quelli che sono già sposati. La motivazione che spinse tale decisione non dipende in primo luogo dall’emergere dell’ideale cristiano della verginità, ma piuttosto dallo stesso esercizio del ministero apostolico.

            In effetti, le motivazioni espresse dai Padri fanno riferimento al servizio della Parola e al ministero della preghiera che richiedono da parte dei preti una testimonianza di purezza che va oltre la prospettiva cultuale veterotestamentaria. Il Concilio di Cartagine afferma, ad esempio: «Conviene che i santi vescovi e i preti di Dio, come i leviti, vale a dire coloro che sono al servizio dei divini sacramenti, osservino una continenza perfetta, al fine di poter ottenere in tutta semplicità ciò che essi domandano a Dio; ciò che insegnarono gli Apostoli, e ciò che l’antichità ha osservato; facciamo in modo, anche noi, di mantenerlo».[3] Questo decreto ha rivestito un ruolo storico importante per il mantenimento della tradizione del celibato ecclesiastico, specialmente nel Medioevo e nel Concilio di Trento.[4] [pp. 50-51].

                San Paolo argomenta forte in favore dello stato del celibe che si consacra alla predicazione in 1Cor 7,7, e così lo fa anche la tradizione. La 6°omelia sul Levitico di Origene è rilevante in questo argomento: «In permanenza davanti a Dio, per il popolo che gli è affidato, il ministro della Nuova alleanza non ha più piacere per la vita coniugale, più libertà per dedicarsi a ciò che distoglierebbe ormai le sue energie spirituali. Efrem, Girolamo, Ambrogio, Siricio, tutti gli avvocati della continenza del clero non faranno che ripetere, in altri termini, queste parole improntate dalla Scrittura».

            Il ministero della predicazione ottiene più efficacemente il suo effetto di conversione quando ha l’appoggio e la testimonianza personale e istituzionale del prete. Questi sono testimoni del ministero escatologico di Gesù Cristo con il loro radicale coinvolgimento alla sequela che include, secondo i Padri, la pratica della continenza perfetta anche nel caso che siano sposati: «Se i testi scritturistici non permettono di per sé di sapere quale fosse il genere di vita degli Apostoli all’indomani della loro vocazione, i Padri, loro, sono stavolta unanimi nel dichiarare che quelli tra di essi che potevano essere stati sposati hanno in seguito posto fine alla vita coniugale e praticato la continenza perfetta» [pp. 52-53].

            Anche nei tempi di abusi o contro-testimonianze, la Chiesa ha confermato la tradizione e proceduto in riforme grazie all’aiuto di santi riformatori che sono stati sorgenti di rinnovamento spirituale e di espansione missionaria. La professione dei consigli evangelici in molteplici comunità religiose e monastiche e religiose ha allora servito da sprone per mantenere malgrado tutto l’ideale del celibato sacerdotale, anche presso il clero secolare. Nel concilio di Trento, contro le opinioni dei Riformatori (sezione 24, can. 9-10), viene sancito l’obbligo per il clero, confermato dopo da concili, Papi e documenti posteriori (come la Presbyterorum Ordinis, 16 del Conc. Vaticano II) [p. 55].

            San Paolo VI, nella Sacerdotalis Celibatus, 49, ha pure affermato: «Non si può senza riserve credere che con l’abolizione del celibato ecclesiastico crescerebbero per ciò stesso, e in misura considerevole, le sacre vocazioni: l’esperienza contemporanea delle chiese e delle comunità ecclesiali che consentono il matrimonio dei propri ministri sembra deporre al contrario. La causa della rarefazione delle vocazioni sacerdotali va ricercata altrove, principalmente, per esempio, nella perdita o nella attenuazione del senso di Dio e del sacro negli individui e nelle famiglie, della stima per la chiesa come istituzione di salvezza, mediante la fede ed i sacramenti, per cui il problema deve essere studiato nella sua vera radice» [p. 56].      


[1] Queste sono parole del proprio autore, il cardinale Ouellet, senza dubbio molto sensate. Vorremo comunque aggiungere qualche chiarimento: Questo tipo di problemi è comunemente ed erroneamente associato con il celibato, dimenticando che la Chiesa ha fatto molto per mettere rimedio (sia già da parte dei vescovi americani, sia dagli stessi pontefici, San Giovanni Paolo II prima e Benedetto XVI dopo, pur soffrendo, da una buona parte dei media e di certi ambienti, l’incomprensione e disprezzo contra tali sforzi).

[2] Marc Ouellet, Amici dello sposo: Per una visione rinnovata del celibato sacerdotale; ed. Cantagalli Siena 2019, 50. In nota 15, cita al riguardo le opere di C. Cochini, Les origines apostoliques du célibat sacerdotal, Paris 1981; H. Crouzel, Le célibat et la continence ecclésiastique dans l’Eglise primitive: leurs motivations, in J. Coppens, (a cura di), Sacerdote et celibat. Etudes historiques et theologiques; Louvain 1971, 333-371.

[3] Conc. Cartagine (390) [CC 149, p.13], citato da Cochini, op.cit., 25.

[4] Questa controversia si riprese in Germania alla fine del sec. XIX, con Funk che contestava l’origine apostolica del celibato mentre Bickell la difendeva (informazione su detta controversia la si può trovare in un articolo del p. Cornelio Fabro, intitolato Attualità e crisi del celibato nel mondo contemporaneo, nel volume: L’avventura della teologia progressista, Opere complete 26; EDIVI, Segni 2014; 195-203).

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