Santa Sindone e il Nuovo Testamento

La Santa Sindone di Torino

La Santa Sindone di Torino

         Sulla Santa Sindone, vogliamo aggiungere ancora due articoli tratti dalle Atti del II Congresso internazionale di Sindonologia, svoltosi a Torino, 1978. Sono pressi dal volume: La Sindone e la scienza, Paoline, Torino 1978. I frammenti degli articoli presentati, interessanti perché da autori non cattolici, esprimono comunque un grande rispetto per il testo evangelico, e un grande rigore nell’esame della reliquia sacra della Sindone di Torino. L’esposizione del pensiero di questi autori non implica necessariamente una condivisione di tutte ed ogni singola affermazione realizzata.

LA SINDONE E LA RESURREZIONE

(Traduzione di una buona parte dell’articolo di David Vaughan, in volume citato, pp. 461-467; traduzione in pp. 468-474).

        La controversia sulla validità della resurrezione di Gesù si è soprat­tutto incentrata sul fatto della tomba vuota e sulle «apparizioni» ripor­tate nei Vangeli e da S. Paolo nella prima Lettera ai Corinzi 15.

        Gli scettici hanno insinuato che le donne e gli altri discepoli si fossero diretti erroneamente a un’altra tomba in quella prima Domenica di Pa­squa, o che la salma fosse stata asportata dalla tomba vuoi da Giuseppe d’Arimatea, vuoi dalle guardie Giudaiche o dai soldati Romani, oppure dal giardiniere o da un gruppo di discepoli. Anche un’altra tesi è tut­tora corrente: che Gesù, ripresa conoscenza dal profondo coma, in qualche modo sia evaso dalla tomba sigillata e in seguito abbia vissuto il tempo sufficiente perché alcuni dei suoi seguaci potessero aver procla­mato di averlo visto risorto da morte.

        Alcuni studiosi hanno supposto che i discepoli terrorizzati e abbattuti desiderassero con tale intensità di vedere il loro Maestro defunto nuova­mente risorgere come aveva promesso, da soffrire di una allucinazione soggettiva — per taluni individuale, per altri collettiva — credendo sin­ceramente che Gesù fosse stato miracolosamente risuscitato da Dio. Al­cuni teologi e laici cristiani credono che, al fine di risollevare il morale dei discepoli in modo da ispirar loro di fondare entro il Giudaismo una nuova setta che sarebbe poi sorta improvvisamente come la Chiesa Cri­stiana, o Dio stesso o Gesù dall’aldilà della tomba avessero causato una oggettiva allucinazione o esperienza di apparizione in parecchi che ave­vano conosciuto il Maestro in vita.

        Forse la maggioranza dei Cristiani, alcuni magari senza una idea chiara su come il «miracolo» in realtà fosse avvenuto, credevano in una com­pleta resurrezione della salma di Gesù uscita dalla tomba chiusa e sigil­lata e nella sua reale apparizione sia individualmente ai discepoli sia a gruppi come è descritto nelle scritture, culminando poi nell’Ascensione.

        Da Matteo 27, 59-60 e Marco 15,46, sappiamo che Giuseppe d’Ari­matea aveva acquistato una sindone monda e messa a disposizione la sua tomba nuova per la sepoltura di Gesù — presumibilmente per evitare a questa vittima dell’ingiustizia di subire il disonore rituale della tomba dei criminali. Nicodemo, probabilmente per ritardare alla salma il processo di putre­fazione dal momento che non vi era tempo in quel venerdì prima dell’ini­zio del sabato, fornì 100 libbre di aromi (Giovanni 19,39).

        Gli esatti luoghi di residenza della Sindone di Torino sono garantiti dall’anno 1354 quando fu collocata nella chiesa di Lirey a circa cinquanta miglia a sud-est da Parigi. Nel 1452 fu donata al Duca Ludovico I di Savoia che costruì per essa a Chambery una sacrestia, in cui fu salvata nell’incendio del 1532, pur restando bruciacchiata e danneggiata in modo da necessitare le riparazioni delle Povere Clarisse. Nel 1578 la Sindone fu infine trasportata dalla Cappella ducale (ormai reale) alla Cattedrale di Torino al fine di risparmiare all’Arcivescovo di Milano, Cardinale Carlo Borromeo, di dover attraversare a piedi le Alpi per recarsi a pre­gare presso la reliquia.

