L’ indissolubilità del matrimonio nel grande mistero di Cristo e della Chiesa (Ef 5,21-33)

Sponsalizio di Maria e Giuseppe (dettaglio: Santuario Nostra Signora del Monte, Anjara, Giordania)

Sposalizio di Maria e Giuseppe (dettaglio: Santuario Nostra Signora del Monte, Anjara, Giordania)

        Presentiamo un’altro capitolo del libro: L’uomo non separi ciò che Dio ha unito, del padre Gonzalo Ruiz Freites, IVE, in quest’opportunità sull indissolubilità del matrimonio nel grande mistero di Cristo e della Chiesa (Ef 5,21-33)

Il testo di Ef 5,21-33 è molto ricco e pieno di spunti teologici su Cristo come Capo della Chiesa, sulla Chiesa stessa, su alcuni sacramenti, soprattutto sul matrimonio. In questa sede noi evidenzieremo soltanto ciò che si riferisce all’intrinseca e assoluta indissolubilità del matrimonio[1]. San Paolo, infatti, l’afferma qui con grande veemenza e chiarezza argomentativa. In questo modo, anche se in maniera indiretta, l’Apostolo esclude la possibilità del divorzio, e a fortiori, il precetto mosaico che regolava la pratica del divorzio mediante il rilascio del libello di ripudio. È in questa medesima lettera che l’Apostolo insegna che Cristo “ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso […] un solo uomo nuovo” (Ef 2,15).

Presentiamo in primo luogo il testo e la sua divisione. Poi indicheremo i principali punti che Paolo afferma sul matrimonio, tenendo conto del contesto di tutta la lettera.

a.      Caratteristiche del testo di Ef 5,21-33

21Siate sottomessi gli uni agli altri nel timore di Cristo: 22le mogli lo siano ai loro mariti, come al Signore; 23il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo. 24E come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli ai loro mariti in tutto.

25E voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, 26per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, 27e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. 28Così anche i mariti hanno il dovere di amare le proprie mogli come il proprio corpo: chi ama la propria moglie, ama se stesso. 29Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, 30poiché siamo membra del suo corpo. 31Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne.32Questo mistero è grande: ma io lo dico di Cristo e della Chiesa! 

33Così anche voi: ciascuno da parte sua ami la propria moglie come se stesso, e la moglie sia rispettosa verso il marito.

Il testo è molto omogeneo[2]. La sua unità è chiara, sia dal punto di vista sintattico, sia dal punto di vista del contenuto, rivolto interamente agli sposi cristiani, tanto ai mariti come alle mogli. C’è una sorta di inclusione tra il primo versetto (21), che comincia con l’esortazione “siate sottomessi gli uni agli altri”, e l’ultimo versetto (33), che applica il principio detto nel v. 21 affermando: “ciascuno da parte sua ami la propria moglie come se stesso, e la moglie sia rispettosa verso il marito”. La differenza tra le due affermazioni è dovuta allo sviluppo del pensiero di S. Paolo tra l’uno e l’altro versetto[3].

La pericope si inserisce nella seconda parte della lettera, che è fortemente esortativa, mentre la prima è piuttosto dottrinale. In questa seconda parte, dopo una esortazione all’unità e a vivere la vita nuova in Cristo (4,1-5,20), Paolo si riferisce alla costituzione ontologica del matrimonio cristiano e alla morale domestica, dando tre gruppi di comandamenti: ai mariti e alle mogli (5,22-33); ai figli e ai genitori (6,1-4); agli schiavi e ai padroni (6,5-9). Dopo farà un’esortazione al combattimento spirituale (6,10-20), prima di dare notizie personali e di congedarsi (6,21-24). Molto importante è notare che gli insegnamenti rivolti agli sposi cristiani trovano il loro fondamento e corrispondenza nella prima parte (dottrinale) della lettera.

La pericope rivolta agli sposi cristiani è quella più lunga ed è l’unica in cui Paolo darà come fondamento di ciò che sta insegnando l’unità ontologica tra Cristo e la Chiesa. Negli altri due gruppi di esortazioni domestiche, infatti, il motivo cristologico è messo piuttosto come esemplare, normativo o istruttivo (cfr. 6,1.4-7.9). Quando parla agli sposi, invece, il motivo cristologico corrispondente è collocato primariamente al livello ontologico ed è definito come grande mistero (v. 32).

Il tema dell’intera pericope è l’unità tra mariti e mogli cristiani e quali debbano essere gli atteggiamenti reciproci che ne derivano. Paolo, infatti, non parla soltanto dal punto di vista dell’agire (essere sottomessi, amarsi, rispettarsi), ma anche dal punto di vista dell’essere, che costituisce il fondamento ontologico dell’agire: tra marito e moglie c’è un’unità talmente profonda che si può paragonare all’unità indissolubile tra Cristo e la Chiesa. Per questo paragone, che non è estrinseco ma ontologico, l’Apostolo usa due analogie: la prima, fondamentale, è quella del capo e del corpo, che costituiscono una massima unità; la seconda è l’analogia di essere tra di essi una sola carne.

Non è semplice dividere internamente la pericope, perché lo sviluppo del pensiero di Paolo è come concentrico, al modo rabbinico, dove una parte o una parola prepara ciò che segue, con grande unità narrativa. Dal punto di vista dei destinatari e della sintassi possiamo distinguere tre sezioni[4]. Nella prima, dopo la esortazione iniziale e generale di essere sottomessi gli uni agli altri, Paolo si rivolge direttamente alle spose cristiane (vv. 22-24). Nella seconda, invece, con un nuovo inizio, si rivolge ai mariti in maniera molto più estesa (vv. 25-32). Nella terza, poi, si rivolge a entrambi (v. 33). Questo versetto finale è una nuova esortazione, conclusiva, nella quale Paolo discrimina e riassume ciò che spetta ai mariti (amare le proprie spose come se stessi) e ciò che spetta alle mogli (essere reverenti verso i mariti).

 b.      Cristo capo della Chiesa nell’esortazioni alle spose cristiane (vv. 22-24)

Nella prima sezione Paolo indica quale debba essere l’atteggiamento delle spose utilizzando l’analogia fondante del capo e del corpo. Quest’analogia è applicata sia al marito come capo della moglie, sia a Cristo come Capo della Chiesa. Di Cristo, però, si dice qualcosa che non si afferma dei mariti: Cristo, essendo Capo della Chiesa suo corpo, è anche il Salvatore del Corpo (v. 23: sōtēr tou sōmatos)[5]. Questa affermazione, unica in tutto il NT, prepara ciò che Paolo dirà nella seconda sezione, nella quale non soltanto parlerà dell’unità ontologica tra Cristo e la Chiesa, ma anche de ciò che Cristo ha fatto per santificare la Chiesa.

