L’UOMO E LA COSCIENZA MORALE – Catechesi di San Giovanni Paolo II

L’UOMO E LA COSCIENZA MORALE 

Veritatis Splendor – Enciclica di San Giovanni Paolo II sull’insegnamento della morale cattolica

In questi difficili e confusi tempi, in che tante nozioni vengono confuse, perfino nella morale cattolica, vogliamo presentare questi stratti di diverse Catechesi di San Giovanni Paolo II Magno sulla coscienza morale dell’uomo. Un verso gioiello oggi dimenticato.

  1. Libertà e moralità del atto umano[1]

          “Siamo . . . opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo” (Ef 2,10). La nostra Redenzione in Cristo ci abilita a compiere, nella pienezza dell’amore, quelle opere buone “che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo”. La bontà del nostro agire è il frutto della Redenzione. San Paolo perciò insegna che, in forza del fatto di essere stati redenti, noi siamo diventati “servi della giustizia” (Rm 6,18). Essere “servi della giustizia” è la nostra vera libertà.

In che cosa consiste la bontà dell’agire umano? Se facciamo attenzione alla nostra esperienza quotidiana, vediamo che, fra le varie attività in cui si esprime la nostra persona, alcune accadono in noi ma non sono pienamente nostre, mentre altre, non solo accadono in noi, ma sono pienamente nostre. Sono quelle attività che nascono dalla nostra libertà: atti di cui ciascuno di noi è autore in senso vero e proprio. Sono, in una parola, gli atti liberi. Quando l’apostolo ci insegna che siamo opera di Dio, “creati in Cristo Gesù per le opere buone”, queste opere buone sono gli atti che la persona umana, con l’aiuto di Dio, compie liberamente: la bontà è una qualità del nostro agire libero. Di quell’agire, cioè, di cui la persona è principio e causa; di cui, dunque, è responsabile.

Mediante il suo agire libero, la persona umana esprime se stessa e, nello stesso tempo, realizza se stessa. La fede della Chiesa, fondata sulla divina Rivelazione, ci insegna che ciascuno di noi sarà giudicato secondo le sue opere. Si noti: è la nostra persona che sarà giudicata in base alle sue opere. Da ciò si comprende che nelle nostre opere è la persona che si esprime, si realizza e, per così dire, si plasma. Ciascuno è responsabile non solo delle sue azioni libere, ma mediante tali azioni, diviene responsabile di se stesso.

Alla luce di questo rapporto fra la persona e il suo agire libero possiamo comprendere in cosa consista la bontà dei nostri atti, quali siano cioè le opere buone “che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo”. La persona umana non è padrona assoluta di se stessa. Essa è creata da Dio. Il suo essere è un dono: ciò che essa è e il suo esserci stesso sono dono di Dio. “Siamo, infatti, opera sua”, ci insegna l’apostolo, “creati in Cristo Gesù” (Ef 2,10). Perché è frutto delle mani creatrici di Dio l’uomo è responsabile davanti a lui di ciò che compie. Quando l’atto compiuto liberamente è conforme all’essere della persona, è buono. È necessario sottolineare questo fondamentale rapporto fra l’atto compiuto dalla persona e la persona che lo compie.

Dio Persona umana Atti liberi
Crea persona con natura Responsabile del suo agire Buoni se secondo natura  

La persona umana è dotata di una sua propria verità, di un suo proprio ordine intrinseco, di una sua propria costituzione. Quando le sue opere si accordano con questo ordine, con la costituzione propria di persona umana creata da Dio, sono opere buone “che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo”. La bontà del nostro agire scaturisce da un’armonia profonda fra la persona e i suoi atti, mentre, al contrario, il male morale segna una rottura, una profonda divisione fra la persona che agisce e le sue azioni. Nel male, l’ordine inscritto nel suo essere, che è il suo bene proprio, non è più rispettato nelle e dalle azioni. La persona umana non è più nella sua verità. Il male morale è precisamente il male della persona come tale; il bene morale è il bene della persona come tale.

Ecco perché il frutto della Redenzione in noi siano precisamente le opere buone “che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo”. Come è possibile questo? Da dove la grazia e l’efficacia per farlo? La grazia della Redenzione risana ed eleva l’intelligenza e la volontà della persona, così che la libertà di questa è resa capace, dalla grazia medesima, di agire con rettitudine.

