DITTATURE DEL RELATIVISMO VECCHIE e NUOVE: Proporzionalismo e consequenzialismo attuale nella morale cattolica
- Introduzione
Nella storia della riflessione e del pensiero, ci sono stati molti posizioni che hanno cercato di giudicare la moralità (dichiarare buono o cattivo) di un atto umano, pur se sembrano due quelle che si distinguono e riassumono le altre. Tutte le posizioni accettano l’accordare una certa – o grande – importanza all’intenzione dell’agente, vale a dire, della persona che compie tale atto, e tutte concordano anche nel concedere una buona importanza alle circostanze che lo circondano o condizionano, circostanze che possono essere diverse e possono influenzarlo, sia per il bene, o per il male. In quest’ultimo caso, renderlo più o meno grave, più o meno volontario, o perfino modificarlo nel suo significato più profondo.
Le due correnti di cui parliamo differiranno, nonostante, in un punto capitale: o si afferma che l’atto umano, di per sé, ha una certa moralità (è buono o cattivo), indipendentemente da qualsiasi intenzione o circostanza che attuano su di esso, o si afferma che la sua moralità dipende da fattori estrinseci, sebbene siano in qualche modo intrinseci al soggetto che l’esecuta (come l’intenzione del agente, ad esempio, che può essere accompagnata da circostanze o da una certa valutazione generale di fattori diversi, che determinano se l’atto qualifica come buono o meno). La prima posizione è stata l’eredità lasciata dalla maggior parte dei pensatori e teologi cattolici per secoli, raggiungendo la sua formula più matura in Tommaso d’Aquino, e riconosciuta ufficialmente dal Magistero in documenti come il Catechismo della Chiesa Cattolica.[1] La seconda è stata sbozzata da vari autori, molti non cattolici, anche se ultimamente, a partire dalla seconda metà del XX secolo, da numerosi moralisti cattolici che sono ancora molto studiati e seguiti in numerosi seminari e facoltà cattoliche, e le loro idee sono profondamente radicate nel pensiero morale di molte persone consacrate, vescovi e cardinali compresi. È impossibile non vedere l’opposizione fra questa posizione e il Magistero ecclesiastico permanente.
- La morale cattolica sull’atto umano
La Tradizione etica (filosofica o teologica) cattolica, ha sempre affermato l’esistenza di atti che, indipendentemente dalle intenzioni di chi agisce e dalle circostanze che si verificano, sono sempre e ovunque cattivi o ingiusti (intrinsece; specie sua). La tradizione risale alla fonte primordiale, la Sacra Scrittura. Nell’Antico Testamento, per ben due volte si espongono i comandamenti, in modo assoluto e senza dare luogo a interpretazioni diverse.[2] Lo stesso Gesù Cristo ha ridato valore ai comandamenti mosaici, li interiorizzò nel discorso della Montagna (Mt 5-8), e li riassunse nel supremo comandamento dell’amore a Dio e al prossimo (Mt 12, 28-34). Da parte sua, San Paolo afferma categoricamente che chi commettono certi tipi di atti – senza menzionare l’intenzione – non potranno entrare nel regno di Dio.[3]
La tradizione patristica raccoglie questo insegnamento: «Se poi si tratta di opere che di per se stesse sono peccato (cum iam opera ipsa peccata sunt) – scrive Sant’Agostino -, come il furto, lo stupro, la bestemmia e così via, chi mai oserà dire che le si possa compiere per una giusta causa (bonis causis), ottenendo che esse non siano più peccato o, quel che è più assurdo, supponendo che possano essere peccati onesti e legittimi?».[4]
San Tommaso di Aquino è anche molto chiaro al riguardo: “Certe azioni e passioni implicano malizia per il loro stesso nome, come il godimento del male, la spudoratezza e l’invidia. Nelle operazioni: adulterio, furto, omicidio. Bene, tutti questi atti e altri simili sono mali in se stessi e non solo per il loro eccesso o difetto. Perciò, in riferimento ad essi, non capita a nessuno di essere giusto qualunque sia il modo di compierli, ma sempre commetterà un peccato nel compierli …”.[5] Nella Summa Teologica, dimostrerà che la moralità delle azioni umane si determina soprattutto per il suo oggetto, essendo proprio questo quello che verifica l’“entità” della azione (che abbia la sua debita “pienezza di essere”), donandogli – o togliendogli – la sua forma propria.[6]
Il Magistero ha seguito alla lettera questa dottrina sulla determinazione della moralità dell’atto umano. Abbiamo ormai citato il n. [1750] del Catechismo della Chiesa Cattolica, ed ecco una bellissima conclusione dallo stesso catechismo: «È quindi sbagliato giudicare la moralità degli atti umani considerando soltanto l’intenzione che li ispira, o le circostanze (ambiente, pressione sociale, costrizione o necessità di agire, ecc.) che ne costituiscono la cornice. Ci sono atti che per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze e dalle intenzioni, sono sempre gravemente illeciti a motivo del loro oggetto; tali la bestemmia e lo spergiuro, l’omicidio e l’adulterio. Non è lecito compiere il male perché ne derivi un bene».[7]
