SACERDOTE ANTICO e CRISTO SACERDOTE

SACERDOTE ANTICO e CRISTO SACERDOTE

Gesù sommo ed eterno sacerdote (http://www.preghiamo.org/preghiera-santificazione-sacerdoti-pio-xii.php)

            Presentiamo una serie di omelie destinate ai sacerdoti, che parlano appunto sull’argomento del sacerdozio nella lettera agli Ebrei, sia sul sacerdozio in generale (con qualche riferimento al sacerdozio dell’antica legge) e sul sacerdozio di Cristo, in cui tutte le cose dette in figure, si realizzano e compiono. Seguiamo, a grandi righe, l’esposizione del ora cardinale Albert Vanhoye, s.j., nel suo libro Sacerdoti antichi e nuovo sacerdote secondo il Nuovo Testamento, Elle di Ci, Torino 1985, 95-108, in particolare nel suo commento sulla sezione 5, 1-10 della lettera agi Ebrei. Aggiungiamo anche delle nostre osservazioni, specialmente nella segnalazione di dissimili opinioni, così come le citazioni che facciamo di altri fonti diverse dell’autore in questione.

  1. Una descrizione del Sommo Sacerdote: Eb 5, 1-4

                Ogni sommo sacerdote, preso tra gli uomini, è costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio, per offrire doni e sacrifici per i peccati; 2 così può avere compassione verso gli ignoranti e gli erranti, perché anch’egli è soggetto a debolezza; 3 ed è a motivo di questa che egli è obbligato a offrire dei sacrifici per i peccati, tanto per sé stesso quanto per il popolo.  4 Nessuno si prende da sé quell’onore; ma lo prende quando sia chiamato da Dio, come nel caso di Aronne.

1. I primi tratti:

Cardinale Albert Vanhoye, s.j.

               Il padre Vanhoye, s.j. afferma che questi quattro versetti che abbiamo letto sono come una descrizione generale, che si applica ad ogni sacerdote (5, 1-4); invece, i versetti che seguiranno (5, 5-10) saranno un’applicazione particolare al caso di Cristo. Su questa presentazione generale, puntualizza dicendo che comprende tre elementi successivi:

1) Una duplice relazione del sommo sacerdote, con gli uomini e con Dio; perché dice il testo: per il bene degli uomini [in favore degli uomini]; nelle cose che riguardano Dio (v. 1). Facciamo attenzione che il testo usa “sommo sacerdote” (archiereus). Nell’Antica legge questo era molto importante: i sacerdoti erano tanti, ma il ‘sommo sacerdote’ era uno solo, e si incaricava del sacrificio specialmente nel giorno chiamato “dell’espiazione” (Yom Kippur).

2) La funzione sacrificale di espiazione: Poiché si afferma che viene costituito per offrire doni e sacrifici per i peccati. Questo lo dice due volte (v. 1 e v. 3). In mezzo a queste due ricorrenze offre una precisazione molto significativa: 1 – che è capace di avere compassione verso gli ignoranti e gli erranti; e la ragione è: perché anch’egli è soggetto a debolezza. Come conseguenza, un’altra precisazione: 2 – offre per sé stesso quanto per il popolo.

3) Il terzo elemento è la chiamata da Dio, quando riferisce: Nessuno si prende da sé quest’onore; ma lo prende quando sia chiamato da Dio, come Aronne (v. 4).

                Vanhoye afferma che molti commentatori hanno voluto vedere in questi versetti una descrizione completa del sacerdozio, o tutte le condizioni per essere sacerdote perfetto. Lui è di accordo che questo si applica certamente ad ogni sacerdote, pur se non ne contenga tutti i tratti che lo compongono. Possiamo vedere comunque tanti tratti caratteristici.