Nella prima sezione, dunque, troviamo il primo fondamento dell’unità tra marito e moglie cristiani: l’unità di Cristo con la Chiesa, della quale Egli è il Capo e Salvatore. La formula greca per esprimere l’analogia, con l’espressione “come anche (hōs kai) Cristo è Capo della Chiesa” (v. 23) indica una somiglianza stretta. Paolo definisce il luogo del marito e della moglie nel loro rapporto reciproco con l’unità tra Cristo Capo e la Chiesa corpo. Subito dopo, nel v. 24, stabilisce una conseguenza pratica di questa somiglianza ontologica, perché allo stato in cui si trovano gli sposi deve corrispondere una attuazione adeguata: “come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli lo siano ai loro mariti in tutto” (con la costruzione greca hōs…. houtos).

Già in queste prime affermazioni si vede che l’unità tra gli sposi non trova semplicemente un modello nell’unità tra Cristo Capo e la Chiesa corpo, ma è fondata in essa. Il matrimonio cristiano non è semplicemente un’immagine visibile dell’unità invisibile tra Cristo e la Chiesa, ma si fonda in essa ed è allo stesso tempo una realtà che la significa[6].

In altri passaggi della lettera, soprattutto nella parte dottrinale, Paolo ha parlato molte volte dell’unità del Corpo di Cristo, con Cristo come Capo e noi come sue membra, e dunque, come membra gli uni degli altri. Così in 1,22-23 afferma che Dio “ha messo tutto sotto i suoi piedi (di Cristo) e lo ha dato alla Chiesa come capo su tutte le cose: essa è il corpo di lui, la pienezza di colui che è il perfetto compimento di tutte le cose”.

In 2,4-7 Paolo parla in modo molto forte dell’unità tra Cristo e noi, stabilendo anche una sorte di escatologia anticipata per la nostra incorporazione a Cristo: “Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto con-rivivere con Cristo (sunezōopoiēsen): per grazia siete salvati. Con lui ci ha anche con-risuscitato (sunēgeiren) e ci ha fatto con-sedere (sunekathisen) nei cieli, in Cristo Gesù, per mostrare nei secoli futuri la straordinaria ricchezza della sua grazia mediante la sua bontà verso di noi in Cristo Gesù”[7].

In 2,15-16, parlando del sacrificio di Cristo, dice: “Così egli ha abolito la Legge, fatta di prescrizioni e di decreti, per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, eliminando in se stesso l’inimicizia”.

In 3,6 dice ancora: “le genti sono chiamate, in Cristo Gesù, a condividere la stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della stessa promessa per mezzo del Vangelo”.

In 4,4-6: Un solo corpo e un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo”.

In 4,11-16 dirà ancora: “Egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo. Così […] agendo secondo verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa tendendo a lui, che è il capo, Cristo. Da lui tutto il corpo, ben compaginato e connesso, con la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, cresce in modo da edificare se stesso nella carità”.

In 4,25 dirà: “siamo membra gli uni degli altri”[8].

L’unità della Chiesa con Cristo è un’idea forte nella teologia di Paolo, sviluppata molte volte nelle sue lettere. Nell’epistola agli Efesini c’è però un’insistenza notevole. Nel pensiero di Paolo i cristiani in virtù del battesimo formano con Cristo un solo Corpo, del quale Cristo è Capo, Salvatore e principio di unità. Il punto cruciale della pericope che stiamo analizzando, però, è che quell’unità misteriosa e principale tra Cristo e le sue membra e fra le membra tra di loro ha un’espressione massima e unica nell’unità degli sposi cristiani. E questo non soltanto come un’immagine, ma come una realtà.

Di fatto, i due verbi che nella sezione esprimono la realtà dell’unità tra Cristo e la Chiesa e dell’unità tra marito e moglie sono al presente del modo indicativo, il che sottolinea fortemente che Paolo sta parlando della sfera reale. Inoltre, Paolo non ripete i verbi nei secondi membri nei due paragoni. Questa duplice e volontaria omissione dà maggiore coesione e identità ai membri delle due comparazioni. Così il verbo essere nel v. 23 è al presente indicativo (estin), e, collocato da Paolo una sola volta all’inizio regge tutto il paragone: “il marito è capo della moglie come anche Cristo [è] capo della Chiesa, lui [che è] il salvatore del corpo”. Lo stesso utilizzo si vede con il verbo sottomettersi nel v. 24: è al presente indicativo, questa volta alla voce passiva (hupotassetai), e, messo da Paolo una sola volta, regge i due membri del paragone tra la Chiesa e la moglie: “e come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le mogli ai loro mariti in tutto”.

Si tratta dunque di una realtà e non soltanto di una bella immagine o di una semplice significazione: Cristo è Capo della Chiesa e forma con essa un solo corpo; allo stesso modo il marito è capo della moglie e forma con essa un solo corpo. Questa è la prima e fondamentale unità tra gli sposi cristiani. Paolo, però, andrà oltre per indicare ancora un altro aspetto specifico della loro unità.

 c.      Cristo sposo della Chiesa nell’esortazione ai mariti cristiani (vv. 25-32)

La seconda sezione è la principale, tutta rivolta ai mariti cristiani. Paolo continua sviluppando il suo pensiero sull’unità degli sposi a somiglianza dell’unità tra Cristo e la Chiesa, ma in questa parte egli si sofferma maggiormente nel mostrare ciò che Cristo ha fatto per la Chiesa, perché vuole fondare su questo agire il precetto che dà ai mariti: amate le vostre mogli (vv. 25.28.33). Di nuovo, però, Paolo indica che l’agire di Cristo verso la Chiesa è fondato ontologicamente nell’unità dell’essere tra Cristo e la Chiesa, aggiungendo a ciò che aveva già detto nei vv. 23-24 (unità Capo-corpo) un’immagine nuziale (v. 27). Da ciò deduce che, allo stesso modo, l’amore del marito per la moglie, e la sua cura, è fondato sull’unità ontologica tra di loro, perché essi sono una sola carne. Per rafforzare ancora la sua argomentazione e indicare l’aspetto misterioso di tutto ciò, cita in fine l’autorità della Scrittura (Gn 2,24). Cercheremo di spiegare queste affermazioni in maniera ordinata.