La parola definitiva è stata data dalla meravigliosa enciclica Veritatis Splendor di San Giovanni Paolo II. In essa, lasciando pure in chiaro il valore delle circostanze e delle intenzioni, si profila palesemente che la priorità l’avrà la determinazione che viene dallo stesso oggetto: «Sono gli atti che, nella tradizione morale della Chiesa, sono stati denominati “intrinsecamente cattivi” (intrinsece malum): lo sono sempre e per sé, ossia per il loro stesso oggetto, indipendentemente dalle ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze. Per questo, senza minimamente negare l’influsso che sulla moralità hanno le circostanze e soprattutto le intenzioni, la Chiesa insegna che “esistono atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti, in ragione del loro oggetto”».[8]
Dobbiamo pertanto essere molto attenti nell’affermare che non esista imputabilità morale, su un’azione oggettivamente negativa, solo a causa di determinate intenzioni e circostanze. È stato frequentemente citato il seguente paragrafo del Catechismo: «L’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere sminuite o annullate dall’ignoranza, dall’inavvertenza, dalla violenza, dal timore, dalle abitudini, dagli affetti smodati e da altri fattori psichici oppure sociali».[9] Estraneamente – pur se convertito in una tattica comune – non vengono citati gli immediati numeri anteriori e posteriori rispettivamente, vale a dire, il suo contesto: «La libertà rende l’uomo responsabile dei suoi atti, nella misura in cui sono volontari. Il progresso nella virtù, la conoscenza del bene e l’ascesi accrescono il dominio della volontà sui propri atti». «Ogni atto voluto direttamente è da imputarsi a chi lo compie».[10] Il contesto indica che il riferimento è agli atti volontari dell’uomo – elemento che lo costituisce propriamente come atto umano -. Il numero [1735] si riferisce ai casi nei quali la volontarietà si vede diminuita o perfino può non esistere (da notare che l’ignoranza e l’inavvertenza sono collocate come le due prime cause; le altre sono di carattere piuttosto coercitivo). Questo numero solo contempla i casi nei quali l’atto non riesce a essere volontario o pienamente voluto. Il numero [1736] ricorda che, se l’atto è stato moralmente voluto, è imputabile, e da ciò si segue che l’atto ha in se stesso una moralità.
È solito citarsi il n. [2352], pur se anche esso fuori di contesto: «Al fine di formulare un equo giudizio sulla responsabilità morale dei soggetti e per orientare l’azione pastorale, si terrà conto dell’immaturità affettiva, della forza delle abitudini contratte, dello stato d’angoscia o degli altri fattori psichici o sociali che possono attenuare, se non addirittura ridurre al minimo, la colpevolezza morale». Il paragrafo è stato tagliato, poiché la parte principale di quel numero si riferiva alla masturbazione, qualificandolo come un disordine morale, “un atto intrinseco e gravemente disordinato”. Vi sono circostanze che possono ridurre o perfino annullare la volontarietà, pur se ci deve essere la certezza, in quest’ultimo caso, che veramente l’annullino. Ciò si risolve nella soggettività della persona, che la rende più o meno responsabile. Ma quelle circostanze non cambiano la qualificazione morale dell’atto, e tanto meno per le persone sane, che godono di almeno una capacità media di avvertirlo ed eseguirlo. Questo è il punto.
- Teorie proporzionaliste e consequenzialiste. Risposta del Magistero
La negazione degli atti ‘intrinsece mali’ si radica nel finalismo di Pietro Abelardo (s. XII), nel volontarismo di Scoto (tra i sec. XIII e XIV), nel nominalismo di Ockham (s. XIV) e più direttamente nell’utilitarismo anglosassone di Bentham e Stuart Mill. Tutte queste teorie sono allacciate tra loro per la negazione degli assoluti morali o atti intrinsecamente cattivi (per loro nessun atto è in se stesso buono o cattivo), tuttavia differiscono per i criteri su cui fondano il giudizio morale. Il teleologismo fa dipendere la bontà/malizia di un’azione unicamente dal suo fine; il consequenzialismo dalle sue conseguenze prevedibili e calcolabili; il proporzionalismo dal rapporto tra il bene e il male che derivano da un’azione, secondo un calcolo tecnico.[11]
Gli elementi in comune di tutte queste teorie sono cinque: 1°) Non ci sono azioni che siano in se stesse buone o cattive; 2°) l’ordine strettamente morale consiste nel rispetto di certi valori trascendenti e universali (amore verso Dio, benevolenza nei confronti del prossimo, giustizia, ecc.). I nostri atti singolari e concreti, invece, si svolgono in un ordine pre-morale; 3°) il giudizio morale su un’azione si basa in primo luogo sulla fedeltà della persona ai valori universali e, in secondo luogo, sulla valutazione e ponderazione “responsabile” delle diverse conseguenze che si derivano, e sulla “responsabile” scelta soggettiva di quell’azione che qui e ora si ritiene come la moralmente più adeguata; 4°) qualsiasi atto può essere ritenuto buono se produce effetti buoni che lo provano (consequenzialismo) o una ragione sufficientemente forte da giustificarlo (proporzionalismo); 5°) il postulato da questi autori può riassumersi nella speranza di fare tanto bene quanto possibile e il minor male necessario (rifiutando il primo principio morale: “fa’ il bene e evita il male”).[12]