                Possiamo fermarci al primo elemento, il duplice legame di solidarietà che esiste fra il sommo sacerdote e gli uomini. Tanto per la sua origine quanto per la sua destinazione, il sacerdote è strettamente unito agli altri membri della famiglia umana: lui è “scelto fra gli uomini”, ed “è costituito per il bene degli uomini”. È un uomo messo al servizio degli uomini. L’altro aspetto della mediazione è espresso solo in seguito, per precisare l’ambito nel quale si esercita il suo servizio: “nelle cose che riguardano Dio”. Nell’Antico testamento si insisteva di più nel servizio di Dio; quello che riguardava gli uomini restava implicito. Il nostro autore invece lo afferma chiaramente.

                San Paolo non parla delle funzioni sacerdotali – come parleranno assai i libri dell’ A.T. -, non parla dell’ingresso del sacerdote nella dimora di Dio, né della trasmissione degli oracoli di Dio, neanche delle offerte fatte per rendere grazie a Dio, ma si limita strettamente al richiamo di un solo genere di sacrifici, quelli di espiazione, senza nemmeno specificare a chi siano offerti: il sacerdote è costituito “per offrire sacrifici per i peccati”. La situazione concreta dell’uomo e marcata dalla debolezza e dalla malizia. La prima cosa da fare è portarvi rimedio, in quanto questa debolezza e questa malizia costituiscono anche l’ostacolo più temibile “nelle cose che riguardano Dio”.  Il compito più importante del sacerdote è “per il bene degli uomini”, e perciò, l’offerta dei sacrifici di espiazione.

                San Paolo presenta tutto questo, ovviamente, per mostrare la superiorità del sacerdozio di Cristo. Ad ogni modo, molte di queste caratteristiche continuano ad essere valide, molto più per noi, che sebbene siamo sacerdoti di Cristo e non di Aronne, abbiamo molte delle debolezze che avevano i sacerdoti dell’Antica alleanza. Eppure, Dio ci ha scelto.

                In questa prima presentazione, possiamo restare con questo pensiero: il sacrificio che noi celebriamo è un sacrificio di espiazione ed è in favore degli uomini. Non già quello di Aronne ma quello di Cristo, che è definitivo. Ad ogni modo, ci ha concesso di commemorarlo e attualizzarlo: Sacrificio di espiazione per i peccati nostri e altrui. Se io non celebro il sacrificio non ci sarà espiazione in favore degli uomini. Se io non celebro il sacrificio ci sarà qualche espiazione mancata dei peccati di questo mondo. Se io non celebro o celebro male sto mancando al mio compito per il quale sono chiamato da Dio.

2. Solidarietà sacerdotale:

                San Paolo dice che il sacerdote “può avere compassione verso gli ignoranti e gli erranti, perché anch’egli è soggetto a debolezza” (v. 2). I termini utilizzati sono molto particolari e degni di prestare attenzione. Alcuni sono apparentemente ambigui. Si dice che il sacerdote “può avere compassione”, nel senso che è capace di farlo. Metriopathein significa “moderare i sentimenti”, significa anche padronanza di sé, resistenza alle passioni. Seguito da un complemento di persona, come in questo caso, indica un atteggiamento di comprensione, di moderazione indulgente verso i colpevoli, fondato nell’esperienza della propria fragilità, nel fatto che lui stesso è debole.

                I peccatori sono chiamati qui “quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore”. Questi termini tendono ad attenuare la colpa (San Pietro, parlando agli Ebrei, perfino dirà [Atti 3,17]: “Io so che lo avete fatto per ignoranza, come anche i vostri capi”). L’Antico testamento (libro dei Numeri) distingueva due generi dei peccati, quelli che si facevano per “inavvertenza” e quelli che si commettevano ‘a mano alzata’, cioè con piena conoscenza di causa.[1] L’espiazione del sacrificio veniva offerta per il primo caso dei peccati (Nm 15, 28-29). Nel secondo caso, si diceva che quel individuo sarà eliminato dal suo popolo (15,30). San Paolo invece non fa questa distinzione, e fa capire che la compassione è possibile per tutti i peccati. Sottolinea soltanto la solidarietà tra il sacerdote e i peccatori.