  1. Rapporto tra legge morale e libertà[2]

            “La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce” (Rm 13,12). La Redenzione ha collocato l’uomo in un nuovo stato di vita, lo ha interiormente trasformato. Egli, perciò, deve gettare via le “opere delle tenebre”, deve, cioè, “comportarsi onestamente” camminando nella luce.

Qual è la luce in cui deve vivere colui che è stato redento? Essa è la legge di Dio: quella legge che Gesù non è venuto ad abolire, ma a portare al suo definitivo compimento (cfr. Mt 5,17). Quando l’uomo sente parlare di legge morale, pensa quasi istintivamente a qualcosa che si oppone alla sua libertà e la mortifica. D’altra parte, però, ciascuno di noi si ritrova pienamente nelle parole dell’apostolo, che scrive: “Acconsento nel mio intimo alla legge di Dio” (Rm 7,22). C’è una profonda consonanza fra la parte più vera di noi stessi e ciò che la legge di Dio ci comanda, anche se, per usare ancora le parole dell’apostolo, “nelle mie membra vedo un’altra legge che muove guerra alla legge della mia mente” (Rm 7,23).

            L’apostolo chiama la legge di Dio “legge della mia mente”. La legge morale è, nello stesso tempo, legge di Dio e legge dell’uomo. Per comprendere questa verità, dobbiamo continuamente riandare nel profondo del nostro cuore alla prima verità del Credo: “Credo in Dio Padre . . . creatore”. Dio crea l’uomo e questi, come ogni creatura, si ritrova sorretto dalla Provvidenza di Dio, poiché il Signore non abbandona nessuna delle opere delle sue mani creatrici. Questo significa che egli si prende cura della sua creatura, conducendola – con forza e soavità – al suo fine proprio, nel quale essa raggiunge la pienezza del suo essere. Anche l’uomo, anzi soprattutto l’uomo, è oggetto della Provvidenza divina: egli è condotto dalla Provvidenza divina al suo fine ultimo, alla comunione con Dio e con le altre persone umane nella vita eterna. In tale comunione l’uomo raggiunge la pienezza del suo essere personale.

L’immagine della pioggia aiuta a capire: È la stessa pioggia che feconda la terra; è la stessa identica luce del sole che genera la vita nella natura. Tuttavia, l’una e l’altra non impediscono la varietà degli esseri viventi: ciascuno di essi cresce secondo la sua propria specie, anche se identiche sono la pioggia e la luce. È questa una pallida immagine della Sapienza provvidente di Dio: essa conduce ogni creatura secondo il modo conveniente alla natura ch’è propria di ciascuna. L’uomo è soggetto alla Provvidenza di Dio in quanto uomo, cioè in quanto soggetto intelligente e libero. Come tale, egli è in grado di partecipare al progetto provvidenziale, scoprendone le linee essenziali inscritte nel suo stesso essere umano. Questo progetto creativo di Dio, in quanto conosciuto e partecipato dall’uomo, è ciò che noi chiamiamo legge morale. La legge morale è, dunque, l’espressione delle esigenze della persona umana, che è stata pensata e voluta dalla Sapienza creatrice di Dio, finalizzata alla comunione con lui.

Questa legge è la legge dell’uomo (“la legge della mia mente”, dice l’apostolo), una legge cioè che è propria dell’uomo perché solo l’uomo, in quanto soggetto personale – intelligente e libero – è partecipe della Provvidenza di Dio è alleato consapevole con la Sapienza creatrice; solo l’uomo è soggetto alla legge morale e in questo sta la sua dignità vera. Il codice di quest’Alleanza e legge non è scritto primariamente sui libri, ma nella mente dell’uomo (“la legge della mia mente”), grazie a che lui è costituito come “immagine e somiglianza di Dio”.

San Paolo aggiunge: “Voi … fratelli siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri … Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri” (Gal 5,13.15).

La libertà, come potere sganciato dalla legge morale, si rivela potere distruttivo dell’uomo: di se stesso e degli altri (“Guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri”). Questo è l’esito finale dell’esercizio della libertà contro la legge morale. La legge morale però, è ciò che garantisce la libertà, ciò che fa sì che essa sia vera, non una maschera di libertà: il potere di realizzare il proprio essere personale secondo la verità.