La Veritatis Splendor ci poneva ormai in allerta sulle conseguenze di tali dottrine: «In un mondo in cui il bene sarebbe sempre mescolato al male ed ogni effetto buono legato ad altri effetti cattivi, la moralità dell’atto si giudicherebbe in modo differenziato: la sua bontà morale sulla base dell’intenzione del soggetto riferita ai beni morali e la sua giustezza sulla base della considerazione degli effetti o conseguenze prevedibili e della loro proporzione. Di conseguenza, i comportamenti concreti sarebbero da qualificarsi come giusti o sbagliati, senza che per questo sia possibile valutare come moralmente buona o cattiva la volontà della persona che li sceglie. In questo modo, un atto, che ponendosi in contraddizione con una norma universale negativa viola direttamente beni considerati come pre-morali, potrebbe essere qualificato come moralmente ammissibile, se l’intenzione del soggetto si concentra, secondo una responsabile ponderazione dei beni coinvolti nell’azione concreta, sul valore morale giudicato decisivo nella circostanza».[13]
Il proporzionalismo/consequenzialismo fu sollevato e difeso dai cosiddetti “teologi del dissenso” (dissenso con gli insegnamenti del Magistero), i quali sostenevano fondamentalmente che il fedele cattolico non aveva bisogno di adattare la sua coscienza agli insegnamenti della Chiesa se considerava di avere ragioni per non farlo. I cattolici dovrebbero considerare gli insegnamenti della Chiesa soltanto come un’opinione. Oppure affermano che ogni persona può e deve decidere personalmente e responsabilmente secondo la propria coscienza (anche contro gli insegnamenti espliciti della Chiesa) se un determinato atto è consentito o addirittura obbligatorio per salvaguardare grandi beni o evitare mali maggiori che non si otterrebbero con l’atto opposto. In molti manuali di teologia morale che hanno circolato da decenni (e circolano tutt’ora) in seminari e centri di teologia superiore, il dissenso rispetto del Magistero è presentato come un fatto e un diritto della speculazione teologica. Così, per esempio, Bernard Häring parla del “ministero profetico del dissenso nella Chiesa”.[14]
L’enciclica di San Giovanni Paolo II dava anche la parola definitiva su queste correnti morali e sul dissenso del Magistero: «È da respingere quindi la tesi, propria delle teorie teleologiche e proporzionaliste, secondo cui sarebbe impossibile qualificare come moralmente cattiva secondo la sua specie — il suo «oggetto» — la scelta deliberata di alcuni comportamenti o atti determinati prescindendo dall’intenzione per cui la scelta viene fatta o dalla totalità delle conseguenze prevedibili di quell’atto per tutte le persone interessate».[15]
- Il relativismo in morale
Gli ultimi anni hanno visto la rinascita di un nuovo relativismo, specialmente nella seconda decada di questo nuovo secolo e in quasi tutti gli ambiti della teologia. Benedetto XVI aveva molte volte parlato sulla “dittatura del relativismo”, espressione che è stata ancora sollevata più di una volta, anche dall’attuale papa Francisco, almeno all’inizio del suo pontificato. È essenziale sapere bene cosa si intendesse originariamente con quel termine.[16] Il Papa Benedetto faceva concretamente riferimento alla connessione, tra la presunta tolleranza e l’apertura professate da molte persone contrarie alla fede e alla morale, e i potenti mezzi che usano ora per imporre tale prospettiva agli altri, essendo che all’inizio sollevavano la bandiera della libertà di dissenso. Questo è stato il caso del cosiddetto matrimonio omosessuale, della prospettiva o teoria del gender, dell’aborto. Ma ci sono segni che mostrano che tale dittatura si è installata anche nella Chiesa.
La posizione di tanti vescovi tedeschi è molto eloquente in questo senso. Sono state famose le dichiarazioni del cardinale Reinhard Marx, di Monaco, che poco prima del Sinodo sulla famiglia dell’anno 2015, dichiarava, in un’intervista, che “non siamo una filiale di Roma e non sarà un Sinodo a dirci cosa fare in Germania”[17], e tornava ancora a ripeterlo in marzo 2019, con occasione dell’indizione del sinodo per la chiesa germana, ogni volta meno popolata dei fedeli.[18] È curioso, ad esempio, che una serie di cardinali e teologi alzino la voce per dissentire in un sinodo ma poi siano disposti a non accettarne le conclusioni, non soltanto se questi sono contrari ma anche se non sono così favorevoli alle loro posizioni come ritengono che dovrebbero essere.
A partire dagli ultimi due sinodi sulla famiglia, lo straordinario di ottobre 2014 e l’ordinario di ottobre 2015, la voce di questi teologi del dissenso sembrò di alzarsi come mai prima. Fino a quel momento, il suo atteggiamento è diventato permanente “in crescendo”. Fin al momento attuale, riteniamo che il punto più alto sia stato raggiunto dall’ “Instrumentum laboris” dell’assemblea speciale del Sinodo dei vescovi per la regione Pan Amazzonica, del 17 giugno 2019 (il Sinodo si terrà tra i giorni 6 e 27 ottobre dell’anno in corso). Lo strumento solleva una serie di problemi in aperta contraddizione con l’insegnamento di tutti i tempi, oltre a criticare bruscamente, e senza discernimento, tutto il lavoro di evangelizzazione effettuato in passato, in particolare l’evangelizzazione dell’America. È molto probabile che coloro che hanno preso l’iniziativa siano stati incoraggiati dall’atteggiamento piuttosto ambiguo dell’autorità della Chiesa, che avrebbe dovuto essersi pronunciata, negli ultimi anni, in modo molto più chiaro.