                Il testo della lettera dice che “nessuno si prende da sé quest’onore” (5,4), ma “solo chi è chiamato da Dio”. Il cardinale Vanhoye afferma che alcuni autori hanno visto qua sia la necessità che l’autorità del sacerdote. Lui crede di vedere di più l’atteggiamento di umiltà che deve avere. La solidarietà con i miserabili uomini conduce all’umiltà davanti a Dio.

                In questa prospettiva, l’autore ricorre all’esempio del primo sacerdote israelita, Aronne. La Bibbia fa vedere, di fatto, che Aronne non si attribuì il sacerdozio da se stesso, ma che l’iniziativa fu da Dio. E Dio che ordina Mosè di far avvicinare Aronne con i suoi figli perché siano i suoi sacerdoti (Es 28,1). Si trattava dei rapporti con Dio, quindi nessun uomo poteva arrogarsi questo privilegio. Non è il sacerdote a prendere l’iniziativa. Egli è scelto, è costituito, è chiamato. Abbiamo questo magnificamente descritto nel libro dei Numeri con la ribellione dei figli di Core. Quelli che si attribuivano e pretesero di disporre da se stessi del sacerdozio (Nm 16,3) al posto di Aronne, furono castigati.

                Tutti questi elementi si collegano in Cristo, nel sacerdozio di Cristo. Faceva notare San Giovanni Paolo, in un messaggio Giovedì Santo (1991) che “è necessario partire da Cristo per leggere la realtà sacerdotale. Soltanto così possiamo rispondere pienamente alla verità sul sacerdote, il quale, “scelto fra gli uomini viene costituito per il bene degli uomini nelle cose che riguardano Dio” (5,1). La dimensione umana del servizio sacerdotale, per essere del tutto autentica, deve essere radicata in Dio. Infatti, mediante tutto ciò che in esso è “per il bene degli uomini”, tale servizio ‘riguarda Dio’: serve la molteplice ricchezza di questo rapporto. Senza uno sforzo per rispondere pienamente a quel’ “unzione con lo spirito del Signore”, che lo costituisce nel sacerdote ministeriale, il sacerdote non può soddisfare a quelle attese che gli uomini, la chiesa il mondo, giustamente collegano ad esso”.[2]

                Se è chiamato da Dio, occorre rispondere a quella chiamata, e occorre essere fedeli ad essa. Dirà la lettera agli Ebrei in altro momento: Per diventare pontefice misericordioso e fedele nelle cose che riguardano Dio, per espiare i peccati del popolo (Heb 2,17), e la prima lettera ai Corinzi: Quel che si richiede agli amministratori è che ciascuno sia trovato fedele (1Co 4,2).

  1. Come Cristo è diventato Sommo Sacerdote (Eb 5, 5-10)

                5 Così anche Cristo non glorificò se stesso nel divenire gran sacerdote, ma lo fece sacerdote colui che gli disse: Mio figlio sei tu, io oggi ti ho generato. 6 Come anche in altro luogo dice: Tu sei sacerdote per l’eternità secondo l’ordine di Melchidesech. 7 Il quale, nei giorni della sua carne, implorò e supplicò con grida veementi e lacrime colui che poteva salvarlo da morte, e fu esaudito per la sua riverenza (pietà). 8 E imparò da ciò che soffrì l’obbedienza, pur essendo Figlio.  9 E perfezionato, diventò per tutti quelli che gli prestano obbedienza autore di eterna salvezza, 10 proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchidesech.

1. L’umiltà di Cristo:

                Molte delle cose che sono state dette in precedenza, si applicano adesso a Cristo. Une delle prime caratteristiche segnalate da Cristo è la sua umiltà, nel dire: Non glorificò se stesso. Questo coincide con le dichiarazioni che Gesù farà su se stesso, ad esempio nel vangelo di Giovanni (Gv 8,50): Io non cerco la mia gloria; v’è uno che la cerca e che giudica, e poco dopo (8,54): Chi mi glorifica è il Padre mio, che voi dite essere vostro Dio. Il pensiero è simile a quello dell’inno cristologico dell’epistola ai Filippesi (2, 6-8): Cristo Gesù non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso (…) umiliò se stesso. Nella lettera ai Filippesi si parla più dell’Incarnazione; qui invece del sacerdozio.