Questa subordinazione della libertà alla verità della legge morale non deve, peraltro, ridursi solo alle intenzioni del nostro agire. Non è sufficiente avere l’intenzione di agire rettamente perché la nostra azione sia obiettivamente retta, conforme cioè alla legge morale. Si può agire con l’intenzione di realizzare se stessi e di far crescere gli altri in umanità: ma l’intenzione non è sufficiente perché in realtà la nostra o altrui persona sia riconosciuta nell’agire. La verità espressa dalla legge morale è la verità dell’essere, come esso è pensato e voluto non da noi, ma da Dio che ci ha creati. La legge morale è la legge dell’uomo, perché è la legge di Dio. La Redenzione, restituendo pienamente l’uomo alla sua verità e alla sua libertà, gli ridona la piena dignità di persona.

  1. La legge dello Spirito[3]

            Come e in quale modo attua la Redenzione nell’uomo? Lo fa per mezzo dello Spirito Santo: E’ il dono dello Spirito che ci rende liberi della vera libertà, divenendo egli stesso la nostra legge. La persona umana agisce liberamente quando le sue azioni nascono veramente e totalmente dal suo “io”: sono azioni della persona e non soltanto azioni che accadono nella persona. Lo Spirito, che dimora nel cuore dell’uomo redento, trasforma la soggettività della persona, rendendola interiormente consenziente alla legge di Dio e al suo progetto salvifico. L’azione dello Spirito cioè fa sì che la legge di Dio, le esigenze immutabili della Verità del nostro essere creato e salvato penetrino profondamente nella nostra soggettività personale, in modo tale che questa, quando si esprime e si realizza nell’agire, non possa non esprimersi e non realizzarsi che nella Verità, la quale diviene sempre più intima alla nostra persona, così che la nostra libertà si subordina ad essa, con gioia profonda, spontaneamente.

Come agisce lo Spirito? Questo diffonde nei nostri cuori la Carità, che non è un amore qualsiasi. Essa attinge Dio stesso presente in noi come amico. Scrive san Tommaso: “È proprio dell’amicizia accontentare la persona amata in ciò che essa vuole . . . Pertanto, poiché noi siamo resi dallo Spirito amanti di Dio, dallo stesso Spirito siamo sospinti a compiere i suoi comandamenti” (San Tommaso, Summa contra gentes, IV, 22).

  1. La vera libertà e l’essere[4]

            “Voi …. Fratelli, siete stati chiamati a libertà” (Gal 5,13). La Redenzione ci pone in uno stato di libertà, frutto della presenza in noi dello Spirito, poiché “dove è lo Spirito ivi è libertà” (2 Cor 3,17).

Questa libertà è, al tempo stesso, un dono e un compito: una grazia e un imperativo. Nello stesso momento infatti in cui l’apostolo ci ricorda che siamo chiamati alla libertà, ci avverte pure del pericolo che corriamo di farne un cattivo uso: “Purché questa libertà – egli ammonisce – non divenga un pretesto per vivere secondo la carne” (Gal 5,13). E la “carne” nel vocabolario paolino, non significa “corpo umano”, ma l’intera persona umana in quanto assoggettata e chiusa in quei falsi valori che la attirano con la falsa promessa di una vita più piena (cfr. Gal 5,13 – 6,10).

Il criterio per discernere se l’uso che facciamo della nostra libertà è conforme alla nostra chiamata ad essere liberi oppure è una ricaduta nella schiavitù è la nostra subordinazione o insubordinazione alla Carità, cioè alle esigenze che da essa derivano. È importante notare che questo criterio ci è donato nella vita di Cristo: la libertà di Cristo è la vera libertà e la nostra chiamata alla libertà è chiamata a partecipare della libertà stessa di Cristo. Cristo visse nella piena libertà perché, nella radicale obbedienza al Padre “ha donato se stesso in riscatto per tutti. Questo è il messaggio della salvezza” (1Tm 2,5). Cristo è sommamente libero proprio nel momento della sua morte, nel momento della sua suprema subordinazione e obbedienza all’Amore salvifico del Padre.

“Siete stati chiamati a libertà”, dice l’apostolo. Siamo stati resi partecipi della stessa libertà di Cristo: la libertà di donare se stessi. L’espressione perfetta della libertà è la comunione nel vero amore. Davanti ad ogni persona umana si è anche aperto lo spazio di una drammatica alternativa: la scelta fra una (pseudo-) libertà di autoaffermazione, personale o collettiva, contro Dio e contro gli altri, e una vera libertà di autodonazione a Dio e agli altri. Chi sceglie l’autoaffermazione, resta sotto la schiavitù della carne, nella estraneità da Dio; chi sceglie l’autodonazione, vive già la vita eterna.