L’Apostolo comincia con un comandamento: “mariti, amate le vostre mogli”. E fonda quest’ordine nell’agire di Cristo per la Chiesa: “come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei” (v. 25). L’espressione “come anche” (kathōs kai) con la quale Paolo presenta il paragone include in sé l’aspetto di comparazione, ma esprime anche un fondamento, come si vede nell’uso della stessa espressione in Ef 5,2 e, nella nostra pericope, in 5,29[9]. L’amore del marito per la moglie, dunque, è una riproduzione o partecipazione dell’amore di Cristo per la Chiesa, perché in esso è fondato.

Paolo sviluppa in questa sezione ciò che Cristo ha fatto per la Chiesa, perché in questo agire di Cristo si fonda l’agire dei mariti verso le proprie mogli: “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per Lei”. Questa presentazione dell’amore di Cristo per la Chiesa, che lo ha spinto fino al punto di dare se stesso per Lei, è uno sviluppo di ciò che ha detto concisamente nella sezione precedente, e cioè che Cristo è il Salvatore del corpo (della Chiesa)[10]. Questo consegnare se stesso per la Chiesa si riferisce, dunque, al sacrificio mediante il quale Cristo ha salvato la Chiesa, suo corpo[11].

– Le finalità dell’offerta sacrificale di Cristo per la Chiesa (vv. 26-27)

In seguito Paolo ci sorprende, perché normalmente quando egli utilizza la espressione “per essa” (huper autēs) si riferisce alla liberazione dal peccato e dal mondo[12].  In questo caso però egli dà un’interpretazione diversa, unica nel NT, in stretto rapporto con il mistero pasquale. Lo fa mediante due frasi che esprimono finalità, delle quali la seconda è più coordinata che subordinata alla prima[13]: Cristo ha consegnato se stesso per la Chiesa “per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (vv. 26-27).

 1.      Prima finalità espressa nel testo: santificare la Chiesa mediante il battesimo (v. 26)

Nella prima frase che esprime finalità (v. 26), Paolo dice che lo scopo dell’offerta sacrificale di Cristo è santificare (hagiazein) la Chiesa, e questa santificazione avviene per mezzo di una purificazione con il lavacro dell’acqua mediante la parola, cioè nel battesimo[14]. Siamo, dunque, nell’ambito sacramentale.

La santificazione della Chiesa ha il suo fondamento, la sua ragione di essere, nel sacrificio che Cristo ha fatto di sé (nel mistero pasquale nel suo insieme), ma di fatto si avvera nella purificazione che si attua nel battesimo. In questa concisa frase si trovano impliciti almeno due elementi della teologia paolina della Chiesa come Corpo di Cristo: il battesimo è una partecipazione al mistero pasquale, perché ci ha purificato dai peccati in virtù del sacrificio di Cristo e ci ha vivificati in virtù della sua risurrezione[15]; inoltre, il battesimo ci ha incorporati a Cristo, ci ha fatto diventare una sola cosa con Lui, membra del suo Corpo[16].

Paolo, dunque, nel rivolgersi ai mariti sta sviluppando ciò che ha detto prima alle mogli sulla realtà di Cristo come Capo della Chiesa (vv. 22-24).

 2.      Seconda finalità espressa nel testo: abbellire e sposare la Chiesa (v. 27)

La seconda frase di finalità (v. 27) spiega ancor più in cosa consista la santificazione della Chiesa per la quale Cristo si è offerto. È qui che l’Apostolo introduce il linguaggio matrimoniale per esprimere il rapporto Cristo-Chiesa, dicendo che tale offerta sacrificale aveva anche lo scopo di “presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata”.

Il verbo per indicare questa “presentazione” della Chiesa che Cristo fa a se stesso è paristanein (o paristēmi). Nella LXX e nel NT questo verbo indica le forme più variegate di collocare qualcosa, e può significare mostrare, presentare, offrire, mettere a disposizione. Il senso preciso nel nostro testo va desunto, dunque, dal contesto, nel quale l’Apostolo parla del matrimonio. In 2 Cor 11,2 Paolo adopera lo stesso verbo per indicare che egli ha presentato i corinzi a Cristo come se essi fossero una fidanzata: “io provo infatti per voi una specie di gelosia divina: vi ho promessi infatti a un unico sposo, per presentarvi a Cristo come vergine casta”.  In questo contesto, dunque, il verbo paristanein indica l’azione di presentare la fidanzata per sposarla. La particolarità qui è che Paolo afferma che Cristo ha presentato la Chiesa a se stesso per sposarla, e questo è messo in parallelo con l’azione di santificarla menzionata nel versetto precedente.

È importante notare come si intreccino le cose che sono accadute e quelle che invece accadono o devono accadere[17]. È chiaro nel testo che questa azione di presentare a se stesso la Chiesa per sposarla è già avvenuta nell’offerta sacrificale di Cristo. I versetti 23 e 29-32 parlano di un matrimonio tra Cristo e la Chiesa che è già accaduto e appartiene alla sfera reale. Ma allo stesso tempo questa presentazione della Chiesa si rinnova in ogni battesimo di ogni credente. È dunque una azione continua nella quale Cristo santifica la Chiesa in ciascuno dei suoi membri. La Chiesa si avvicina come fidanzata a Cristo in ogni battesimo, e in ogni battesimo Egli continuamente la presenta a se stesso per santificarla. La costruzione della frase, con la ripetizione del pronome personale egli, messo due volte dopo il verbo presentare, mette una chiara enfasi nel fatto che chi svolge l’azione di presentare la Chiesa come fidanzata è Cristo, e quest’azione ha per finalità congiungere la Chiesa a Cristo stesso: “per presentare egli a se stesso (autos heautōi) la Chiesa gloriosa…”. Paolo descrive dunque la Chiesa nel suo continuo sposalizio con Cristo, sempre rinnovato, descrivendola nei vv. 22-24 come sposa, nei vv. 25-27 come fidanzata e nei vv. 28-32 nuovamente come sposa.

L’analogia diventa dunque più complessa, perché dalla somiglianza Capo-corpo (kefalē-sōma) che stabiliva un modo di rapporto tra marito e moglie a somiglianza del rapporto tra Cristo e la Chiesa, si passa a una più esplicita descrizione nuziale tra Cristo e la Chiesa, che prepara ciò che Paolo dirà in seguito, sia in riferimento a Cristo e alla Chiesa, sia in riferimento ai mariti e alle mogli cristiani. Non possiamo descrivere dettagliatamente in questa sede gli effetti dello sposalizio tra Cristo e la Chiesa, ma aiuta al nostro scopo notare qualche particolare.