                Vengono citati i testi di due salmi tradizionalmente applicati al Messia: Mio figlio sei tu, io oggi ti ho generato (Sal 2,7); Tu sei sacerdote per l’eternità secondo l’ordine di Melchidesech (Sal 110 [109],1). Secondo alcuni esegeti (Bonsirven), ci sono qua due parole di investitura sacerdotale; la prima è data come la più fondamentale, la seconda appare come una formulazione esteriore. La prima (del Salmo 2) e più fondamentale perché riguarda il rapporto fra filiazione divina e sacerdozio. La filiazione divina di Cristo è presentata da San Paolo come il fondamento del suo sacerdozio: “ricevendo come uomo, al momento dell’Incarnazione, la qualità di Figlio che suo Padre gli trasmette come Verbo fin dalla eternità, Il Cristo è istituito e per lo stesso fatto sommo sacerdote” (A. Medebielle).[3]

                È vero che il cardinal Vanhoye avrà un’altra opinione su questo; lui dirà che Cristo si costituisce sacerdote con l’atto di massima donazione che è il sacrificio della Croce. San Tommaso riconosce l’importanza della Passione nel sacerdozio; di fatto afferma: «Il sacerdozio di Cristo ebbe la sua massima manifestazione nella sua passione e morte, quando “con il proprio sangue entrò nel Santo”, secondo San Paolo» (Eb 9,12).[4] Dirá comunque, che il riferimento della lettera agli Ebrei (10,6): “Ecco che io vengo, per fare, Padre, la tua volontà”, pur se potrebbe capirsi della volontà di Cristo di andare incontro alla Passione, si fa esplicito quando la sua concezione e Incarnazione.[5] L’Incarnazione rimane così il fondamento del sacerdozio di Gesù.

                Colui che è stato nominato sacerdote da Dio è un uomo “che non glorificò se stesso”. Il testo della lettera afferma che fu “esaudito per la sua pietà”, e poi afferma che “imparò l’obbedienza dalle cose che patì”. Ci sono allora due prospettive della passione di Cristo:

– 1) La prima come una preghiera esaudita: Dio Padre esaudisce la preghiera di Gesù nella Passione.

– 2) Ma la seconda è un’educazione dolorosa. Cristo si sottomette dolorosamente alla volontà di Dio attraverso la sua Passione.

                Comunque, ambedue prospettive non sono contraddittorie, e sono caratteristiche della condizione umana, in modo che questo testo ci fa vedere fino a quale punto Cristo è stato uno fra noi, specialmente uno fra noi sacerdoti, pur essendo il capo e l’unico e vero sacerdote.

                San Paolo dice che questo si avvera “nei giorni della sua carne”, nel tempo della vita del Cristo in questo mondo prima della morte. Evoca l’esistenza umana di Gesù e fa comprendere che si lo metteva allo stesso livello degli altri uomini fragili e votati alla morte. Gesù ha voluto essere sacerdote in quel modo per diversi motivi, ma anche come un segno di solidarietà con noi, uomini fragili e peccatori. Invochiamolo con fiducia nelle nostre debolezze, e chiediamogli la grazia di unirci perfettamente, ogni giorno di più, al sacrificio eucaristico che celebriamo.

2. Offerta supplichevole:

                L’aspetto di offerta supplichevole di Gesù merita un approfondimento. Gesù prega e supplica colui che può salvarlo dalla morte; Egli grida e piange. Il testo afferma che “offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte” (Eb 5,7). Sono parole che fanno pensare ai racconti evangelici dell’agonia di Gesù: “Cominciò a sentire paura, angoscia … si gettò a terra e pregava (…) Padre, tutto è possibile a te, allontana da me questo calice!” (Mc 14, 33-36).