La libertà vera è quella che sta subordinata all’amore, poiché – ci insegna l’apostolo – “la Carità è la pienezza della legge” (Rm 13, 10). Da questo insegnamento possiamo capire – quello che avevamo già detto – che per l’apostolo non si dà, nell’uomo giustificato, una contrapposizione fra libertà e legge morale. Il senso ultimo di ogni norma morale è la carità, e l’amore non è altro che “volere il bene della persona amata”, della persona in se stessa. Il bene della persona è ciò che essa è: è il suo essere. Volere il bene è volere che l’altro sia nella pienezza del suo essere. Per questo, il più puro atto di amore che si possa pensare è atto creativo di Dio: esso fa sì che ciascuno di noi semplicemente sia.

C’è una connessione inscindibile fra l’amore verso una persona e il riconoscimento della verità del suo essere: la Verità è fondamento dell’amore. Si può avere l’intenzione di amare un altro, ma non lo si ama realmente se non si riconosce la verità del suo essere. Si amerebbe non l’altro, ma quell’immagine dell’altro che noi ci siamo creati e ci si esporrebbe a commettere gravi ingiustizie in nome dell’amore dell’uomo, poiché “questo uomo” non sarebbe quello reale (nel suo essere vero), ma quello pensato da noi fuori dal fondamento della sua verità oggettiva. Le norme morali sono le esigenze che emergono dalla verità di ogni essere. Ogni essere va amato in modo adeguato alla sua verità: Dio come Dio, l’uomo come uomo, le cose come cose. L’amore è la realizzazione piena di ogni norma morale, perché esso vuole il bene di ogni essere nella sua verità, la cui forza normativa nei confronti della libertà è espressa dalle norme morali.

  1. Coscienza, discernimento, e norma morale[5]

            Le parole di Paolo ci descrivono anche quale è il compito a cui è chiamata la coscienza morale dell’uomo: “Discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto” (Rm 12,2). La coscienza morale, chiamata “il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio”, dal Concilio Vaticano II (Gaudium et Spes, 16).

Cosa si intende per “discernimento” in questo campo? Se facciamo attenzione alla nostra esperienza interiore, constatiamo la presenza di un’attività spirituale, che possiamo chiamare l’attività valutativa. Ci capita di dire, o di pensare: “Questo è giusto, questo non è giusto?”. Esiste cioè, in ciascuno di noi, una sorta di “senso morale” che ci porta a discernere ciò che è bene e ciò che è male, così come esiste una sorta di “senso estetico” che ci porta a discernere ciò che è bello da ciò che è brutto. È come un occhio interiore, una capacità visiva dello spirito, in grado di guidare i nostri passi sulla via del bene.

Ma le parole dell’Apostolo hanno un significato più profondo. L’attività della coscienza morale non riguarda soltanto ciò che è bene e ciò che è male universalmente. Il suo discernimento riguarda in particolare la singola e concreta azione libera che stiamo per compiere o abbiamo compiuto. È di essa che la coscienza ci parla, è questa azione, ci dice la coscienza, che tu, nella tua singolarità, stai compiendo (o hai compiuto) è buona o è cattiva.

            Donde desume la coscienza i suoi criteri di giudizio? In base a che cosa la nostra coscienza morale giudica le azioni che stiamo per compiere o che abbiamo compiute? Il Concilio Vaticano II: “Norma suprema della vita umana è la legge divina, eterna, oggettiva e universale, per mezzo della quale Dio con un disegno di sapienza e amore ordina, dirige e governa tutto il mondo e le vie della comunità umana … l’uomo coglie e riconosce gli imperativi della legge divina attraverso la sua coscienza che egli è tenuto a seguire fedelmente in ogni sua attività, per arrivare a Dio suo fine” (Dignitatis Humanae, 3).

Si capisce allora, che a coscienza morale non è un giudice autonomo delle nostre azioni. Essa desume i criteri dei suoi giudizi da quella “legge divina, eterna, oggettiva e universale”, da quella “verità immutabile”, di cui parla il testo conciliare: quella legge, quella verità che l’intelligenza dell’uomo può scoprire nell’ordine dell’essere. È per questa ragione che il Concilio dice che l’uomo, nella sua coscienza, è “solo con Dio”. Si noti che il testo non dice soltanto: “è solo”, ma aggiunge “con Dio”. La coscienza morale non chiude l’uomo dentro una invalicabile e impenetrabile solitudine, ma lo apre alla chiamata, alla voce di Dio. In questo sta tutto il mistero e la dignità della coscienza morale: nell’essere il luogo, lo spazio santo nel quale Dio parla all’uomo. Di conseguenza, se l’uomo non ascolta la propria coscienza, se consente che in essa prenda dimora l’errore, egli spezza il vincolo profondo che lo stringe in alleanza con il suo Creatore.