- Un caso concreto di dibattito
a) Dichiarazioni magisteriali soggette o meno a interpretazione:
Il 19 marzo 2016 è stata pubblicata l’esortazione apostolica post-sinodale Amoris Laetitia, ovviamente firmata da Papa Francesco, che sintetizza ed espone le nuove linee elaborate e maturate in entrambi i sinodi per la famiglia. Il documento è un’esortazione apostolica, il che significa che non si riferisce a questioni dottrinali ma pastorali. Questo è ciò che lo stesso documento afferma più di una volta e ciò che molti commentatori hanno interpretato. Il Pontefice esorta, incoraggia i fedeli a comportarsi in un certo modo.[19]
Nella proverbiale enciclica Humani Generis del papa Pio XII si affermava il seguente: «Né si deve ritenere che gli insegnamenti delle Encicliche non richiedano, per sé, il nostro assenso, col pretesto che i Pontefici non vi esercitano il potere del loro Magistero Supremo». Nello stesso numero si aggiunge che la ragione è perché si tratta di insegnamenti del Magistero ordinario, e perché quello che in esse (encicliche) viene insegnato appartiene al patrimonio della dottrina cattolica (si menzionano pure le ‘costituzioni’, ma niente altro). Insiste ancora: «Se poi i Sommi Pontefici nei loro atti emanano di proposito una sentenza in materia finora controversa, è evidente per tutti che tale questione, secondo l’intenzione e la volontà degli stessi Pontefici, non può più costituire oggetto di libera discussione fra i teologi».[20] È chiaro che questa posizione definitiva deve essere applicata alle encicliche dei Sommi Pontefici, perfino a quelle che abbiano potuto suscitare più dibattiti o produrre più reazioni, come è il caso della proverbiale Castti Connubbi, di P. Pio XI (1930); l’Humanae vitae, di San Paolo VI (1968); la Veritatis Splendor (1993) e l’Evangelium vitae (1995), di San Giovanni Paolo II.[21]
L’Amoris Laetitia ha degl’interi capitoli dedicati alla riscoperta del valore dell’amore dei coniugi nella sfera matrimoniale, come il capitolo IV (nn. 90ss.), dove l’amore è descritto con grande bellezza seguendo l’inno alla Carità di 1 Corinzi 13. È anche vero che la stessa esortazione ci avverte fin dall’inizio, nel n. 3: «Non tutte le discussioni dottrinali, morali o pastorali devono essere risolte con interventi del magistero. Naturalmente, nella Chiesa è necessaria una unità di dottrina e di prassi, ma ciò non impedisce che esistano diversi modi di interpretare alcuni aspetti della dottrina o alcune conseguenze che da essa derivano». Credo che sia chiaro lo scopo (dell’esortazione) di lasciare aperta la possibilità di interpretazioni diverse o addirittura, di formulare chiarimenti e di non voler presentare una parola definitiva del Magistero su tali questioni morali o pastorali, oltre a quelle già risolte da precedenti documenti di maggior peso dottrinale.
Forse il capitolo che più dibattito ha suscitato, nell’ambito dell’esortazione in questione, è stato il capitolo 8, intitolato: “Accompagnare, discernere e integrare la fragilità”, dove si toccano argomenti come: “Gradualità nella pastorale” (affermando espressamente che la legge della gradualità non è una ‘gradualità nella legge’), il discernimento delle situazioni dette “irregolari”; tutte questioni di ordine pastorale, come può osservarsi. Ci sono state delle interpretazioni di Amoris Laetitia, sempre all’interno della libertà che la stessa costituzione consente e incoraggia, totalmente in conformità con il precedente magistero, osservando che detto documento “non sembra voler dare comandi ma solo consigli”.[22]
b) I ‘dubia’ dei cardinali e il loro fondamento:
Il 19 settembre 2016, cinque cardinali della Chiesa cattolica scrivevano una lettera – molto rispettosa tra l’altro – a Papa Francesco, chiedendogli di chiarire cinque punti dell’esortazione apostolica post-sinodale Amoris Laetitia. Dicevano di essere spinti da una seria preoccupazione pastorale, costatando la confusione causata in vari fedeli. I cardinali riferiscono di aver scritto al Papa e al prefetto della Congregazione per la dottrina della Fede, il cardinale tedesco Gerhard Müller, in un atto che consideravano “di giustizia e carità”, di accordo con il diritto canonico e in conformità con la missione di collaborare con il ministero petrino. I cardinali indicheranno, più di un mese dopo, che “il Santo Padre ha deciso di non rispondere alla lettera, decisione sovrana sua che hanno interpretato come un invito a continuare la riflessione e discussione, pacata e rispettosa”. Ecco perché, verso il 14 novembre, hanno reso noto questo contenuto a tutto il popolo di Dio (noto come dubia: “dubbi”) offrendo anche tutta la documentazione a questo riguardo. La lettera era firmata da due cardinali tedeschi: Walter Brandmüller e Joachim Meisner; l’italiano Carlo Caffarra e l’americano Raymond Burke.[23] Si riferivano ai numeri dal 301 a 305 dell’esortazione apostolica, che hanno il titolo: “Le circostanze attenuanti nel discernimento pastorale”.