         Andando indietro nel tempo, dal 1354 occorre un intervallo di 150 anni per giungere al 1203 quando Roberto de Clary, cronista ufficiale della Quarta Crociata, registra che in Costantinopoli «c’era un monastero conosciuto come Signora Santa Maria di Blacherne nel quale veniva conservata una Sindone in cui era stato avvolto nostro Signore. Tutti i venerdì veniva esposta in modo che era possibile vedere l’immagine di Nostro Signore». Più avanti accenna che dopo il tragico saccheggio e bottino della città da parte di gruppi rivali di Crociati Cristiani nel 1204, «né Greco né Francese seppe quel che fosse avvenuto di questa Sin­done». Alcuni studiosi ritengono che fosse venerata nella Chiesa di S. Stefano a Besançon dal 1207 al 1349 prima di venire portata a Lirey.

        Jan Wilson, storico della Sindone di Torino, cita la tradizione che uno dei primi discepoli Cristiani di nome Taddeo o Addai abbia portato con sé la Sindone alla corte del re Abgar V di Edessa che regnava tra i 13 e 50 anni a.C. Nascosta evidentemente a causa dell’ultima perse­cuzione dei Cristiani in Edessa, la tela venne riscoperta in una nicchia sopra una delle parte della città nell’anno 525 e ben presto divenne il prototipo di centinaia di Mandylion o «vero ritratto» dipinti tra il sesto e il dodicesimo secolo. In tutti questi compaiono parecchie delle circa venti peculiarità caratteristiche del volto della Sindone di Torino ana­lizzate da Paolo Vignon. Fr. Mauro Green conclude, in base a questa evidenza artistica: «Credo che abbiamo già una evidenza sufficiente per indicare fuori di ogni ragionevole dubbio che, dovunque si trovasse, la Sindone di Torino esisteva almeno dal sesto secolo in poi e per indu­zione esisteva indietro fino al tempo di Cristo». I Vangeli riferiscono con certezza che i panni funebri furono trovati nella tomba vuota.

        In Luca 24,12, in un versetto che non compare in taluni manoscritti precedenti, leggiamo: «Pietro, nondimeno, si alzò e corse alla tomba, e, scrutando all’interno, vide gli involucri e null’altro, e tornò a casa sorpreso di quanto era avvenuto» (NEB). Il Quarto Vangelo descrive «l’altro discepolo» che accompagna Pietro alla tomba e come entrambi videro «i teli giacenti». L’ «altro discepolo» «vide e credette». Presu­mibilmente Pietro fece la stessa cosa subito — o ben presto in seguito — poiché ci viene detto, «fino allora essi non avevano compreso le scritture, che rivelavano come egli doveva risorgere dai morti» (Giovanni 20,9).

        Molti Cristiani credono che quello che ha determinato il discepolo (o i discepoli) a «vedere e credere» sia stato il luogo e la posizione dei panni funebri, i quali dimostravano in modo convincente che il cadavere non avrebbe potuto essere stato separato da essi da un agente estraneo ma doveva misteriosamente essersi evaporato o sparito attraverso la Sindone, che ora giaceva senza essere stata mossa ma senza ormai più rinchiudere un corpo. Pochi studiosi, però, propendono a credere che quello che Pietro e Giovanni videro fosse l’immagine frontale di Cristo morto ritratta in tutta la sua lunghezza sulla metà superiore della Sin­done. Tale cosa è implicita nel testo scritturale del rito Mozarabico svilup­patosi nei secoli sesto e settimo nella Spagna Visigota. Esso si traduce (dal latino): «Pietro corse alla tomba con Giovanni e vide nei lini le recenti vestigia dell’uomo morto e risorto».

         Fu nel 1898 che un fotografo dilettante, il signore Secondo Pia, ottenne il permesso di fotografare la Sindone di Torino per la primissima volta. Egli naturalmente non si aspettava altro che di ottenere la riproduzione dell’immagine quale la vedeva con i propri occhi. Figurarsi allora la sua sorpresa e sgomento quando per la prima volta sollevando contro la luce il negativo di questa prima fotografia, trovò senza essersela attesa l’im­magine sindonica sostituita da una figura invertita con equivalente chia­rezza di dettagli nei chiari e negli scuri: in breve rendersi conto che il negativo a mani sue era un positivo e che l’immagine sulla Sindone era di già un negativo!