             Se la coscienza morale non è l’istanza ultima che decide ciò che è bene e ciò che è male, deve conformarsi alla verità immutabile della legge morale, ne consegue che essa non è giudice infallibile: può errare. Questo punto merita oggi una particolare attenzione. “Non conformatevi” insegna l’apostolo, “alla mentalità di questo mondo, ma rinnovatevi nello spirito della vostra mente” (Rm 12, 2). Nei giudizi della vostra coscienza si annida sempre la possibilità dell’errore. La conseguenza che deriva da tale errore è molto seria: quando l’uomo segue la propria coscienza errata, la sua azione non è retta, non realizza obiettivamente ciò che è bene per la persona umana. E questo, per il semplice fatto che il giudizio della coscienza non è l’ultima istanza morale.

            Certo, “succede non di rado – come il Concilio segnala – che la coscienza sia erronea per ignoranza invincibile” In tal caso essa “non perde la sua dignità”, e l’uomo che ne segue il giudizio non pecca. Lo stesso testo conciliare, però, prosegue: “Ma ciò non si può dire quando l’uomo poco si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all’abitudine del peccato” (Dignitatis Humanae, 3).

Non è dunque sufficiente dire all’uomo: “Segui sempre la tua coscienza”. È necessario aggiungere subito e sempre: “Chiediti se la tua coscienza dice il vero o il falso, e cerca instancabilmente di conoscere la verità”. Se non si facesse questa necessaria precisazione, l’uomo rischierebbe di trovare nella sua coscienza una forza distruttrice della sua umanità vera, anziché il luogo santo ove Dio gli rivela il suo vero bene. È necessario “formare” la propria coscienza. In tale impegno il credente sa di avere un particolare aiuto dalla dottrina della Chiesa. “Infatti per volontà di Cristo la Chiesa cattolica è maestra di verità, e il suo compito è di annunziare e di insegnare in modo autentico la verità che è Cristo, e nello stesso tempo di dichiarare e di confermare con la sua autorità i principi dell’ordine morale che scaturiscono dalla stessa natura umana” (Ivi, 14).

  1. Coscienza cresce e matura nella Chiesa[6]

            “Affinché non siamo più come fanciulli sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l’inganno degli uomini, con quella loro astuzia che tende a trarre nell’errore” (Ef 4,14).

L’apostolo Paolo richiama con queste parole alla necessità di essere persone adulte nella fede, mature nei nostri giudizi, in possesso di una coscienza morale capace di guidare le nostre scelte in armonia con “la verità nella carità” (Ef 4,15). “Formare” la propria coscienza è compito fondamentale. La ragione è molto semplice: la nostra coscienza può errare. E l’errore, quando prevale su di essa, diviene causa del più grave danno per la persona umana: impedisce che l’uomo realizzi se stesso, subordinando l’esercizio della libertà alla verità.

Il cammino verso una coscienza morale matura, tuttavia, non può neppure avere inizio, se lo spirito non è libero da una malattia mortale, oggi molto diffusa: l’indifferenza verso la verità. Per poter rispondere su come la verità abiti nella nostra coscienza, dobbiamo per primo ritenere che la verità sia un valore di importanza decisiva per l’uomo.      L’indifferenza verso la verità si manifesta, ad esempio, nel ritenere che la verità e la falsità, in etica, siano soltanto una questione di gusti, di decisioni personali, di condizionamenti culturali e sociali; oppure che sia sufficiente eseguire ciò che pensiamo, senza preoccuparci ulteriormente se ciò che pensiamo sia vero o falso; o anche che il nostro essere graditi a Dio non dipenda affatto dalla verità di ciò che noi pensiamo di lui, ma solo dal credere sinceramente in ciò che noi professiamo. Indifferenza verso la verità è ancora il ritenere più importante per l’uomo cercare la verità che raggiungerla, giacché questa gli sfugge irrimediabilmente; e confondere il rispetto dovuto ad ogni persona, qualunque siano le idee che professa, con la negazione dell’esistenza di una verità obiettiva.