L’effetto dell’agire di Cristo è che la Chiesa si presenti “gloriosa, senza macchia ne ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (v. 27).

Per evidenziare che quando Paolo parla qui della Chiesa parla anche dei singoli membri, bisogna notare che le ultime due caratteristiche o effetti delle nozze di Cristo con la Chiesa, e cioè che essa sia santa e immacolata (hagia kai amōmos), sono le stesse che Paolo ha applicato nel primo capitolo della lettera ai membri di Cristo parlando del misterioso disegno al quale Dio ci aveva predestinato già prima della fondazione del mondo: “In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati (hagious kai amōmous) di fronte a lui nella carità, predestinandoci a essere per lui figli adottivi mediante Gesù Cristo” (Ef 1,4-5; le medesime affermazioni si trovano in Col 1,22). Questa menzione del disegno originario di Dio in Cristo prima della fondazione del mondo all’inizio della lettera e la sua ripresa nel nostro testo hanno una loro importanza per la spiegazione della citazione che Paolo farà in seguito del testo di Gn 2,24 in riferimento alla creazione dell’uomo e della donna, al loro diventare una sola carne per volere di Dio e all’applicazione di tutto ciò a Cristo e alla Chiesa (v. 31).

– La citazione di Gn 2,24 e il “grande mistero” (vv. 31-32)

A questo punto l’Apostolo applica ciò che ha detto di Cristo e della Chiesa ai mariti cristiani, preparando la citazione di Gn 2,24 che seguirà. Essendo l’unità ontologica tra Cristo e la Chiesa, sia come Capo e corpo, sia come Sposo e sposa, il fondamento dell’unione tra gli sposi cristiani, l’agire di Cristo per la Chiesa deve anche fondare l’agire dei mariti in confronto alle mogli.

Paolo però aggiunge ancora un nuovo elemento, che in realtà esplicita ciò che già era implicito nell’immagine capo-corpo e nella presentazione della Chiesa come sposa di Cristo: gli sposi, a somiglianza di Cristo e della Chiesa, nel formare uno stesso corpo hanno anche una medesima carne (vv. 29-30), in modo che amare l’altro è amare se stesso.

Vale la pena far notare la genialità letteraria con la quale Paolo afferma la forte e inseparabile unità degli sposi. Egli ripete quattro volte il pronome riflessivo di terza persona singolare (heautou) in posizione attributiva con valore di aggettivo possessivo (in genitivo)[18]. Ricorrendo come aggettivo possessivo, heautou qualifica tre volte l’oggetto diretto del verbo amare (agapaō) e una volta l’oggetto del verbo odiare (miseō). D’altra parte Paolo va alternando volta per volta i termini con cui indica gli oggetti diretti dei due verbi: prima l’oggetto è le proprie mogli, dopo il proprio corpo, poi la propria moglie, ed infine la propria carne (in questo caso come oggetto del verbo odiare). Una volta, invece, usa lo stesso pronome solo (dunque con il suo valore di pronome), ma sempre come oggetto diretto dello stesso verbo amare (in accusativo): ama se stesso. In questo modo Paolo rimarca fortemente l’unità tra marito e moglie, che appare così come una vera identità, in modo che amare la propria moglie equivale ad amare il proprio corpo e la propria carne, cioè, in fin dei conti, è amare se stesso[19]. Il fondamento di quella unità/identità è riassunto da Paolo quasi come una conclusione, ma che ha valore causale (introdotta dalla particella hoti)[20]: poiché siamo membra del Corpo di Cristo (v. 30): “Così anche i mariti hanno il dovere di amare le proprie mogli (tas heautōn gunaikas) come il proprio corpo (ta heautōn sōmata): chi ama la propria moglie (tēn heautou gunaika), ama se stesso (heauton agapai). Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne (tēn heautou sarka), anzi la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo” (vv. 28-30).

Paolo non sta parlando in questo testo del divorzio, ma è evidente che ha in mente le difficoltà che possono sorgere nel rapporto marito-moglie (per esempio, con la menzione dell’odio verso la propria carne nel v. 29). Il tema della pericope non è direttamente l’indissolubilità, ma di fatto questa intrinseca caratteristica del matrimonio non potrebbe essere fondata ed affermata in maniera più forte che con queste immagini e in questo modo letterario. Paolo, infatti, indica sia il piano ontologico (l’essere un medesimo corpo/medesima carne) sia l’agire che ne deriva (amare la propria carne, nutrirla e curarla, non odiarla). Il fondamento è sempre l’unione ontologica tra Cristo e la Chiesa: poiché siamo membra del suo corpo (v. 30)[21]; e l’agire di Cristo per la Chiesa: come anche Cristo fa con la Chiesa (v. 29).

Nel suo ragionamento, pieno di forza retorica, Paolo cambia i termini con cui descrive l’unità tra Cristo e la Chiesa e tra gli sposi cristiani per preparare ciò che dirà in seguito. Fino a questo punto, infatti, egli ha parlato di unità del corpo (sōma), ma giunto a questo punto inserisce il termine carne (sarx) a motivo della citazione di Gn 2,24 che vuole introdurre subito dopo[22]: “Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne” (v. 31).

La funzione della citazione è confermare il rapporto di unità intrinseca tra Cristo e la Chiesa e tra gli sposi cristiani. Allo stesso tempo ha la forza esortativa di un nuovo argomento, quello dell’autorità della Scrittura, per spingere gli sposi ad amare le proprie mogli[23].

Il riferimento a Gn 2,24, come abbiamo già detto nel trattare il testo di Matteo dove Gesù adopera la medesima citazione, rimanda al disegno del Creatore fin dal principio, quando creò l’essere umano nella sua diversità maschio-femmina e volle che i due diventassero una sola carne, una sola cosa, in maniera indissolubile[24].

Nella lettera agli Efesini però ci sono due aspetti non presenti esplicitamente né in Genesi né in Matteo (e Marco), ovvero il riferimento a Cristo e alla Chiesa e il riferimento nel contesto al disegno di Dio su di noi in Cristo prima della fondazione del mondo[25]. Vediamo brevemente questi aspetti.