È vero che il principale interrogativo sull’Amoris laetitia è stato quello riguardante il numero 305, completato con la nota in piedi pagina n. 351. In effetti, il primo dei dubia fa riferimento a quel punto, sebbene la stessa formulazione della domanda posta dai cardinali avvertiva che: “La nota 351, mentre parla specificatamente dei sacramenti della penitenza e della comunione, non menziona i divorziati risposati civilmente in questo contesto e neppure lo fa il testo principale”. Lo stesso segnalavano moralisti importanti al riguardo.[24]
Si può dire quindi, che il testo non richiede assolutamente che il sacramento dell’Eucaristia venga impartito alle coppie che vivono in una situazione irregolare, ad eccezione delle condizioni già stabilite nei documenti precedenti.[25]
Non cercheremo di analizzare questa prima domanda, benché abbia acquisito maggiore rilevanza. Siamo più interessati a concentrarci su alcune altre, più in rapporto con il problema che stiamo affrontando, in particolare sui ‘dubia’ 2, 3 e 4. Il primo (2) e l’ultimo (4) versano sul paragrafo 304 dell’esortazione. Quello del mezzo (3) sul paragrafo 301.
- Analisi di certi paragrafi
a) Il numero 301 dell’esortazione:
Il paragrafo 301 dell’esortazione afferma: «La Chiesa possiede una solida riflessione circa i condizionamenti e le circostanze attenuanti. Per questo non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante». Il dubbio proposto dai cardinali domanda “se sia possibile ancora affermare che una persona che vive abitualmente in contraddizione con un comandamento della legge di Dio, come ad esempio quello che proibisce l’adulterio (cfr. Mt 19, 3-9), si trova in situazione oggettiva di peccato grave abituale”,[26] chiarendo che “peccato grave” dev’essere compreso oggettivamente, dato che il ministro dell’Eucarestia non ha mezzi per giudicare l’imputabilità soggettiva della persona. I cardinali dicono di fondamentare quel dubbio in una dichiarazione del Pontificio consiglio per i testi legislativi, dichiarazione del 24 giugno 2000, dove si affermava che “Non siano ammessi alla sacra comunione (quelli che…) ostinatamente perseverano in peccato mortale manifesto” (fondamentata anche nel c. 915 del CIC).[27] La stessa dichiarazione afferma che si applica anche alle persone divorziate riunite con un’altra persona, tranne il fatto che si decidano di vivere in astinenza, e che si capisce sempre la loro situazione in modo obiettivo, perché dall’interno solo Dio giudica.
Vi sia noto che, sebbene il paragrafo 301 sia applicato alla questione delle persone divorziate e riunite in nuova coppia, la loro pretesa è molto più universale, poiché sentenza che “non è più possibile affermare che coloro che vivono in una situazione ‘irregolare’, stiano in peccato mortale”. Una sentenza di tale sorta ci lascia praticamente senza elementi per determinare se vi esista una situazione di grave peccato in innumerevoli casi, compresi quelli che ricorrono abitualmente alla semplice fornicazione senza divorzio.
Aggiunge l’esortazione: «I limiti non dipendono semplicemente da una eventuale ignoranza della norma. Un soggetto, pur conoscendo bene la norma, può avere grande difficoltà nel comprendere “valori insiti nella norma morale” o si può trovare in condizioni concrete che non gli permettano di agire diversamente e di prendere altre decisioni senza una nuova colpa. Come si sono bene espressi i Padri sinodali, “possono esistere fattori che limitano la capacità di decisione”». In realtà, la stragrande maggioranza dei limiti indicati all’inizio (coppie in una situazione irregolare) sono dovuti a una mancanza di conoscenza (ignoranza) della norma, totale o parziale, che include, quindi, i “valori inerenti alla norma”. In ogni caso, quest’ultima frase è tratta da Familiaris Consortio (n. 33), dove si parla delle “difficoltà che esperimentano i coniugi cristiani”, in riferimento a quelli sposati regolarmente. Il contesto è dunque, ben diverso. È vero che, pur in quelli casi, ci possono essere sempre difficoltà per comprendere o persino per prendere decisioni; ma sappiamo Dio non nega la sua grazia a coloro che l’implorano umilmente, pur di fronte alla necessità di prendere decisioni eroiche, che in un certo momento possono costituire l’unica soluzione, come spesso accade nella vita. Sembra che il paragrafo 301 confonda e immischi il piano oggettivo con quello soggettivo, quello cognitivo (conoscere la norma), con quello volitivo (prendere decisioni).
Nel paragrafo seguente, è citato anche Tommaso di Aquino: «Già san Tommaso d’Aquino riconosceva che qualcuno può avere la grazia e la carità, ma senza poter esercitare bene qualcuna delle virtù»[28], ma il modo in cui viene citato sembra voler ciò che lo stesso testo di San Tommaso dà come presupposto: sta chiaramente parlando di qualcuno che vive ormai in uno stato di grazia (“avere la grazia e la carità”), che quindi ha l’abito delle virtù morali infuse, sebbene a volte può sperimentare qualche difficoltà in praticarle, per causa dell’influsso di atti passati. Non sta affatto parlando di coloro che devono ancora decidersi per uscire da una situazione di peccato grave, ovviamente sempre compresa in modo oggettivo.