        Paolo Vignon e il suo assistente René Colson condussero esperimenti su cadaveri recenti. Essi collocarono su di un cadavere una pezza di lino imbevuta di una miscela di olio di oliva e aloe (una antica ricetta mosaica per preparare unzioni funebri) e inumidita con soluzione ammoniacale — un sostituto dell’urea prodotta dalla copiosa sudorazione come si fa in alcune morti con grande agonia. Trovarono che, se un corpo morto recentemente è posto entro un lenzuolo o sindone per almeno 24 ore ma non più di 48 circa (cioè prima dell’inizio della putrefazione) si forma una immagine negativa color ruggine, per quanto mai con la chiarezza di lineamenti della Sindone di Torino. Questo processo fotografico è causato dai vapori di carbonio di ammonio derivanti dalla fermentazione dell’urea e gli aromi. Vignon osservò nei suoi esperimenti (ripetuti dopo d’allora da altri scienziati quali il Dott. Judica-Cordiglia e il Dott. Romanese con successo limitato) che i tratti più chiari corrispondono ai punti di contatto diretto tra il corpo e la tela. Inoltre quelle parti del corpo che si trovano a circa un centimetro di distanza dalla tela lasciano segni; gli incavi del corpo supino essendo riprodotti più deboli che non le parti prominenti. L’implicazione era inevitabile: l’immagine bruna era stata formata parte per contatto e parte per proiezione, agendo il vapore in ragione inversa della distanza tra i dettagli del corpo e la superficie del lino.

        Tuttavia Vignon stesso ebbe a fare delle riserve riguardo alla sua Teoria Vaporigrafica. Le immagini da lui ottenute, al par di quelle degli altri sperimentatori fino adesso, rassomigliano in certo qual modo all’immagine sulla Sindone di Torino ma sono insufficienti quanto a precisione e dettagli, particolar­mente riguardo al volto. Sotto questo aspetto la Sindone di Torino rimane unica. Qualche fattore supplementare, come calore o radiazione, sembra essere stato implicato in aggiunta agli altri. Geoffrey Ashe ha così com­mentato: «La Sindone ha una spiegazione se ha avvolto un corpo umano al quale sia successo qualcosa di straordinario. Non è spiegabile in altro modo».

        Posto davanti al problema di comprendere come la salma di Gesù abbia potuto uscire dai suoi panni funebri senza aprirli, ho trovato l’aiuto di una analogia nel rendermi conto che un blocco di ghiaccio può uscire fuori da un sacco di stoffa in cui era chiuso e sigillato purché si abbia del calore. Applicato preferibilmente in modo breve ed intenso, il calore trasforma il ghiaccio solido in un vapore gassoso che può fuoriuscire dalla stoffa senza lasciarsi dietro nessun deposito dell’acqua del suo stato intermedio. Difatti lo stesso Sig. Ashe ha introdotto il fattore caldo in un interes­sante esperimento. Per mezzo di un monile di ottone riscaldato, che rap­presentava un cavallo in rilievo, ha ottenuto su di una tela una immagine bruciacchiata che presenta una stretta somiglianza con l’immagine della Sindone e il suo negativo fotografico ha rilevato una immagine positiva di un certo realismo.

        Qualcosa di paragonabile ma molto più spinto è avvenuto quando la prima bomba atomica fu sganciata sul Giappone. Nel suo Penguin libro Hiroshima John Hersey include una fotografia di un muro sul quale è indelebilmente impressa la sagoma di un uomo su di una scala a piuoli. L’uomo reale e la sua scala furono certamente dematerializzati, ma l’in­tensa ondata di radiazione inaridente che li ha avvolti ha lasciato il suo ricordo fotografico. Può darsi che qualche agente di questo tipo fosse implicato in maniera più delicata nell’impressione dell’immagine sulla Sindone di Torino. Infatti il Sig. Ashe propone «una specie di irradia­zione» o «incandescenza» parzialmente analoga al calore «che abbia prodotto» una quasi-fotografia di Cristo nel ritorno alla vita.