                Le grida veementi e lacrime” di cui l’epistola parla (v. 7) non si trovano realizzate in queste circostanze dolorose ma si troveranno in un momento più drammatico ancora, sul Calvario: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato!” (Mc 15,34). Sembra dunque che l’intenzione di Paolo non sia di riportare un episodio preciso della passione di Cristo ma piuttosto di riproporla nel suo insieme. Ispirandosi a tal fine egli ci pone davanti agli occhi il quadro di una preghiera che scaturisce dalla stessa prova.

                Il contributo principale di questo testo, secondo Paolo, non consiste nei particolari della descrizione della Passione, la quale è già descritta nei Vangeli, ma di presentarla come una preghiera e come un’offerta. Sulla lunga serie di episodi dolorosi che hanno messo Gesù alle peggiori prove che un uomo può conoscere: Tradimento, abbandono, rinnegamento, processo iniquo, condanna ingiusta, percosse e derisioni, flagellazione, crocifissione, San Paolo ne rileverà specialmente il modo con cui essi sono stati affrontati nella preghiera. Tutti questi avvenimenti hanno provocato in lui una preghiera intensa che ha costituito un’offerta sacerdotale. Non è un caso che l’autore utilizzi qui il verbo ‘offrire’ (prosenégkas, di prosféro). Dopo aver dichiarato che “ogni sacerdote è costituito per offrire”, costata adesso che Cristo “ha offerto”. Affrontata nella preghiera, trasformata dalla preghiera, la situazione drammatica è diventata un’offerta.

                Si afferma che questa offerta è stata gradita e che la sua preghiera è stata esaudita. Per precisare il senso bisognerebbe sapere ciò che Gesù ha chiesto nella sua preghiera. Alcuni autori, come Harnack, hanno interpretato che Gesù chiedeva essere liberato dalla morte, e allora il testo non sarebbe originale perché, di fatto, la morte non gli è stata risparmiata. Ad ogni modo, il testo dice che Gesù “ha pregato colui che aveva potere di salvarlo dalla morte” (v. 7), ma non ha chiesto essere liberato dalla morte, almeno non subito. Altri fanno notare che ci sono due modi possibili di essere ‘salvati dalla morte’: L’uno consiste nell’essere preservato momentaneamente; l’altro consiste nel trionfarvi definitivamente, dopo averla subita. È in questo secondo senso che bisogna comprendere la preghiera di Gesù, preghiera che difatti è stata esaudita nell’avvenimento della resurrezione.

                Gesù fu ascoltato a causa della sua pietà. Il termine usato è appunto eulàbeia, che può avere diversi significati, ma il senso è di attenzione premurosa, “buona apprensione”, ed è usato da Luca anche nel senso religioso di “osservante” o “pio”. La preghiera di Gesù è penetrata da questo profondo rispetto verso Dio (eulàbeia), per il quale Egli si guardava di imporre qualche soluzione prefissata. Colui che prega non si permette di decidere da solo ma si apre all’azione di Dio, accogli la sua relazione interpersonale, e soprattutto la volontà di quello che è degno di massima autorità. Nel sacerdote, quello che importa per primo è il rapporto con Dio. Per noi dovrebbe essere molto importante avere una preghiera come la di Cristo, in tutto sottomesso alla volontà del Padre; accettare la relazione con Lui come quello più importante. È più importante il rapporto con Lui che il fatto che Lui esaudisca le nostre richieste. È più importante il rapporto con Lui che quello che riusciremo a fare, anche con la sua Grazia. Il rapporto con Lui va guardato innanzitutto e davanti a tutto. 

                “Ecco che io vengo, Signore, per fare la tua volontà”, deve essere pure la nostra preghiera quotidiana, il nostro stemma, il nostro grido permanente.

3. L’educazione dolorosa:

                Abbiamo detto che a l’aspetto di preghiera esaudita, la seconda parte della frase aggiungeva l’educazione per mezzo della sofferenza. Dopo ciò che abbiamo detto si vede chiaramente come questi due aspetti si accordano fra loro.