Sembra che la radice di questo permanente immischiarsi dei piani si trovi nella prima affermazione, sempre del n. 301, di che “non è più possibile affermare che (…) stiano in peccato mortale”, senza introdurre altra distinzione, mentre che nel n. 302 si dice invece: «un giudizio negativo su una situazione oggettiva non implica un giudizio sull’imputabilità o sulla colpevolezza della persona coinvolta». Quest’ultima affermazione è sempre stata insegnata dalla teologia cattolica, ma supponendo propriamente la distinzione tra il piano o livello oggettivo e quello soggettivo, ciò che il n. 301 sembra implicitamente negare.[29]
b) Il n. 304 dell’esortazione:
Inizia del seguente modo: «È meschino soffermarsi a considerare solo se l’agire di una persona risponda o meno a una legge o a una norma generale, perché questo non basta a discernere e ad assicurare una piena fedeltà a Dio nell’esistenza concreta di un essere umano», e più avanti ancora: «È vero che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari». Se prendiamo insieme entrambe le frasi, deduciamo che la norma è sempre qualcosa da considerare (“presentano un bene”), sebbene essa non possa coprire tutti i casi, essendo meschino diventare un inquisitore di ogni caso particolare, per vedere – come unico scopo – se si adatta o meno a quella norma. Questo è vero, senza dubbio.
Il paragrafo prosegue: «ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma. Questo non solo darebbe luogo a una casuistica insopportabile, ma metterebbe a rischio i valori che si devono custodire con speciale attenzione». Diciamo anche che l’affermazione, presa come tale, è corretta, poiché non si tratta mai di stabilire una norma di discernimento pratico a partire di un caso particolare. Ma il dubito sollevato dai cardinali (n. 2) domandava se “continuava a essere valido l’insegnamento della Chiesa circa l’esistenza di norme morali assolute, valide senza eccezioni, che proibiscono atti intrinsecamente cattivi”, come insegnato nel n. 79 di Veritatis Splendor. Lì si insegnava che esistono scelte o azioni oggettivamente sbagliate indipendentemente dall’intenzione o dalle circostanze con cui sono state realizzate, contrariamente a quanto affermano il proporzionalismo e il consequenzialismo. Il numero 81 della menzionata enciclica (era il dubbio n. 4), affermava che, in conseguenza: «le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto soggettivamente onesto o difendibile come scelta». In altre parole, un atto che trasgredisce i comandamenti di Dio, come l’adulterio, il furto, lo spergiuro, non può mai diventare scusabile o anche buono, pur considerando l’intenzione o le circostanze che mitigano la responsabilità personale. In questi casi, il discernimento di intenzioni e circostanze può servire solo a scopi pastorali, per aiutare le persone che, per una ragione o per l’altra, possono aver fatto cose simili per alcuni motivi attenuanti della loro responsabilità, ma non possono trasformare un atto malo per il suo oggetto in giustificabile, o addirittura buono. Non si può chiamare bene il male o viceversa.
L’esortazione continua citando San Tommaso applicando un suo principio, utile nel discernimento pastorale: «in campo pratico non è identica la verità o norma pratica, rispetto ai casi particolari, ma soltanto rispetto ai principi comuni: e anche presso quelli che accettano nei casi particolari un’identica norma pratica, questa non è ugualmente conosciuta da tutti» (nell’esortazione tradotto di un modo molto più libero).[30] Come principio di discernimento pratico è davvero molto utile. Aquino parla in quell’articolo della legge naturale, i cui principi pratici non sono sempre ben noti a tutti gli uomini, e quindi l’applicazione concreta potrebbe fallire. È proprio per questo motivo che soprattutto il ministro di Dio (o un’altra persona adatta) dovrebbe essere in condizione di poter illuminare i fedeli sui casi particolari con prudenza soprannaturale, in cui dovrebbe eccellere, per informare se “qui e ora” (hic et nunc) questo atto può essere fatto o no. Ma mai chiamando bene il male o viceversa.
- Valutazione finale
La presentazione che abbiamo fatto di alcuni paragrafi di Amoris Laetitia e dei dubia dei cardinali, è stata fatta solo per evidenziare come le formulazioni ambigue di alcuni testi autorevoli possano generare grande confusione e, soprattutto, aprire le porte a posture che erano già state qualificate come sbagliate. Crediamo, in particolare, che il relativismo in morale (rappresentato soprattutto dal proporzionalismo e dal consequenzialismo), che oggi sembra risorgere, porta a due estremi indesiderati:
– a) Il fine riesce a giustificare i mezzi utilizzati, identificando lo stesso fine – in questo caso – con l’intenzione dell’agente o la valutazione di insieme di tutte le circostanze, le quali potrebbero condurre a giustificare azioni che dovevano essere, di per sé, sempre condannabili (specialmente nei casi più gravi menzionati), senza che nessuno sia in grado di dire una parola al riguardo almeno per la correzione del trasgressore. A tal fine, si torna invece necessario che vi siano norme che legiferano perfino delle azioni concrete, come sono ad esempio i comandamenti (“non uccidere, non rubare, non fornicare”), per specificare in modo semplice quali sono le azioni che in nessun modo possono essere eseguite.