        Abbiamo qualcosa di simile nella Bibbia? Di identico nulla. Però si pensi alla luce abbagliante che accecò Saul sulla via di Damasco — avvenimento in un certo aspetto paranormale, perché Paolo più tardi con­siderava questo avvenimento all’apparenza di una post-resurrezione di Gesù come «uno nato fuori del tempo debito» (1Cor 15,8). Altro avve­nimento, che evidentemente entra nel regno del soprannaturale, è la Tra­sfigurazione, che suggerisce stati superiori della materia intravisti da tre mortali. Mentre Pietro, Giacomo e Giovanni osservavano il loro Maestro pregare «cambiava l’aspetto del suo viso» (Luca 9,29): «brillava come sole» (Mt 17,2); le sue vesti «divennero di un bianco abbagliante» (Luca), «bianche come la luce» (Matteo), e allora Mosè ed Elia, prototipi della Legge e dei Profeti, «apparirono in gloria» (Luca 9,31). S. Paolo più tardi avvertiva i Cristiani di aspettarsi di venir risvegliati da morte avendo smesso il loro corpo fisico per ritrovarsi «elevati in gloria» in un corpo spirituale (I Cor 15, II Cor 5). Dunque non è forse ragionevole di spiegare la Resurrezione col supporre che Gesù già in quella prima Domenica di Pasqua sia pervenuto nel suo corpo spirituale per sollevarlo ai livelli di più alta-frequenza del regno più glorioso di oltre vita?[1]

      Fino ad ora tutta la materia nota ai fisici ha una frequenza costante. Mio figlio diciottenne Geremia mi dice che la scoperta di materia a più alta frequenza può giungere a risolvere l’attuale paradossale teoria duale della luce e degli elettroni, che adesso vengono interpretati ora come particelle ora come onde. In via di ipotesi, mi dice Geremia, l’usuale frequenza della materia può essere elevata ad un livello superiore a quello cui i nostri cinque sensi sono armonizzati. Se così, il processo richiederebbe una maggiore ali­mentazione di energia da una fonte esterna o superiore; parte di questa energia sarebbe inevitabilmente convertita in calore e potrebbe benis­simo manifestarsi in un istante brevissimo ma di intensa liberazione di calore-energia. Una tale alimentazione di energia, suppongo, fu somministrata con delicata maestria di una mente al di sopra della materia dal corpo spirituale di Gesù alla materia atomica del suo cadavere, tra le trenta e trentasei ore dopo la morte. In questo lasso di tempo gli effetti vapori- grafici dei composti del carbonio provenienti dall’urea e gli aromi avreb­bero raggiunto il loro clima ottimale per produrre immagini negative, dal cadavere alla Sindone. Geoffrey Ashe ha applicato ad una tela di lino un cavallino di ottone, riscaldato, al fine di produrre una immagine a fuoco della sua forma. Gesù, credo, al momento cruciale della sua resur­rezione, allineò il suo corpo risorto (l’autore usa spirituale, ma la terminologia è confusa), — e attraverso un flusso o in modo tangenziale — ai suo corpo morto, così da delineare l’immagine materiale. Col far crescere la frequenza atomica del corpo fisico, un breve quanto di calore si irradiò e «fissò» le immagini vaporigrafiche sulla Sindone, con una chiarezza eccezionale di dettagli. Il risultato fu la negativa, di color ruggine, di immagini simili a bruciature, conservato sino ad oggi.

(Traduzione di M. Delfina Fusina)

L’autore prosegue l’articolo con delle considerazioni nel campo dei fenomeni paranormali, che lasciamo ora da parte. Aggiungiamo un pezzo di un altro articolo J. A.T. Robinson, The Shroud and the New Testament, nel volume citato, pp. 265-273 (traduzione, pp. 271-288):

LA SANTA SINDONE E IL NUOVO TESTAMENTO

            Cosa fu allora questo momento o questa energia? Nessuno può dirlo — né forse mai lo potrà. Possiamo tuttavia escludere l’annichilazione della materia nel suo crudo senso letterale per cui tutta la massa materiale del corpo si trasformò, secondo la formula E = Mc2, in una equivalente quantità di energia. Ciò avrebbe provocato la distruzione della Sindone, di Gerusalemme e di qualunque altra cosa cui potremmo pensare. II «gran terremoto» di cui parla Matteo (28,2) sarebbe stato una ben piccola cosa! Non ci troviamo qui di fronte a una trasformazione di materia fisica in energia fisica secondo le regole di un esperimento riproducibile. Se qualcosa vogliamo proprio dire, sembra che ci troviamo piuttosto nel campo irreale di una fisica e psicologia paranormali associati con condizioni spirituali eccezionalmente intense. Le narrazioni evangeliche — e dobbiamo render loro giustizia con l’iniziare a considerarle seriamente parlano di un qualche altro corpo, spirituale e non di carne (come il corpo risuscitato di Lazzaro e degli altri), che potrebbe tuttavia apparire «materializzato». Nel linguaggio degli uomini del Nuovo Testamento si tratterebbe di un corpo di «gloria» o di «luce» o «spirituale», simile a quello degli angeli nella tomba, percettibile solo all’occhio della fede o nella visione (si confronti in particolare la descrizione dell’angelo in Mt 28,3 con quella del Cristo risorto in Ap 1,14), eppure lo presentano come vero e reale corpo (Cristo mangia, parla con i suoi, si lascia toccare).