Subito dopo l’introduzione della citazione, Paolo afferma: “Questo mistero è grande: ma io lo dico di Cristo e della Chiesa!” (v. 32). Il mistero grande, anche se lo include, non è soltanto ciò che il brano della Genesi citato contiene in sé, e nemmeno il mistero del matrimonio come tale, ma il mistero del rapporto tra il matrimonio istituito da Dio nell’atto creatore e l’unione di Cristo con la Chiesa. Ma il suo contenuto principale è quest’ultima unione. Si tratta di un rapporto tipologico che allo stesso tempo ha un’efficacia causale. H. Schlier commenta così: “il mistero grande… è l’evento descritto nel brano biblico, evento che è ‘tupos’ de Cristo e della ‘ekklesia’. L’evento del quale parla Gn 2,24 copre e scopre allo stesso tempo. Così S. Paolo, interpretandolo rettamente, lo comprende come riferito al matrimonio tra Cristo e la Chiesa”[26].

Nella Lettera agli Efesini, dunque, la citazione della Genesi non viene applicata in prima istanza alla relazione coniugale, ma al rapporto Cristo-Chiesa, del quale la relazione coniugale è un segno[27]. La parola mustērion, infatti, implica un mostrare e un nascondere allo stesso tempo la realtà significata[28]. Qui il termine viene applicato a due rapporti che sembrano diversi (Cristo-Chiesa; marito-moglie), ma che in realtà s’intrecciano. Si tratta, in un certo modo, di due aspetti della stessa realtà e non di realtà diverse. Per questo il matrimonio di cui parla Gn 2,24 è, secondo Paolo, in primo luogo quello di Cristo e della Chiesa. Ma questo stesso matrimonio si riproduce (perché viene significato efficacemente) ogni volta che si avvera un matrimonio tra un uomo e una donna, perché il matrimonio cristiano partecipa misteriosamente della realtà dell’unione tra Cristo e la Chiesa, e allo stesso tempo è il suo mustērion, il suo segno visibile[29].

In questo modo l’unione Cristo-Chiesa illumina e fonda l’unione tra gli sposi cristiani, e quest’ultima è un segno che a sua volta rischiara il rapporto Cristo-Chiesa[30]. Per molti autori Paolo sta indicando una correlazione molto forte e intrinseca tra la relazione Cristo-Chiesa e quella marito-moglie. Dal punto di vista dell’unione che viene a prodursi, in entrambi i casi si parla di un’unica carne, e dunque di un’unione indissolubile[31].

Inoltre, il grande mustērion menzionato qui da Paolo include in sé il disegno di Dio prima della fondazione del mondo, al quale si è riferito nell’inizio della lettera (cfr. Ef 1,3-6)[32]. Prima di creare l’uomo come maschio e femmina, Dio ha prescelto (verbo eklegomai) i membri di Cristo affinché siano santi e immacolati in Lui, in virtù cioè dell’incorporazione a Cristo. In altre parole, ci ha scelti per essere membra della Chiesa suo Corpo, santa e immacolata, inseparabilmente unita a Lui. Nella creazione dell’uomo e della donna, e nel suo disegno che diventassero una sola carne (Gn 2,24), soggiaceva dunque il mistero dell’unione indefettibile tra Cristo e la Chiesa. Questo mistero ha preceduto la creazione del mondo.

Questa conclusione è importante perché lo stesso Gesù, nell’abolire il precetto mosaico che consentiva il ripudio della propria moglie, cita questo medesimo testo della Genesi ed indica il volere di Dio fin dal principio: che l’uomo e la donna sposati diventino una sola e indissolubile carne. Dopo la caduta originale, che ha deturpato il rapporto mutuo degli sposi, Mosè aveva avuto una certa condiscendenza permettendo il divorzio. Questa però non era la parola definitiva. All’inizio della lettera agli Efesini, infatti, S. Paolo spiega che nel misterioso disegno di Dio era previsto che giunta la pienezza dei tempi tutte le cose, sia celesti sia terrestri, fossero ricapitolate in Cristo, cioè avessero Cristo per Capo. E questo per la sua benevolenza e per l’abbondanza della grazia che ci è stata concessa: “Egli l’ha abbondantemente riversata su di noi [la grazia] con ogni sapienza e intelligenza, poiché egli ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto nella sua benevolenza aveva in lui prestabilito per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1,8-10).

In questo “tutte le cose” è compreso principalmente il grande mistero della Chiesa come corpo e come sposa di Cristo, ed è compreso anche il matrimonio cristiano, che partecipa a nuovo titolo di quell’unione Cristo-Chiesa e ne è un segno visibile[33]. Per questo Paolo chiama anche “mistero” il disegno della volontà di Dio prima della creazione del mondo già all’inizio della lettera, nella stessa sezione dove menziona la ricapitolazione di tutte le cose in Cristo (Ef 1,9)[34]. E lo menzionerà più volte lungo tutto il suo scritto (3,3; 3,4; 3,5; 3,9; 5,32; 6,19).

d. A modo di conclusione: unità del corpo di Cristo e ricezione dell’eucaristia

Il testo della Lettera agli Efesini appena studiato è pieno di misteri ed è molto ricco nel suo contenuto teologico. Una delle realtà che vengono illuminate è appunto il matrimonio cristiano (il matrimonio sacramentale), per l’intrinseca relazione che ha verso il mistero dell’unione di Cristo e della Chiesa, del quale è una partecipazione per la grazia e allo stesso tempo un segno o sacramento.

Il matrimonio cristiano, dunque, rispecchia l’unione indissolubile di Cristo e la Chiesa. È sacramento di questa unione, e produce una peculiare unità tra i coniugi in Cristo, per la maggiore partecipazione alla grazia, e dunque per la maggiore unione di ciascuno dei coniugi con Cristo Capo. In questo senso il matrimonio cristiano richiama la pienezza di questa incorporazione a Cristo che si trova sacramentalmente nell’Eucaristia.

L’Eucaristia, infatti, è il sacramento del Corpo e del Sangue di Cristo che produce efficacemente l’unità della Chiesa. Questa è la grazia ultima e più consumata che produce il sacramento dell’Eucaristia in colui che lo riceve con le dovute disposizioni: causa l’incorporazione a Cristo, e in Cristo l’unità della Chiesa[35]. Per questo il sacramento del matrimonio e il sacramento dell’Eucaristia si richiamano a vicenda[36].