                L’esaudimento della preghiera non ha significato per Gesù un andare via o fuori dalla prova, ma una trasformazione della sofferenza in strada di salvezza. Si dice infatti, che “da ciò che ha sofferto imparò l’ubbidienza”. Imparò così l’obbedienza dalle sue sofferenze. Che la sofferenza possa avere valore educativo è un’esperienza universale; si trova anche nella letteratura greca (esiste l’assonanza tra pathein/mathein, che viene ripresa da San Paolo). Soffrendo si impara.

                Bisogna notare, nonostante, che la Bibbia dona una nuova profondità a questo dato dell’esperienza umana, perché attira l’attenzione sul ruolo della sofferenza nel rapporto con Dio. Per mezzo della prova, Dio rivela se stesso all’uomo sia come un giudice a cui nessuno può sfuggire, sia come un Padre che vuol fare progredire i suoi figli. La sofferenza serve a stabilire una relazione più stretta e più autentica fra l’uomo e Dio. Attraverso la sofferenza Dio purifica l’uomo, lo trasforma e lo penetra della Sua Santità (Eb 12,10: Egli lo fa per il nostro bene, affinché siamo partecipi della sua santità) in modo da poterlo introdurre nella sua intimità. Dio mette in lui la docilità, la disponibilità genuina, condizione dell’unione perfetta dell’amore. Tale è il cammino dell’uomo – specialmente del sacerdote, diciamo noi -; soffrendo, egli impara l’obbedienza che l’unisce a Dio.

                Riflettiamo noi, come cosa nostra: Che il Signore ci aiuti a non sfuggire la sofferenza, quella piccola che c’è sempre, e quella grande che probabilmente verrà. Ma che sia quella sofferenza di Cristo, non una sofferenza costruita con la propria volontà o la propria ribellione. La vita di ognuno di noi dovrebbe essere segnata dalla Croce, anche in modo particolare e profondo, almeno qualche volta durante la vita sacerdotale. È capitato con tanti, capiterà pure con noi se vogliamo seguire Cristo in modo pieno.      

Published on Ottobre 1st, 2015 | by Giovanni Fiumi

         “Cristo imparò l’obbedienza delle cose che patì” (v. 8). La lettera ai Filippesi l’esprime pure: “Si fece obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Flp 2,8). Cristo soffrì e non solo, ma pure fu trasformato dalla sofferenza; egli imparò l’obbedienza. Affermazione audace che alle volte si cerca di ignorare o attenuare ma che rivela tutta la serietà dell’Incarnazione e della redenzione. Non possiamo immaginare che Gesù abbia rifiutato di obbedire Dio. La stessa lettera agli Ebrei dice che Cristo “è stato tentato in tutto a somiglianza nostra, eccetto il peccato” (Eb 4,15). Mai Gesù è stato indocile a Dio. Ma la nostra natura di sangue e di carne alla quale Lui ha accettato di partecipare era deformata dalla disobbedienza e aveva bisogno di essere risanata. Era necessario che venisse rifusa nel crogiolo della sofferenza e trasformata dall’azione di Dio. Nessun uomo, tuttavia, è in grado di accogliere nel modo dovuto questa azione divina così carica di una terribile esperienza. Soltanto Cristo, che non aveva bisogno, è stato capace e si è effettivamente tutto messo nel dramma della sua Passione. In lui dunque è stato creato un uomo nuovo che corrisponde perfettamente al progetto divino, perché si è costituito con l’accettare l’obbedienza più totale.

                 Seguire Gesù significa seguirlo anche nella sua obbedienza; obbedienza che, nel sacerdote cattolico, passerà in primo grado per essere fedele a Lui, seguire la sua volontà, in modo tale che ogni volta che celebriamo il santo sacrificio o svolgiamo un ruolo ‘in persona Christi’ non siamo mossi da altri interessi di quelli che Gesù aveva quando li ha realizzati e compiuti. Obbedienza che sarà legata anche a quello che Dio vorrà per ciascuno di noi, in questi tempi particolarmente. Vediamo l’esempio del cardinale Pell: 405 giorni in prigione senza poter celebrare la Messa, ingiustamente condannato, poi liberato come testimonianza per il mondo (perché il mondo si renda conto che era innocente). Nessuno lo difese; solo Dio. Lui si è rallegrato perché si è fatto giustizia, ha detto che soltanto la verità rende la giustizia piena, e ha dichiarato di non volere vendetta né serbare rancore con nessuno. Questa è la vera e propria obbedienza, non l’obbedienza servile di che accetta l’ingiustizia perché è più comodo. Che il Signore ci conceda quest’obbedienza con e di Gesù in ogni momento della nostra vita sacerdotale.