– b) Il proporzionalismo e il consequenzialismo (ogni relativismo morale, in genere), finiscono per diventare essi la norma (pur se fingono di disprezzarla), perché non consentono alcun giudizio concreto sull’oggettività di qualsiasi azione, confondendo inoltre questo giudizio con il giudizio sull’intenzione della persona, proprio perché mescolano l’intenzione soggettiva con l’oggetto dell’atto umano.
Sebbene molti teologi cattolici moderni sostengano che una ideologia come quella del gender, ad esempio, sia condannabile, e implichi un colonialismo culturale – il che è vero – dovrebbero perfino giustificarla in alcuni casi se si impegnano in essere proporzionalisti, perché esisterebbero situazioni in cui, date le circostanze, una persona potrebbe giustificare espliciti atti omosessuali, e semplicemente perché ci sono fattori che limitano la loro capacità di decidere, o perché possiedono abitudini già contratte o perché le conseguenze non sono sempre le stesse. Ma tutto ciò farebbe parte dei “limiti che si devono accettare, anche se non è ancora l’ideale completo”. Nessuno contesta che molte di queste considerazioni possano aiutare una persona a pentirsi sinceramente dell’azione intrapresa, a condizione che sia capace di riconoscerla come oggettivamente cattiva o disordinata e cerchi sinceramente di non farla nuovamente.
La Sacra Scrittura ci insegna, in diverse occasioni, che Dio fornisce sempre chiarezza riguardo alla conoscenza di ciò che è giusto e sbagliato, includendo persino l’azione concreta:
– 1) «Ti ho proposto la vita e la morte, la benedizione e la maledizione. Scegli la vita, perché viva tu e la tua discendenza» (Dt 30,19). L’uomo, specialmente quello che ha ricevuto la Rivelazione (giudeo – cristiana), in condizioni normali può conoscere il bene e il male concreto e ha capacità di scegliere tra di essi.
– 2) «Non è vero che, se agisci bene, ti rialzerai? Ma se agisci male, il peccato sta alla porta, e i suoi desideri se rivolgono contro di te; ma tu dominalo!» (Gen 4,7). Queste sono le parole che il Signore dirige a Caino, e lasciano in chiaro che l’uomo è sempre in grado di dominare il peccato che lo assale (cioè, può sempre scegliere il bene oggettivo e rifiutare il male).[31]
3) Le esortazioni di Gesù a lasciare la vita del peccato (e gli atti concreti che l’implicano), a cambiare completamente la vita, sono molto chiare ed enfatiche: “Io vi dico che anzi, se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo” (Lc 13,5); e alla peccatrice: “Va’, e d’ora in poi non peccare più” (Gv 8,11).
– 4) Le esortazioni perché si parli chiaramente, evitando ogni ambiguità e confusione: Sia il vostro linguaggio: sì, sì; no, no; il superfluo procede dal maligno (Mt 5,37). Anche le esortazioni a seguire Gesù con degli atti concreti, che implicano una scelta del cuore e un rifiuto delle azioni opposte, pure esse categorici: “Chi non è con me è contro di me; e chi non raccoglie con me disperde” (Mt 12,30). “Nessuno può servire a due padroni; poiché o odierà l’uno e amerà l’altro” (Mt 6,24).
– 5) Tutti incorniciati dall’esortazione a cercare la perfezione in ogni cosa: “Sarete dunque perfetti, come perfetto è il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 5,48).
Tutto sembra indicare che, per il Signore e per il suo vangelo, le vere proporzioni sono quelle che ci avvicinano sempre più al modello perfetto di vita, rappresentato da Lui e dal suo esempio dato durante il suo passaggio su questa terra, e le vere conseguenze, quelle che formano negli uomini un cuore simile al suo. Tutti gli altri proporzionalismi o consequenzialismi sono messi da parte. Su quello che riguarda l’ambiguità, sembra non ce ne sia segno alcuno in Lui, chi ha pronunciato chiaramente: Io sono la via, la verità e la vita (Gv 14,6).
P. Carlos D. Pereira, IVE
[1] Il numero [1750] del Catechismo della Chiesa Cattolica, editato in ottobre 1992, afferma quello che si considera la dottrina ufficiale della chiesa sull’atto umano: «La moralità degli atti umani dipende: — dall’oggetto scelto; — dal fine che ci si prefigge o dall’intenzione; — dalle circostanze dell’azione. L’oggetto, l’intenzione e le circostanze (in questo ordine, noi diciamo) rappresentano le “fonti”, o elementi costitutivi della moralità degli atti umani».
[2] Cf. Es 20, 2-17; Dt 5, 6-21.
[3] 1Cor 6, 9-10: O non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né gli impuri, né gli idolatri, né gli adulteri, né gli effeminati, né i depravati, né i ladri, né i cupidi, né gli ubriaconi, né i maldicenti, né i rapaci erediteranno il regno di Dio.