        I resoconti del Nuovo Testamento sulle apparizioni differiscono in modo considerevole. Non mi sembra però che il diverso grado di materializzazione e la differenza di sito né qua né là sia determinante. Come ogni altro fenomeno in questo campo risulterebbe fortemente dipendente dal soggetto che subisce una tale esperienza. In ogni caso non si tratta del corpo che ci mostra la Sindone. Ciò che essa potrebbe mostrarci potrebbe essere, per così dire, un effetto collaterale della sua formazione, una breve ma intensa scarica di una qualche specie di radiazione fisica sufficiente a lasciare tracce di scoloramento termico sul tessuto. Dovrebbe essere l’ultima traccia, l’ultimo foto-print, come fu, del vecchio corpo, corrispondente più alla pelle squamata di un serpente, ove si eccettui naturalmente il fatto che non si trattò di qualcosa di sostanziale, bensì solo di un’immagine. Eppure, nulla venne lasciato dietro, neppure capelli e unghie, così come nel caso di sorprendente parallelismo che si racconta dei santi buddisti letteralmente «assorbiti in luce». Di Gesù dobbiamo dire in modo inequivocabile, insieme con gli angeli messaggeri: «Non è qui!» (Mc 16,6; Mt 28,6): è vano cercare «fra i morti colui che è vivo» (Lc 24, 5) — anche nella Sindone.

            La Sindone di Torino può non offrire alcun segno di risurrezione, e sicuramente la fede non vorrebbe che ne avesse alcuno. Non possiamo dire, anche a mio parere, se essa presupponga, o anche solo nasconda, un qualche «momento di risurrezione». Per poter dire ciò è necessario mettere a confronto un processo sconosciuto (quello della formazione dell’immagine) con un altro pure sconosciuto (che noi chiamiamo «risurrezione»). Se autentica, non dovrebbe consentire né fede né dubbio. Ma deve certamente renderci meno dimessi. Dovremo scontrarci con la nuova realtà, condizionati tuttavia dalle nostre congetture, scientifiche o religiose. In verità dovrebbe insegnarci, come ogni altro progresso nella conoscenza, che più sappiamo meno sappiamo. Ci dovrebbe indurre umilmente a confessare che, con le parole del mio grande omonimo, il Puritano John Robinson, «Dio ha ancora più verità da far scaturire» dalla sua santa Sindone. Ciò non potrebbe intaccare la mia fede, bensì la mia incredulità.

            Poiché, se nel riconoscere il viso e le mani e i piedi e tutte le sue ferite, noi, come coloro che lo conobbero meglio, fossimo indotti a dire: «E il Signore!» (Gv 21,7), allora forse potremo contarci fra coloro che hanno «visto e creduto». Ma ciò, come San Giovanni afferma chiaramente, non comporta alcuna particolare benedizione (20,29), bensì piuttosto una particolare responsabilità (17, 18-21).

            Nota del Traduttore (Roberto Gallino): Le frasi del Nuovo Testamento riportate nel testo ed i riferimenti numerici si richiamano alla traduzione italiana de «La Sacra Bibbia», Edizioni Paoline, Roma 1964. L’A. nella sua esposizione si riporta alle NER e AV, ossia, rispettivamente, alla New English Bible e alla Authorized Version.

 

[1] La teoria presentata appartiene all’autore. Non suppone una presa di posizione da parte nostra. Ad ogni modo, per corpo spirituale, San Paolo intende, come sempre è stato interpretato e in consonanza con altre sue passaggi, non un corpo irreale o etereo bensì quello che la teologia definisce come “corpo glorioso”; corpo vero e reale (Gesù ha mangiato con i suoi Apostoli dopo la Risurrezione ed è stato toccato da essi), ma non soggetto più alla morte, corruzione e limitatezze proprie della carne e della condizione mortale.

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