Cardinale George Pell

  1. Il risultato sacerdotale (Eb 5, 9-10)

                9 E reso perfetto, diventò per tutti quelli che gli prestano obbedienza autore di eterna salvezza, 10 proclamato da Dio sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchidesech.

                Esaminiamo oggi tre conseguenze della Passione di Cristo, tutte e tre collegati tra loro:

– 1) Cristo è reso perfetto.

– 2) Divenne causa di salvezza per tutti coloro che gli obbediscono.

– 3) Essendo proclamato da Dio Sommo Sacerdote alla maniera di Melchisedech.

                Si sottolinea qua che il sacrificio di Cristo e la proclamazione del suo sacerdozio non hanno altro scopo che mettere Cristo in grado di offrire a tutti la salvezza.

                Il punto decisivo è il primo: la trasformazione di Cristo reso perfetto. Qui si trova il fondamento di tutto il resto. E perché è stato reso perfetto che Cristo ha potuto essere proclamato sommo sacerdote. Nel testo greco questa dichiarazione viene espressa dal verbo teleioō che significa: completare, adempiere, rendere perfetto. Il verbo è qui al passivo nella forma del participio teeiōtheis, che indica un’azione considerata già compiuta e appartenente al passato. La traduzione più letterale è quella proposta: Cristo fu reso perfetto. Per il cardinale Vanhoye, questa trasformazione che rende Cristo perfetto si è operata nella sua dolorosa Passione, in riferimento a quanto detto prima.

                È vero che lui considera il sacerdozio di Cristo come istituito da questa trasformazione, nel momento della Passione e specialmente della Croce. Noi abbiamo detto che seguiamo la dottrina tradizionale, che vede l’istituzione del sacerdozio di Gesù nell’Incarnazione stessa. San Tommaso di Aquino, nel suo commento, segue la Volgata, che legge “consumatus”. Afferma comunque, che l’espressione ‘consumatus’ fa riferimento alla Passione, perché mostra il suo frutto, che fu duplice: Uno in Cristo, altro nei suoi membri.

                In Cristo il frutto fu la sua glorificazione, e perciò si dice ‘consumatus’. Afferma che già al momento della concezione sua fu perfettamente consumato (reso perfetto) in quanto alla Beatitudine dell’anima, sebbene subisse la passibilità della natura. Dopo la Passione, il frutto si manifesterà più in pienezza ancora dal momento che godrà dell’impassibilità. In quanto a noi, le sue membra, corrisponde a quello che è più perfetto il rendere ad altri perfetti, e per merito dell’obbedienza pervenne a detta consumazione.[6]

                 In questo senso si può applicare quello che afferma il cardinale Vanhoye: San Paolo rivela ora il legame profondo che esiste fra questa trasformazione accettata da Cristo e la capacità che acquista di salvare tutti gli uomini, giacché veramente ci salva con il suo sacrificio. Cristo veramente è stato trasformato dall’azione divina glorificante. Ma la conclusione che segue è che il popolo, lungo da essere lasciato da parte, si trova compresso. La trasformazione effettuata ha il risultato di fare di Cristo la sorgente di salvezza per tutti quelli che aderiscono a Lui. Da qui si vede che Cristo ha preso la condizione umana in modo così reale, e si è trovato nella necessità di “offrire per se stesso preghiere suppliche con forti grida e lacrime”; dall’altra parte, ha spinto la sua solidarietà con noi a tal punto che pregando per sé pregava per noi, esaudito per sé otteneva lo stesso tempo la salvezza per noi.