[4] St. Agostino, Contra mendacium, VII, 18: PL 40, 528; cfr. S. Tommaso D’Aquino, Quaestiones quodlibetales, XI, q. 7, a. 2; Catechismo della Chiesa Cattolica, [1753-55]. Tutti citati in S. Giov. Paolo II, Enciclica Veritatis Splendor (6/8/1993).
[5] San Tommaso di Aquino, In Ethica Nicomaco, II, 7, n. 329.
[6] Cfr. Tommaso di Aquino, Summa Theologiae, I-II, 18, 1.2. Indicherà che influiscono anche il fine (a. 3) e le circostanze (a. 4). Ma è soprattutto l’oggetto, perché costituisce “l’essere dell’atto”; la pienezza di essere che è l’essenza del bene.
[7] Cat. CC. [1756]. La sottolineatura è nostra.
[8] S. G. Paolo II, Veritatis Splendor, 80, citando per l’ultimo paragrafo l’esortazione post sinodale Reconciliatio et Penitentia, dal 2/12/1984, 17.
[9] Cat. CC. [1735].
[10] Cat. CC [1734]; [1736] rispettivamente. Il grassetto è nostro.
[11] Seguiamo P. M. A. Fuentes IVE, Con coraggio virile: Mezzo secolo di lotta intorno all’Enciclica Humanae Vitae, ED.IVI, Montefiascone (VT) 2018, 99-100.
[12] Cfr. Anche P. M.A. Fuentes, IVE, La búsqueda del bien: Principios morales para tiempos de confusión, EDIVE, San Rafael 2017, 184-5.
[13] S. G. Paolo II, Veritatis Splendor, 75.
[14] Cfr. M.A. Fuentes, IVE, La búsqueda del bien, 32-33.
[15] S. G. Paolo II, Veritatis Splendor, 79.
[16] Nell’omelia della messa Pro eligendo Pontifice, del 18 aprile 2005, l’ancora Card. J. Ratzinger affermava: «il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie» (http://www.vatican.va/gpII/documents/homily-pro-eligendo-pontifice_20050418_it.html).
[17] https://www.lamadredellachiesa.it/il-cardinale-marx-non-siamo-una-filiale-di-roma-e-non-sara-un-sinodo-a-dirci-cosa-fare-in-germania/
[18] Cfr. I vescovi tedeschi alle perse con la lettera del Papa; a chi ha dato ragione, en Il foglio quotidiano (4/7/2019).
[19] I documenti papali dovrebbero essere considerati in questo ordine gerarchico: 1) Enciclica; 2) Costituzione apostolica; 3) Esortazione apostolica; 4) lettere apostoliche; 5) Bule, ‘motu proprio’ e altri documenti. Nessuno di questi documenti richiama un’assoluta aderenza a un dogma di fede. In ogni caso, devono sempre essere oggetto di riverenza e presi in considerazione, specialmente quelli di rango superiore, e specialmente quando la loro dottrina è stata ripetuta, sia dall’insegnamento di uno stesso Pontefice o di pontefici successivi.
[20] Pio P. XII, Enciclica Humani Generis (12/8/1950), 14.
[21] Alcuni di esse, come l’Humanae Vitae e anche l’esortazione post-sinodale Familiaris Consortio, sono citati nella stessa esortazione Amoris Laeititia (cfr. nn. 68-69. 222), come “messaggio da riscoprire” (la seconda è citata nelle note a piede di pagina almeno sette volte).
[22] Ad esempio, il commento del Card. Antonelli (ottobre 2016): Amoris laetitia: per l’interpretazione e l’attuazione (http://www.familiam.org/pcpf/allegati/13757/Amoris_Laetitia_ITA.pdf).
[23] Cfr. http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1351414.html
[24] Ad esempio, il professore Livio Melina, Coscienza e prudenza. La ricostruzione del soggetto morale cristiano, Amore Umano 26, Cantagalli, Siena 2018.
[25] Cfr. S. Giov. Paolo II, Esortazione post-sinodale Familiaris Consortio, 84: «Quando l’uomo e la donna, per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo della separazione, “assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi”» (more uxorio). Si raccomanda che evitino pure lo scandalo, che sarebbe «indurre i fedeli in errore circa l’indissolubilità del matrimonio validamente contratto».
[26] Il testo dei dubia con la nota esplicativa in: http://www.lanuovabq.it/it/cinque-domande-su-cui-si-gioca-la-morale-cattolica
[27] Pont. Consiglio interpretazioni testi legislativi, Circa l’ammissibilità alla Santa Comunione dei divorziati risposati
(L’Osservatore Romano, 7 luglio 2000, p. 1; Communicationes, 32 [2000], pp. 159-162).
[28] Cfr. Tommaso di Aquino, Summa Theologiae I-II, q. 65, a. 3, ad2 e ad3.
[29] Affermata, ad esempio, nella già citata Dichiarazione sull’ammissibilità alla Comunione dei divorziati risposati, 2.
[30] Cfr. S. Th. I-II, q. 94, a.4.
[31] Il testo originale, sia in ebraico che in greco, è difficile da tradurre. Tuttavia, la stragrande maggioranza delle traduzioni più importanti (a partire dalla Vulgata di San Girolamo) coincide nel sottolineare la natura esigente della lotta contro il peccato: l’uomo non solo può “dominare” il peccato, ma “deve” farlo, e infatti, lo “dominerà”, se opera giustamente.
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