La Bibbia circa l’embrione umano

La Sacra Scrittura possiede molti riferimenti sul valore della vita umana, in particolare dal suo primo momento, dal concepimento nell’utero materno. Baste con ricordare le parole del re pentito, David, riconoscendo l’iniquità della sua origine nel suo salmo noto come il Miserere (Salmo 51 [50]): Ecco, io sono stato generato nell’iniquità, mia madre mi ha concepito nel peccato.

Evidenzieremo alcuni dei versetti e paragrafi più espliciti al riguardo e di cui conosciamo molto poco. Uno dei più significativi è forse quello del Salmo 139, v. 16: “I tuoi occhi videro perfino il mio embrione, e nel tuo libro ne erano scritte tutte le parti”, significativo per l’espressione originale (il mio embrione) che non sempre è tradotta con precisione.[1]

Il termino ebraico utilizzato che abbiamo tradotto come embrione è גֹּלֶם (gólem), parola che ricorre soltanto una volta nel Antico Testamento, ciò che contribuisce alla discussione circa il suo esatto significato. E’ stato di solito interpretato come qualcosa di “amorfo”, di imperfetto, di carenza di forma, etimologicamente: “embrione; massa grezza”.

La tradizione ebraica antica – raccolta un po’ nel Talmud e vincolata alla chiamata Cabala o mistica occulta ebraica – lo considerava perfino come la sostanza del corpo di Adamo, già modellato da Dio ma ancora privo del soffio vivente o ‘anima’ prima che Dio lo infonda. Le antiche versioni lo traducevano, infatti, come qualcosa di imperfetto. Così la LXX o Septuaginta (versione greca della Bibbia considerata ispirata dalla più pietosa e ferma tradizione ebreo – cristiana), lo traduce come ἀκατέργαστόν che significa: “greggio; non cotto” o pure: “ruvido”, ecc. L’antica versione Vulgata di San Girolamo (seguita dall’ufficialmente aggiornata Neo – Vulgata), preferisce un’espressione molto più generica: “Imperfectum”. La CEI traduce l’intero versetto in questo modo: Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi e tutto era scritto nel tuo libro; i miei giorni erano fissati, quando ancora non ne esisteva uno. Si considera che embrione sia una buona traduzione del termine considerando i progressi sia scientifici che quelli della ricerca filologica e grammaticale. Il contesto del salmo porta alla conclusione che si riferisca all’essere umano in gestazione, ancora nel grembo materno, particolarmente nei primi mesi di gestazione, tutta una ‘persona in formazione’ sulla quale Dio ha collocato il suo sguardo. Nell’ottica di Dio, l’essere umano lo è già dal primo istante della sua concezione.

Il secondo testo illustra molto graficamente di come Dio non produce né vuole l’aborto di esseri umani nel grembo materno: Perché non mi ha fatto morire nel seno? Mia madre sarebbe stata per me la mia tomba e l’utero, gravidanza perpetua! Perché sono uscito dall’utero? (Ger 20, 17-18). Il profeta Geremia, in mezzo al suo dolore, esclama, con chiarissima enfasi semitica, che forse sarebbe stato meglio morire nel grembo materno d aver vissuto con la sofferenza con la quale l’ha fatto. E’ senza dubbio consapevole che ci sono aborti naturali e spontanei, prodotti da diverse circostanze fisiche, malattie, ecc., ma allo stesso tempo, chiarisce che Dio non voleva assolutamente quel destino per il profeta. E’ stato perciò meglio per lui l’aver vissuto con la sua sofferenza, la quale indica chiaramente la sua vocazione, piuttosto che aver troncato la sua vita fin dall’inizio. Così, lungi dall’essere espressione di pessimismo, i versetti in questione sono un’espressione metafisica in favore dell’affermazione della bontà della vita. E il profeta ne è consapevole giacché sa, al di là della sua amarezza, che la gentilezza e la tenerezza di Dio si sono manifestati nel lasciarlo in vita pure in quelle condizioni (ricordiamo che le sue sofferenze sono, in ultima analisi, una figura della sofferenza di Gesù, il Redentore). Il termine ebraico רֶחֶם (réhem: ventre/seno/utero – di due modi tradotti nel versetto -), che compare due volte in questi versetti, compone anche l’espressione רַחֲמִים (misericordia dalle viscere). La misericordia di Dio è come quella della vera madre, procede dalle viscere.

Il terzo testo in esposizione appartiene al libro di Giobbe: Chi ha fatto me nel seno materno, non ha fatto anche lui? Non fu lo stesso [l’unico] a formarci nel seno? (Giobbe 31,15). Il termine ehād: unico, che sembra riferirsi ad un unico e singolo seno materno, è lo stesso che si impiega per Dio, ragione per la quale il versetto dalle volte viene letto in altro modo, come riferito ad un unico Dio, nonostante sembra più adatta al contesto la lettura presentata; si tratta della formazione della vita, anzi della stessa persona che parla e dei suoi interlocutori, nel seno materno. Si utilizza ancora réhem per significare “seno o ventre”. Ma ricorre un altro da tradurre come seno materno, di grande rapporto con le lingue semitiche: בֶּטֶן (béten).