Così, dunque, il matrimonio è sacramento dell’unità tra Cristo e la Chiesa, e l’Eucaristia è il sacramento che produce tale unità nel modo più perfetto possibile in questa vita. Ma proprio per questo mutuo richiamo, quando si è distorta quell’immagine dell’unione tra Cristo e la Chiesa che è il matrimonio sacramentale per la separazione e posteriore unione a un’altra persona che non è il proprio coniuge, ci si viene a trovare in uno stato che oggettivamente contraddice l’unione tra Cristo e la Chiesa, unione che trova la sua pienezza appunto nella ricezione dell’Eucaristia.

Alla luce di queste riflessioni, basate sull’esegesi del testo di Ef 5,21-33, si capisce uno dei profondi motivi teologici per cui il Magistero della Chiesa insegna che i fedeli che si trovano in una situazione di questo tipo non possono ricevere il sacramento dell’Eucaristia[37]. Così insegna San Giovanni Paolo II: “La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia”[38].

Nello stesso documento il Santo Papa esorta i pastori a discernere le situazione, ed ad aiutare queste persone in tutti i modi possibili, con vera carità e sollecitudine pastorale, affinché possano partecipare della vita della Chiesa, senza però ricevere il sacramento dell’Eucaristia: “Insieme col Sinodo, esorto caldamente i pastori e l’intera comunità dei fedeli affinché aiutino i divorziati procurando con sollecita carità che non si considerino separati dalla Chiesa, potendo e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla sua vita. Siano esortati ad ascoltare la Parola di Dio, a frequentare il sacrificio della Messa, a perseverare nella preghiera, a dare incremento alle opere di carità e alle iniziative della comunità in favore della giustizia, a educare i figli nella fede cristiana, a coltivare lo spirito e le opere di penitenza per implorare così, di giorno in giorno, la grazia di Dio. La Chiesa preghi per loro, li incoraggi, si dimostri madre misericordiosa e così li sostenga nella fede e nella speranza”[39].

[1] Per gli altri aspetti di questa pericope si veda la lunga presentazione di H. Schlier, La Carta a los Efesios (Salamanca2 2006), 330-367.

[2] Dal punto di vista della critica testuale è un testo sicuro. Tra molte piccole varianti, ci sono soltanto due di certo rilievo. La prima è nel v. 22, dove alcuni testimoni aggiungono l’imperativo siano sottomesse (hupotassesthōsan) ed altri l’imperativo sottomettevi o siate sottomesse (hupotassesthe) tra ai loro mariti e come al Signore, nella frase “le mogli [lo] siano ai loro mariti, come al Signore”. Ma il senso non cambia se il verbo è ommesso, come leggono i migliori testimoni (il Papiro Chester Beatty [P46] ed il Codex Vaticanus [B]), perché il verbo siate sottomessi del versetto precedente regge ancora la frase del v. 22 e non è necessario che sia ripetuto. L’altra variante è nel v. 30, dove alcuni testimoni, dopo la frase siamo membra del suo corpo aggiungono della sua carne e delle sue ossa, probabilmente sotto l’influsso del v. 23 che anticipa la citazione di Gn 2,24 nel v. 31. Su queste due lezioni varianti cfr. B. Metzger, A Textual Commentary on the Greek New Testament (Stuttgart2 1994) 541.

[3] L’esortazione iniziale del v. 21 vige in qualche modo anche per le altre due pericopi che seguono, nelle quali S. Paolo si rivolge ai figli e ai genitori (Ef 6,1-3) e agli schiavi e ai padroni (Ef 6,5-9). Alcuni autori dividono in un’altra maniera, legando il v. 21 a ciò che precede, come una esortazione conclusiva della sezione anteriore. In questo modo la nostra pericope comincerebbe nel v. 23, allorquando l’Apostolo si rivolge ai mariti; cfr. ad esempio J. Knabenbauer, Commentarius in S. Pauli Apostoli Epistolas ad Ephesios, ad Philippenses et ad Colossenses (Parigi 1912) 153-154.

[4] Cfr. H. Schlier, La Carta a los Efesios, 331.

[5] Sul senso del titolo e sulla sua applicazione a Cristo nel NT cfr. W. Foerster – G. Fohrer, “sōtēr”, in TDNT (Theological Dictionary of the New Testament), vol. VII, 965-1024. Una presentazione concisa in G. Ruiz Freites, El carácter salvífico de la muerte de Jesús (Vaticano 2010), 124-125.

[6] Paolo parla certamente ai cristiani di Efeso, e per questo sta parlando del matrimonio cristiano. Ritengo che si tratti del sacramento del matrimonio, a prescindere dal fatto che la Volgata traduca la parola greca mustērion per sacramentum nel v. 32. La realtà stessa di cui parla Paolo, nella quale s’intrecciano l’unità invisibile tra Cristo e la Chiesa con quella visibile degli sposi cristiani, ci induce a questa convinzione. D’altra parte, come dice B. Prete, creazione e redenzione sono volute dallo stesso Dio, per cui il matrimonio naturale non è in opposizione al matrimonio sacramentale; cfr. Matrimonio e continenza nel cristianesimo delle origini (Brescia 1979) 153. Di fatto, il Concilio di Trento rimanda a questo testo della Lettera agli Efesini quando dichiara: “Gratiam vero, quae naturalem illum amorem perficeret et indissolubilitatem unitatem confirmaret coniugesque sanctificaret ipse Christus, venerabilium Sacramentorum institutor atque perfector, sua nobis passione promeruit. Quod Paulus apostolus innuit dicens: viri, diligete uxores vestras, sicut Christus, etc.”; Sessione XXIV: DS 969. Su questo tema cfr. M. Zerwick, Der Brief an die Kolosser. Der Brief an die Ephesser (Stuttgart 1965) 61; J. M. Bover, “Sacramentalidad del matrimonio cristiano según la Epístola a los Efesios”, in Teología de San Pablo (Madrid4 2008), 630-641; M. A. Fuentes, Salvar el matrimonio o hundir la civilización, Maghtas Ed. (Barbastro 2015), 85-88; H. Schlier, La Carta a los Efesios, 328-345, e nota 267; A. Martin, “Attestazioni bibliche sul matrimonio: nuove piste di ricerca. Osservazioni su 1 Cor 7,1-16: Mt 19,1-9 [e 5,31-32]; Ef 5,21-33”, in Associazione Teologica Italiana, Sacramento del matrimonio e teologia. Un percorso interdisciplinare, a cura di V. Mauro (Milano 2014) 67-68.

[7] Sul valore di questi termini paolini, che esprimono la comunione o solidarietà in Cristo, cfr. J. M. Bover, “El dogma de la redención en las Epístolas de San Pablo”, in Teología de San Pablo, 320-321.326-329. Sul senso proprio e sul rapporto di questi concetti con il battesimo cfr. H. Schlier, La Carta a los Efesios, 142-149.