Se una persona umana è indifferente, nel senso sopraddetto, verso la verità, non si darà pensiero della formazione della propria coscienza, e finirà, presto o tardi, per confondere la fedeltà alla propria coscienza con l’adesione a una qualsiasi opinione personale o all’opinione della maggioranza.

Donde deriva questa gravissima malattia spirituale? La sua origine ultima è l’orgoglio, nel quale, secondo tutta la tradizione etica della Chiesa, sta la radice di ogni male umano. L’orgoglio porta l’uomo ad attribuirsi il potere di decidere, come arbitro supremo, di ciò che è vero e di ciò che è falso; a negare, cioè, la trascendenza della verità nei confronti della nostra intelligenza creata e a contestare, di conseguenza, il dovere di aprirsi ad essa. Appare chiaro, allora, che l’origine dell’indifferenza verso la verità risiede nelle profondità del cuore umano. Non si trova la verità, se non la si ama; non si conosce la verità, se non si vuole conoscerla.

Mezzi per discernere questa verità: Per discernere concretamente ciò che è bene da ciò che è male non è sufficiente – anche se necessaria – la conoscenza della legge morale universale, ma è necessaria anche una sorta di “connaturalità” fra la persona umana e il vero bene (cfr., San Tommaso, Summa theologiae, II-II, q. 45, a.2).[7] In forza di questa “connaturalità”, la coscienza diviene capace, quasi per una forma di istinto spirituale, di percepire da quale parte stia il bene e quale sia perciò la scelta che s’impone nel caso concreto. Ebbene, la grazia del Sacramento della Penitenza, assiduamente e fervorosamente celebrato, produce nella persona umana questa progressiva e sempre più profonda “connaturalizzazione” con la verità e il bene.

Nel testo paolino, da cui ha preso avvio questa nostra riflessione, si dice che Cristo “ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti . . . al fine di edificare il corpo di Cristo”. Ebbene: è nella Chiesa che la coscienza morale della persona cresce e matura; dalla Chiesa essa è aiutata a “non essere portata qua e là da qualsiasi vento di dottrina, secondo l’inganno degli uomini”. La Chiesa, infatti, è “colonna e sostegno della verità” (1Tm 3,15). La fedeltà al Magistero della Chiesa impedisce, pertanto, alla coscienza morale di sviarsi dalla verità circa il bene dell’uomo.      

           

[1] Catechesi del 20/7/83: http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/audiences/1983/documents/hf_jp-ii_aud_19830720.html

[2] Catechesi del 27/7/83: http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/audiences/1983/documents/hf_jp-ii_aud_19830727.html

[3] Catechesi del 3/8/83: http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/audiences/1983/documents/hf_jp-ii_aud_19830727.html

[4] Cfr. Catechesi 10/8/83: http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/audiences/1983/documents/hf_jp-ii_aud_19830810.html

[5] Catechesi del 17/8/83: http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/audiences/1983/documents/hf_jp-ii_aud_19830817.html

[6] Catechesi del 24/8/83: http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/audiences/1983/documents/hf_jp-ii_aud_19830824.html

[7] «La sapienza implica una rettitudine di giudizio secondo criteri divini. Ora, la rettitudine del giudizio può derivare da due fonti diverse: primo, dal perfetto uso della ragione; secondo, da una certa connaturalità con le cose di cui si deve giudicare. In materia di castità, p. es., può giudicare rettamente uno il quale ha imparato la morale; mentre chi ha la virtù della castità giudica rettamente per una certa connaturalità. Perciò avere un retto giudizio delle cose di Dio, conosciute mediante la ricerca razionale, appartiene alla virtù intellettuale della sapienza; ma avere un retto giudizio su codeste cose mediante una certa connaturalità appartiene alla sapienza che è un dono dello Spirito Santo: cioè come Dionigi afferma di Jeroteo, che è perfetto nelle cose di Dio “non soltanto imparando; ma sperimentando le cose divine”. Ora, questa esperienza e connaturalità con le cose divine si attua con la carità, la quale ci unisce a Dio, secondo le parole di S. Paolo: “Chi si unisce a Dio forma un unico spirito con lui”. Perciò il dono della sapienza ha la sua causa, cioè la carità, nella volontà; ma la sua essenza risiede nell’intelletto, a cui appartiene, come abbiamo visto in precedenza, l’atto di giudicare rettamente».

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