                Si giunge all’ultima affermazione: proclamato sacerdote. Veramente Cristo occupa una posizione di intercessore, costituito in favore dei suoi fratelli. Dice l’epistola in un altro momento (7,25): Egli può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio. La sua umanità si è trasformata, è stato reso perfetto. Cristo è divenuto Sommo Sacerdote e perciò, ha potuto essere proclamato come tale. Accettando la somiglianza con i suoi fratelli nella sofferenza, Cristo è stato reso perfetto, ciò che i suoi fratelli non erano. Si costata un duplice movimento di trasformazione; da una parte una assimilazione del Cristo all’uomo, dall’altra parte un’elevazione dell’uomo, nel Cristo, fino alla perfezione. La chiave di questo movimento duplice si trova nella docilità verso Dio e nell’amore fraterno per gli uomini. Queste due disposizioni hanno condotto a Cristo a prendere su di sé la miserabile condizione umana e hanno trasformato questa condizione.

                La lettera ai Filippesi pure, dopo di parlare della duplice umiliazione di Cristo: l’annientamento nell’Incarnazione e l’umiliazione della Croce, parlerà della glorificazione (Flp 2,9): Dio lo ha sovranamente innalzato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni nome.

                Noi dobbiamo essere coscienti che il nostro servizio sacerdotale è capace di portare la salvezza agli uomini; è il solo capace di farlo, e dobbiamo farlo, in fedeltà a Cristo. È per questo che ci ha scelti e ci ha consacrati con l’unzione.

[1] Nm 15,27: be shegagah (ἀκουσίως); 15,30: be yad ramah (ὑπερηφανίας).

[2] Lettere di San Giovanni Paolo II ai sacerdoti, EDIVI, Segni 2009, 177-178 (messaggio Giovedì Santo 1991).

[3] J. Bonsirven, Epitre aux Hébreux, Beauchesne, Paris 1943, 41 ; A. Médebielle, Epitre aux Hébreux ; Letouzey, Paris 1935. Cfr. A. Vanhoye, s.j., Sacerdoti antichi e nuovo sacerdote, Elle di Ci, Torino 1985, 100.

[4] Tommaso di Aquino, Summa Theologiae, III, 22, a. 5, ob.2.

[5] Tommaso di Aquino, Super epistolam ad Hebraeos lectura, X, lect. I, [489].

[6] Tommaso di Aquino, Super epistolam ad Hebraeos lectura, V, lect. II, [260].

PREGHIAMO PER I SACERDOTI

O Gesù, sommo ed eterno sacerdote, custodisci il tuo sacerdote dentro il Tuo Sacro Cuore. Conserva immacolate le sue mani unte che toccano ogni giorno il Tuo Sacro Corpo. Custodisci pure le sue labbra arrossate dal Tuo Prezioso Sangue. Mantieni puro e celeste il suo cuore segnato dal Tuo sublime carattere sacerdotale. Fa’ che cresca nella fedeltà e nell’amore per Te e preservalo dal contagio del mondo. Col potere di trasformare il pane e il vino donagli anche quello di trasformare i cuori. Benedici e rendi fruttuose le sue fatiche e dagli un giorno la corona della vita eterna. (Santa Teresa di Gesù Bambino)

O mio Gesù, ti prego per la Chiesa intera: concedile l’amore e la luce del tuo Spirito, rendi efficaci le parole dei sacerdoti, affinché spezzino anche i cuori più induriti e li facciano ritornare a te, o Signore. Signore, dacci sacerdoti santi, e tu stesso conservali nella serenità. Fa’ che la potenza della tua Misericordia li accompagni dovunque e li custodisca contro le insidie che il demonio non cessa di tendere all’anima di ogni sacerdote. La potenza della tua Misericordia, o Signore, distrugga tutto ciò che potrebbe offuscare la santità dei sacerdote, perché tu sei onnipotente. Ti chiedo, Gesù, di benedire con una luce speciale i sacerdoti dai quali mi confesserò nella mia vita. Amen. (Santa Faustina)

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