[8] La stessa affermazione si trova in Rm 12,5.

[9] Su questo cfr. H. Schlier, La Carta a los Efesios, 334-335. Da parte sua, A. Martin sottolinea che le particelle che nella pericope mettono in stretto rapporto la relazione Cristo-Chiesa e quella marito-moglie (hōs, houtōs, kathōs) non solo hanno un valore esemplare, stabilendo una somiglianza, ma immettono pure una sfumatura causale, cioè: “mariti, amate come Cristo ha amato”, ma anche “mariti, amate perché Cristo ha amato”; cfr. “Attestazioni bibliche sul matrimonio: nuove piste di ricerca”, 64, nota 47.

[10] La particella kai che precede nel testo greco la frase ha dato se stesso per Lei ha qui un senso esplicativo.

[11] L’espressione greca heauton paredōken huper autēs è di è di chiaro taglio sacrificale e allude in altri testi paolini al sacrificio di Cristo: Ef 1,4; 5,2; Rm 8,32 (cfr. Rm 4,25); Gal 2,20; Tt 2,14; 1 Tm 2,6. Sul senso del verbo consegnarsi in questi contesti cfr. F. Büchsel, “didōmi”, in TDNT, vol. II,166. Sul senso sacrificale dell’uso della preposizione huper in questi contesti cfr. H. Riesenfeld, “huper”, in TDNT, vol. VIII, 511. La preposizione si trova nelle formule dell’istituzione dell’Eucaristia con netto valore sacrificale: corpo consegnato per altri / sangue versato per altri (1 Cor 11,24; Lc 22,19-20; Mc 14,24); cfr. X. Léon-Dufour, “Prenez! Ceci est mon corps pour vous”, NRT 104 (1982) 227-230; E. H. Blakeney, “Hyper with the Genitive in the N.T.”, ET 55 (1943-44) 306; O. Böcher, Exegetisches Wörterbuch zum Neuen Testament, H. Balz – G. Schneider ed., vol. I, col. 88-93; D. Moessner, Lord of the Banquet. The Literary and Theological Significance of the Lukan Travel Narrative (Pennsylvania 1989) 323; D. Senior, The Passion of Jesus in the Gospel of Luke (Collegeville 1989) 61-63; I. H. Marshall, Last Supper and Lord’s Supper (Exeter 1980) 87-93; J. Jeremias, The Eucharistic Words of Jesus (Philadelphia 1977) 225-231; G. Rossé, Il Vangelo di Luca. Commento esegetico e teologico (Roma 1992) 863-864.

[12] Cfr. Rm 4,25; Gal 1,4; Tit 2,14. Su questo particolare cfr. H. Schlier, La Carta a los Efesios, 335-336.

[13] Paolo introduce entrambe proposizioni con la congiunzione hina seguita dai verbi al congiuntivo; cfr. M. Zerwick, Biblical Greek (Roma5 1990), §340.

[14] L’espressione “con il lavacro dell’acqua mediante la parola” indica chiaramente il battesimo. i loutrōi, lavacro in dativo, è un complemento di modo. Lo stesso termine è utilizzato da Paolo per indicare il battesimo anche in Tt 3,5. D’altra parte, il termine è usato per indicare i bagni rituali o sacramentali anche nel cristianesimo primitivo; cfr. A. Oepke, “loutron”, in TDNT, vol. IV, 301-307. Il complemento dell’acqua (tou hudatos) di per sé non è necessario, ma indica, insieme alla parola (rēma), quali siano i due elementi costitutivi dell’istituzione salvifica del battesimo. La parola (rēma) è sicuramente la formula battesimale. Così, ad esempio, H. Schlier, La Carta a los Efesios, 337, che sostiene questa interpretazione sulla scia di numerosi autori antichi e moderni, tra cui Giovanni Crisostomo, Teodoreto, Giovanni Damasceno, Erasmo, Cornelius a Lapide, von Soden, Haupt, Henle, Besler, Knabenbauer, Meinertz, Huby, Staab. S. Tommaso commenta: “Questo lavacro ricava il suo potere dalla passione di Cristo. Rm 6,3: Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte; Ez 36,25; Zc 13,1. E questo con ‘la parola di vita’, che sopraggiungendo all’acqua le dà il potere di purificare. Mt 28,18: andate in tutto il mondo, ammaestrate tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”; cfr. Super Epistolas S. Pauli Lectura, vol. II, Ad Ephesios (Torino 1953) 74, par. 323.

[15] “Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte? Per mezzo del battesimo dunque siamo stati sepolti insieme a lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Rm 6,3-5); cfr. Col 2,12.

[16] “Come infatti il corpo è uno solo e ha molte membra, e tutte le membra del corpo, pur essendo molte, sono un corpo solo, così anche il Cristo. Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo, Giudei o Greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito” (1 Cor 12,12-13); cfr. Gal 3,27-28; 1 Cor 1,13-15.

[17] Su questo punto cfr. H. Schlier, La Carta a los Efesios, 338-339.

[18] Su questo uso cfr. F. Blass – A. Bebrunner – F. Rehkopf, Grammatica del Greco del Nuovo Testamento (Brescia2 1997), § 283-284.

[19] Cfr. J. Leal, La Carta a los Efesios, in La Sagrada Escritura. Texto y comentario por Profesores de la Compañía de Jesús, vol. II, BAC ed. (Madrid 1962) 723-724.

[20] Su questo uso della particella hoti cfr. M. Zerwick, Biblical Greek, 142-144 (§ 416-420).

[21] È in questo punto che alcuni testimoni aggiungono, dopo siamo membra del suo corpo, la frase della sua carne e delle sue ossa che va certamente nel senso di ciò che Paolo sta dicendo e corrisponde alla sua mente. Ma la lezione non è sostenuta dai principali testimoni e sembra piuttosto una glossa antica ispirata a Gn 2,23 (LXX), quando Adamo vede la donna ed esclama: “questa adesso sì è osso delle mie ossa e carne della mia carne”. Una presentazione della discussione tra gli autori sulla possibile autenticità di questa variante in H. Schlier, La Carta a los Efesios, 342-343, nota 259.

[22] Paolo usa il medesimo procedimento di alternare corpo e carne in altri testi; cfr. 1 Cor 6,16; 2 Cor 4,10-12; 12,7; Gal 6,17. I due termini designano l’uomo nella sua corporeità carnale; cfr. F. Baumgärtel – E. Schweizer, “sōma”, in TDNT, vol. VII, 1024-1094.