Embrione umano e sacco vitellino

Ci sono altri testi molto significativi, compressi quelli che esprimono grandi e importanti parole di consolazione, sottolineando la prospettiva della creazione, del disegno di Dio sull’uomo e della sua vera vocazione: «Prima che io ti formassi nel grembo, ti ho conosciuto, e prima che tu uscissi dal seno, ti ho santificato; profeta per le genti ti ho costituito» (Ger 1,5), questo completato con i versetti del salmo 139 che abbiamo visto: Sì, tu hai plasmato i miei reni, mi hai tessuto nel grembo di mia madre (Sal 139,13). Nel primo dei testi, troviamo grembo come béten e seno come réhem; si capisce in ambedue casi che si tratta di quello materno, sebbene non compaiono degli aggettivi. L’espressione “prima che tu uscissi dal seno” ha un chiaro trasfondo semitico, e significa la nascita. Nel secondo dei testi, troviamo l’espressione completa: béten immî (“seno di mia madre”). Il binomio concezione – nascita si trova anche in Giobbe 3,3, a proposito dei lamenti del patriarca per le disgrazie che l’hanno colpito: Perisca il giorno nel quale sono nato, e la notte che ha detto: “È stato concepito un uomo!” [2]

La prospettiva quindi dell’Antico Testamento sull’argomento sembra molto completa: 1 – Dio ” forma” l’essere umano nel grembo materno; 2 – Possiede un disegno su di esso dal momento di quella “formazione” (ricordare il rapporto dei termini semitici tra “grembo o seno” e “misericordia”) e gli segnala la sua vocazione; 3 – Viene fatta una distinzione tra “concezione” e “nascita” come i due momenti chiavi dell’inizio della vita, di tal modo che il ‘disegno di Dio’ soltanto può venire concesso nel primo dei due momenti; 4 – Non è nei piani di Dio interrompere lo sviluppo dell’embrione nel ventre materno, anche se ci sono incidenti o cause naturali con cui a volte questo viene interrotto.

Il Nuovo Testamento sembra riassumere tutti questi concetti ed esprimerli in modo molto grafico e sublime, con occasione della visita di Maria a sua cugina Elisabetta: Ecco che, appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, le balzò in seno il bambino. Elisabetta fu ricolma di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo seno (Lc 1, 41-42), e poco più avanti: Ecco, infatti, che appena il suono del tuo saluto è giunto alle mie orecchie, il bambino m’è balzato in seno per la gioia (Lc 1,44). In questo caso, tradotto sia come ‘seno’ che come ‘grembo’, il greco del Nuovo Testamento utilizza un unico termine: κοιλίᾳ. Non c’è dubbio che lo stesso testo presenta entrambi come sinonimi. Il bambino nel grembo di Elisabetta, Giovanni Battista, non solo viveva già nel seno di sua madre, ma si trattava ormai della stessa persona che si sarebbe sviluppata in futuro, aveva già dunque la sua vocazione. Allo stesso tempo, riconosce anche la persona di Gesù, che era ancora nel seno di sua madre Maria. L’altro testo è della lettera di San Paolo ai Galati: Piacque a Colui, che mi aveva separato fin dal seno di mia madre e mi aveva chiamato in forza della sua grazia (Gal 1,15). L’allusione al salmo 139, che San Paolo senz’altro ben conosceva, è molto chiara. Tuttavia, le idee di dignità e vocazione della persona dal seno della madre sono molto evidenti.

Crediamo che il fondamento della Sacra Scrittura è molto eloquente: L’essere umano nel grembo della madre è una persona, già amata e scelta da Dio per sviluppare la sua vocazione, che ormai esiste dal momento in cui viene concepito nel utero di sua madre e inizia a crescere, ma se gli deve lasciare l’opportunità di farlo. Ecco perché Dio, attraverso la sua Parola, non vuole interrompere volontariamente lo sviluppo dell’essere nel grembo di sua madre, e non vuole che nessuno lo faccia. È nostro dovere cercare di aiutare a questo scopo e prevenire le leggi inique che cercano di imporci arbitrariamente quell’interruzione.

[1] Molti traduzioni riportano: la massa informe del mio corpo. La versione embrione appartiene alla Bibbia Concordata (cfr. https://ledibooks.com/primolevi/chapter/il-golem/).

[2] Il verbo ebraico yalad è quello che esprime la nozione di “essere nato”; il “concepire” si esprime con la radice verbale harah. In ogni caso, la distinzione tra entrambe le nozioni è molto chiara e il testo vuole deliberatamente esprimerle. La contrapposizione “giorno-notte”, tipicamente semitica, aggiunge certo enfasi alla distinzione.

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