[23] Così S. Tommaso, Super Epistolas S. Pauli Lectura, vol. II, Ad Ephesios (Torino 1953), 76, par. 331.

[24] Per la forza peculiare di questa unione nel testo della Genesi cfr. P. Mankoswki, “L’insegnamento del Signore su divorzio e seconde nozze: i dati biblici”, in Permanere nella verità di Cristo. Matrimonio e comunione nella Chiesa Cattolica, R. Dodaro Ed. (Siena 2014), 32-34.

[25] Cfr. Ef. 1,3-14 e ciò che abbiamo detto sopra, commentando l’espressione santa e immacolata riferita alla Chiesa nel v. 27.

[26] La Carta a los Efesios, 344. Nel suo commentario, San Girolamo dice che Adamo fu il primo uomo e il primo profeta perché profetizzò, con la sua esistenza, Cristo e la Chiesa; cfr. Comentario a la Epístola a los Efesios, Libro III, in Obras completas de San Jerónimo, vol. IX, BAC Ed. (Madrid 2010) 550.

[27] Su questo punto cfr. A. Martin, “Attestazioni bibliche sul matrimonio: nuove piste di ricerca”, in Associazione Teologica Italiana, Sacramento del matrimonio e teologia. Un percorso interdisciplinare, a cura di V. Mauro (Milano 2014), 62-65.

[28] Il mistero non è principalmente il segno, o il simbolismo, o il tupos, anche se lo include, ma la realtà nascosta dietro. Per Paolo, specialmente nella Lettera agli Efesini, un musterion è una realtà escatologica o messianica che Dio ha nascosto e va progressivamente rivelando (cfr. Ef 3,1-14). Il matrimonio cristiano, essendo in rapporto con l’unione tra Cristo e la Chiesa, entra anch’esso a formar parte dello stesso grande mistero; cfr. J. Leal, La Carta a los Efesios, in La Sagrada Escritura. Texto y comentario por Profesores de la Compañía de Jesús, vol. II, BAC ed. (Madrid 1962) 723-724.

[29] Questa comprensione della parola mustērion è in consonanza con il linguaggio paolino; cfr. Ef 1,9; 3,3; 6,19; Rm 11,25; 16,25; 1 Cor 4,1; 13,2; 14,2; 15,51; 2 Tes 2,7; 1 Tm 3,9.19; Col 1,26-27; 2,2; 4,3. Su questo si veda G. Bornkamm, “mustērion”, in TDNT, vol. IV, 819-824.

[30] Per S. Tommaso la citazione adoperata da Paolo è tra quei testi dell’Antico Testamento che secondo il suo senso letterale possono applicarsi sia a Cristo sia ad altri. Ma si riferiscono a Cristo in maniera principale e agli altri in quanto erano figure di Cristo: “Quaedam vero de Christo et de aliis exponi possunt, sed de Christo principaliter, de aliis vero in figura Christi, sicut praedictum exemplum. Et ideo primo exponendum est de Christo et postea de aliis”; Ad Ephesios, 77, par. 335.

[31] Cfr. A. Martin, La tipologia adamica nella Lettera agli Efesini (Roma 2005) 284-287.

[32] Il mistero di Cristo e della nostra incorporazione a Lui è menzionato in diversi modi lungo tutta la lettera; cfr. Ef 1,9; 3,3.4.9; 5,32; 6,19.

[33] Il concetto di “ricapitolare” (anakefalaiōsasthai in Ef 1,10) è di per se ambiguo. Ma in questo contesto indica che la volontà di Dio già prima della creazione del mondo era collocare Cristo al di sopra di tutto come Capo, cioè come principio che governa, unifica e dà vita (cfr. Ef 4,15-16). Questo vale in modo particolare per la Chiesa, della quale viene chiamato “Capo” in senso proprio più volte nella medesima lettera (ad es. 1,22; 4,15; 5,23) ed in altri scritti di Paolo (1 Cor 11,3; Col 1,18; 2,10; 2,19). Nella creazione di Adamo ed Eva, dunque, e nel volere che i due diventassero una sola carne, questo mistero di Cristo come Capo della Chiesa era già presente nel disegno di Dio. Sul concetto di ricapitolare si veda H. Schlier, “kefalē, anakefalaioomai”, in TDNT, vol. III, 681-682. Per una spiegazione più completa dell’uso in Efesini si veda H. Schlier, La Carta a los Efesios, 80-87.

[34] Si tratta di un inno di benedizione o “eulogia” che va da 1,3 fino a 1,14.

[35] Cfr. Gv. 6,56; 1 Cor 10, 16-17; S. Tommaso, Summa Theologiae, III, 48, 2 ad 1; III, 79, 1; Catechismo della Chiesa Cattolica, 1396.

[36] Del resto, questo succede con tutti i sacramenti, dei quali l’Eucaristia è la pienezza perché contiene non solo la grazia ma anche l’Autore della grazia; cfr. S. Tommaso, Summa Theologiae, III, 73, 3. Citando S. Tommaso, il Concilio Vaticano II insegna: “Tutti i sacramenti, come pure tutti i ministeri ecclesiastici e le opere d’apostolato, sono strettamente uniti alla sacra eucaristia e ad essa sono ordinati. Infatti, nella santissima eucaristia è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra pasqua”; Presbyterorum ordinis, 5.

[37] L’altro motivo teologico è l’oggettivo stato di peccato mortale, per la violazione del sesto comandamento del Decalogo. Su questo si veda S. Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Ecclesia de Eucharistia (17/IV/2003), 34-46, specialmente 36-37. In questo ultimo numero si legge: “Il giudizio sullo stato di grazia, ovviamente, spetta soltanto all’interessato, trattandosi di una valutazione di coscienza. Nei casi però di un comportamento esterno gravemente, manifestamente e stabilmente contrario alla norma morale, la Chiesa, nella sua cura pastorale del buon ordine comunitario e per il rispetto del Sacramento, non può non sentirsi chiamata in causa. A questa situazione di manifesta indisposizione morale fa riferimento la norma del Codice di Diritto Canonico sulla non ammissione alla comunione eucaristica di quanti «ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto» (CIC, c. 915; CEO, c. 712)”.

[38] Esortazione Apostolica Post-Sinodale Familiaris consortio (22/XI/1981), 84.

[39] Ibidem.

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